La Stampa, 24 marzo 2023
Intervista a Emmanuel Carrère
Come dare forma all’indicibilità della violenza che venerdì 13 novembre 2015 ha attraversato Parigi? Come rendere il coro di storie che raccontano quella notte un’unica voce che parli di giustizia, di dilemmi, del mistero del male e dello stupore del bene? Sono gli interrogativi che muovono V13 di Emmanuel Carrère. Scrivere V13 è innanzitutto fare i conti coi numeri: 130 morti, 350 feriti, 14 imputati, 1.800 parti civili, un fascicolo di 542 volumi alto 53 metri e un processo che dura nove mesi – dal settembre 2021 al giugno 2022 – che Carrère decide di seguire e raccontare. Spinto da un interesse alla «mutazione patologica dell’Islam» osserva, scompone, allarga l’obiettivo per avere lo sguardo d’insieme e poi stringe sui dettagli perché è lì che sempre si nascondono i dilemmi, scrivere nonostante l’impossibilità di dire ciò che è al di là della comprensione, osservare l’inesauribile spinta del bene, l’enigma che anima alcuni parenti delle vittime e li spinge a chiedere giustizia per gli imputati, e poi loro, attentatori, basisti, kamikaze mancati, terroristi che spiegano, terroristi che decidono di tacere. È in questo mondo di sofferenze dettagliate, corpi sezionati dalla violenza di cui la giustizia prova a tutelare la memoria, che Carrère si fa narratore, attraversando ogni giorno il cancello di sicurezza, entrando nella «scatola» del processo, ascoltando vite che non sono la sua. V13 è il racconto di dettagli microscopici cuciti all’analisi della Storia che li ha generati, è insieme coro e soliloquio, il più possibile vicino alla fatica dei sopravvissuti, il più distante possibile ad unire i punti degli eventi.Carrère ci porta nell’infinito presente, nella ripetitività ineliminabile del dolore quando deve essere descritto affinché ci sia giustizia. Si chiede, ci chiede, cosa sia la giustizia che ci aspettiamo. Ci chiede di guardare in faccia i colpevoli, chiederci chi si nasconda dietro alle loro parole ingannevoli, ai loro ostinati silenzi.Ci siamo domandati a lungo chi fossero i sostenitori dello Stato Islamico, giovani come Salah Abdeslam che abita una terra di mezzo. Non è particolarmente carismatico, né particolarmente convinto del sostegno all’Isis, visto che non sapremo mai la sua verità sugli eventi: ha scelto di non farsi saltare in aria, e se sì, perché. Tuttavia Abdeslam dice una frase che lei cita tre volte nel libro, lamentando che non si facesse nessuno sforzo per capire gli jihadisti dice: «È come se si leggesse soltanto l’ultimo capitolo di un libro: il libro bisognerebbe leggerlo dall’inizio».«Nel rimproverare che del libro venisse letto solo l’ultimo capitolo, credo che Abdeslam stesse dicendo che l’Isis sia stato molto più di quello che abbiamo capito, era il collettivo sopra l’individuo. Non penso che lui fosse davvero radicalizzato. Penso piuttosto che fosse influenzato dalle motivazioni degli altri, e in molti vivevano situazioni analoghe, pensavano cioè che i fratelli maggiori, i cugini, stessero davvero combattendo una guerra giusta. Come Sofien Ayari, uno dei pesci grossi del processo. Nessuno di noi si aspettava che avrebbe parlato, men che meno a lungo e invece non solo parla ma per sei ore».Per le vittime si prova pietà, scrive, ma è dei colpevoli che si cerca di capire la personalità. Qual era quella di Ayari?«Ayari arriva da una buona famiglia tunisina, un giovane potrei dire borghese, che decide di andare in Siria per una scelta più politica che religiosa, almeno all’inizio. Hayari pensava di partire per sostenere la lotta contro la tirannia e i crimini di Bashar al-Assad, sembra terribile dirlo, ma era analogo a quello che negli anni Trenta motivava taluni a unirsi alle Brigate Internazionali contro le forze nazionaliste del generale Francisco Franco. Ayari ha trascorso sei ore a spiegare in dettaglio le sue ragioni, le ragioni di chi, almeno all’inizio, era persino orgoglioso della scelta fatta, perché si sentiva parte di una causa giusta, la difesa di un popolo sottomesso a un tiranno. La sua scelta, diceva, era all’inizio un atto di solidarietà verso persone che stavano soffrendo. Poi è arrivato in Siria e ha capito che era tutto decisamente più confuso, ha capito quanto fosse difficile distinguere non solo le fazioni ma i nemici. Si è detto: non è per questo che sono venuto qui. Per questo ritengo la sua testimonianza una delle più interessanti, perché ci ha allontanato da uno schematismo».Ayari, scrive nel libro, parla idealmente a Nadia Mondeguer, una delle figure centrali. Egiziana, conosce perfettamente il mondo arabo, studiosa della Fratellanza Musulmana. Assiste al processo per i corresponsabili della morte di sua figlia Lamia, e chiede per loro una difesa giusta. Nadia Mondeguer il libro evocato da Abdeslam lo conosce dall’inizio.«Nadia, tra i parenti delle vittime, era tra le più animate da un sincero desiderio di capire, di comprendere cosa avesse mosso quei ragazzi, coetanei dei loro figli, a uccidere. Nadia, come ricordava, non solo conosceva ma amava e ama il mondo arabo. Appartiene a quel mondo, ne fa parte. Per questo conoscerla e parlare con lei mi ha aiutato a capire il coraggio che l’ha spinta a chiedere un giusto processo per gli imputati. E non era sola. Sono persone come lei che hanno reso, per me, questo processo così orribile e allo stesso tempo meraviglioso. Conoscere, osservare, persone come lei, o come Georges Salines, la cui giovane figlia era più o meno coetanea della figlia di Nadia e come lei è stata uccisa quella notte. Bene, Salines si è spinto oltre. Non solo ha cercato di capire, non solo ha chiesto che gli imputati avessero una difesa appropriata, ma ha cercato il dialogo con il padre di uno di loro, ha scritto con lui un libro. La loro esperienza, il loro esempio mi fa dire che nonostante ritenga la sentenza discutibile, questo processo sia stato utile».Alla fine del libro riflette sulla sentenza e sul verdetto per Abdeslam. Il terrorismo internazionale di matrice islamica ha messo in luce alcune fragilità delle intelligence europee e dei suoi strumenti, e ha messo in luce un dilemma che è presente nel suo libro: cosa siamo disposti a tollerare in nome della nostra sicurezza, che tipo di giustizia propongono i nostri sistemi democratici per rispondere a questa sfida.«Ritengo che la sentenza sia discutibile non per la lunghezza della pena ma perché mi pare sia stata ispirata più dell’esemplarità che dalla proporzionalità. Mi spiego: ammettiamo che il fratello di Abdeslam – l’assassino – fosse stato arrestato da vivo, la sentenza più pesante sarebbe naturalmente spettata a lui. Ma non c’è più, come non ci sono più gli altri assassini. Se a processo ci fossero stati loro, la sentenza per Abdeslam sarebbe di certo stata più leggera, ma la giuria ha deciso che la pena dovesse essere esemplare. E questo è certamente controverso. Ne aveva bisogno il Paese, ne aveva bisogno l’opinione pubblica. È comune nei processi per terrorismo che le pene siano così alte, sono processi che non rispondono ai codici della giustizia ordinaria e anche la corte lo rispecchia, non essendo composta da giurati, ma dai giudici stessi. Ma quello che ho trovato davvero impressionante è che ci sia stato, per l’intera durata del processo, il desiderio di ascoltare, conoscere non solo le sofferenze delle vittime ma anche le parole degli imputati, o almeno di quelli tra loro che hanno accettato di parlare».Pochi giorni fa ricorreva il ventesimo anniversario dell’invasione statunitense in Iraq. Quella guerra, le immagini di Abu Ghraib sono parte della costruzione dell’immaginario di questi ragazzi. Un pezzo delle loro argomentazioni si fonda su un assunto che ha radici in quelle immagini divenute simboliche: vi siete macchiati di reati simili a quelli che ci contestate, ma i nostri morti valgono meno dei vostri, gli abusi che subisce la nostra gente non hanno mai avuto giustizia.«È così, è parte delle loro argomentazioni. Il punto è: non possiamo negare che sia vero. Non sto giustificando nulla, come è ovvio, ma è innegabile che sia così. Nel libro parlo a lungo del processo, che è stato molto importante in Francia, a Klaus Barbie, l’ufficiale nazista. La difesa del suo avvocato Jacques Verges teorizzava una cosa analoga: bene, voi dite che Barbie è un torturatore, che a Lione, durante l’occupazione, i nazisti abbiano compiuto crimini, ma l’esercito francese ha torturato in Algeria e nessuno è stato processato per questo. Perciò – sosteneva – ogni volta che parlerete delle torture a opera dei nazisti a Lione, vi risponderò che i francesi sono stati i torturatori d’Algeria. È contemporaneamente una provocazione e una verità. È un dato di fatto che non si può negare, nemmeno riconoscendo che sia scioccante. Perché, nel momento in cui avvertiamo il fastidio di queste parole, siamo costretti a dire a noi stessi che sì, qualcosa non torna. Durante il processo per gli attentati, nessuno degli avvocati ha tentato questo genere di argomentazioni difensive, penso che non sia più possibile. Sono parole non più udibili».La Corte Penale Internazionale ha recentemente emesso un mandato d’arresto per Putin. Analogamente sono in molti a dire: e perché nulla si è fatto contro Bashar al-Assad?«È vero, è esattamente così. Non siamo tutti uguali. Da più di un anno siamo tutti trascinati nelle sofferenze ucraine, come è giusto. Ma quando ascoltiamo le altre vittime dire: perché gli ucraini e non noi? Beh, ecco. Hanno ragione».In un’intervista ha detto che non siamo sulla terra con lo scopo di essere felici, bensì con quello di capire di più. Cosa ha capito raccontando questo processo?«Credo che ognuno di noi abbia subito una immedesimazione con qualcuno. Per me è stato quasi impossibile farlo con gli imputati. Di solito quando assisti a un caso criminale, agli eventi giudiziari che ne seguono e provi a raccontarli, tendi a essere più interessato al colpevole che alla vittima. Qui, ammetto, è stato il contrario, perché i familiari delle vittime erano più interessanti degli imputati e le persone con cui mi sono maggiormente identificato sono i genitori delle vittime. Forse per l’età, statisticamente non era probabile per me trovarmi al Bataclan o nei café quella sera, ma lo sarebbe stato per i miei figli, dunque la mia posizione è stata più vicina ai padri, alle madri. Non è un caso che i personaggi centrali del libro siano Nadia e Georges, siamo diventati amici, li ho sentiti vicini e mi sono chiesto a lungo se sarei stato capace dei loro gesti, della loro generosità, della loro volontà di capire, della loro determinazione nel chiedere un processo giusto per gli assassini delle figlie. Se fossi stato al loro posto, cosa avrei fatto?».Questo interrogativo mi porta a chiederle di parlare della figura del sopravvissuto. Colui che porta il peso, il fardello, la responsabilità della memoria. I padri, le madri con cui si è identificato sono i sopravvissuti del V13. Scrive a questo proposito: «Mi chiedo se sia più difficile essere il padre di un assassinato o di un assassino».«Istintivamente le risponderei che è più difficile essere il padre di un assassino. Ma poi penso alla storia che mi è stata di insegnamento in quei mesi, quella di Georges Salines, che mi è diventato amico. Salines ha perso la figlia al Bataclan, e ha avuto un dialogo così profondo con il padre di Samy Amimour, da cui è nato un libro. Salines sentiva che il padre di Amimour non avesse la colpa delle scelte di suo figlio, e pensi che due settimane fa ho saputo che si è spinto oltre nel suo impegno per la giustizia riparativa, ottenendo l’autorizzazione a incontrare in carcere i condannati, tra cui Abdeslam. Deve attendere l’esito del processo che li vede imputati anche in Belgio, ma sta lavorando in questa direzione. Ecco, io dubito che potrei avere la capacità o persino il desiderio, di un atto di questa portata, ma lo ammiro. Georges non è animato da quella che definirei una “perversione cattolica”, il suo è un atto realista. L’essere umano Georges ha perso sua figlia Lola e vuole incontrare i coetanei di sua figlia che sono diventati assassini, e capire se c’è qualcosa che si può fare per loro».Il libro termina con una catarsi, un momento di raccoglimento dopo la sentenza, alla brasserie Les Deux Palais: «Quello che abbiamo vissuto insieme era troppo forte – scrive – troppo incomunicabile, chi non c’era non può saperlo». C’è qualcosa che ha lasciato lì dentro, nell’aula che ha battezzato «la scatola»?«L’esperienza del processo è stata difficile da trasmettere al di fuori della “scatola”, era complicato parlarne con qualcuno che non appartenesse a quella comunità, era difficile farlo con la mia compagna, con i miei amici. In un certo senso scrivere queste cronache, scrivere il libro è stato l’unico modo possibile per condividerlo con gli altri. Non credo di aver lasciato qualcosa lì dentro, almeno non volontariamente, ho cercato di tradurre in parole quello che sentivo. E credo che la cosa più importante del processo non sia quello che ho imparato sull’Isis ma quello che ho capito sulle persone che giudico». —