Corriere della Sera, 24 marzo 2023
Intervista a Raoul Cremona
«L a prestidirigimiri...zzazione». Davanti a un caffè parte la battuta di culto con cui Raul Cremona corbella Silvan e allora hai la sensazione di essere entrato nel suo mondo unico: quello del cabaret prestato alla magia. O viceversa. Raul è stato, ed è ancora, Mago Oronzo, Jerry Manipolini, Giorgian, Normal Hamilton, Silvano il Mago di Milano, Sigmund and Joy, Omen, Jacopo Ortis, Evok, Steve Giobs, Yuri Papachenko. Insomma: uno, nessuno e centomila. Uno spasso da raccontare.
Mago si nasce o si diventa?
«Si nasce: c’è chi è predisposto a maneggiare gli oggetti. Poi lo diventi, se lo vuoi: è un percorso complesso per il quale vale la pena di fare sacrifici, anche a scapito di altro. Tommy Cooper diceva: mi interessano solo barzellette e giochi di prestigio».
Suo bisnonno faceva il clown. Lei è mai stato attratto dal circo?
«La figura del pagliaccio mi ha attirato, però l’ho sempre guardata... di traverso: la mia costruzione mentale era da prestigiatore. Ma il prestigiatore può rubare qualcosa al clown».
L’illusionismo è merito di papà, giusto?
«Il bisnonno rimane nella leggenda, papà ha invece ereditato da suo padre, mio nonno, il mestiere di imbonitore: lavorava in piazza Duomo. Negli intermezzi delle vendite all’incanto usava giochi di prestigio, in particolare il mazzo Svengali, quello nel quale lo spettatore alla fine sceglie sempre la stessa carta. Vendeva questi mazzi, a casa li realizzavamo io e mio fratello».
Poi arrivò il Clam, Club Arte Magica Milano.
«È l’erede del Siam fondato nel 1950 da Pierino Pozzi. Io entrai nel 1973: anziché andare in discoteca con gli amici, andavo in questo circolo di anziani. Però non l’ho mai abbandonato: sono presidente onorario».
La vita è un’illusione?
«Sicuramente. Se non credi nell’illusione, alla fine sei costretto a subire la realtà. Voglio diventare un mago? Non è una domanda basata su un’illusione, ma su 100 mila illusioni».
È una professione discriminatoria: zero speranze per gli imbranati.
«Sono un pessimo docente, ma chi impara da me, impara. Sono diretto: dove vuoi andare?, chiedo. Se scarseggia la manualità, suggerisco di usare la favella. C’è spazio per tutti, però ad alcuni dico: hai le mani “racchie”, non c’è nulla da fare».
Si è mai trovato in difficoltà?
«Mai: la mia è una magia malgrado me. Ironizzo su quello che faccio: alla fine interessi tu, mago, più che il gioco in sé».
È un approccio basato sulla sfida?
«Sì, però costruisco una serie di “out” per svicolare. L’atteggiamento scanzonato aiuta, invece è un problema se sei serioso».
Bisogna forse essere un po’attori?
«Tanto, non poco».
Lo spettatore è preso dalle parole o da quello che il mago fa?
«Nelle grandi illusioni il prestigiatore mette l’elefante in una gabbia e l’elefante sparisce. Il mentalista, invece, fa pensare all’elefante e lo fa apparire nella mente. Nel secondo caso le parole hanno un ruolo decisivo».
Si guadagna bene con questo mestiere?
«A inizio carriera guadagnavo poco: 50 mila lire in un locale, quindi andavo in un altro e me ne davano 40 mila. Racimolavo, sono andato avanti così per dieci anni. Poi è arrivato Fantastico con la Carrà e Dorelli: anche lì i soldi erano scarsi – 300 mila lire a puntata, due puntate al mese: e mia moglie era già incinta —, ma se non altro era una vetrina».
Un mago come e quando si allena?
«Io studio artisti vecchi e nuovi selezionando quelli utili. Ultimamente seguo la 75enne inglese Fay Presto: si impara più da lei che da uno dei tanti giovani che fanno sempre le stesse cose».
Ha inventato il cabaret magico.
«Mi sono ispirato agli americani e a comici come Jerry Lewis e Danny Kaye: negli Usa c’era già la magia divertente. Arrivai al Derby e mi stroncarono: “I maghi non li vogliamo”. Mi sono così inventato mago che usa il linguaggio del cabaret: la missione del cabaret è di distruggere la cosiddetta quarta parete e avere un contatto diretto con il pubblico, che spesso interviene».
Perché prima non accadeva?
«Perché i riferimenti erano Silvan, che presentava in modo classico, e Tony Binarelli, che aveva già “smaghizzato” la figura del prestigiatore».
Derby, fucina di talenti.
«Ma il mio è stato l’ultimo, quello di Paolo Rossi, Enzo Iacchetti, Francesco Salvi. E di Giorgio Porcaro, le cui vicende giudiziarie furono alla base della chiusura del locale. La diaspora tra Derby e Teatro dell’Elfo diede vita a Zelig».
C’è stata anche l’esperienza al Ca’ Bianca Club.
In Duomo
Papà era imbonitore,
in piazza usava il mazzo Svengali, in cui lo spettatore alla fine sceglie sempre la stessa carta. Quei mazzi li vendeva, e li realizzavo io
«Ci arrivai frequentando Salvi: trovai Nanni Svampa, Walter Valdi, Mario Rusca, Gerry Mulligan che capitava lì e lo guardavi stupito... Ho imparato a essere elegante: il maglione e i “scarp de tennis” non funzionavano. Io fregavo sia i cabarettisti, perché ero anche un mago, sia i maghi perché ero anche cabarettista».
Ha pensato di fare altro nella vita?
«Per un anno e mezzo ho fatto il rappresentante, poi ho insegnato educazione fisica. Però una sera sono finito in un locale ed è cominciato tutto».
Letta sul suo sito: «Non appartiene né al passato né al presente».
«È una frase di Raffaele De Vitis, aiuto regista di Arturo Brachetti. Mi riconosco: appartengo al teatro antico del prestigiatore; però posseggo anche la modernità di farlo rivivere senza stucchevoli rappresentazioni».
A scuola come andava?
«Male, grazie».
Nessuna magia durante i compiti in classe?
«In un esame di anatomia nascosi dei bigliettini nelle maniche per guardarli. Tutto vano: c’era a fianco uno che mi curava. Ad un certo punto ho dovuto dare una svolta alla vita: noi boomer avevamo bisogno di sganciarci dalle famiglie. Mio padre aveva spesso dei problemi: un giorno gli rubarono dall’auto tutto il materiale, tante volte gli sospendevano la licenza. Lui imprecava, io non potevo restargli attaccato: grazie al palcoscenico l’ho sfangata».
Il mago «cucca» di più?
«Mai quanto i cantanti. Il mago attira gente strana: quando facevo Oronzo mi venivano a trovare tanti che mi ripetevano le battute; quando invece cantavo, mi fermavano le donne. Quindi raccomando di fare il cantante: mio figlio, famoso dj, al di fuori del teatro trova un sacco di ragazze; io invece trovo gli anziani che attaccano bottone».
È possibile una hit parade dei maghi?
«Non finirebbe mai. Metto Tommy Cooper in cima alla lista: è morto in scena. C’è lui che cade: infarto. Al primo sussulto la gente ride, al secondo ride e applaude. Lui si accascia e non possono rimuoverlo: è in diretta tv. Ma la gente ride ancora pensando che sia una gag, mentre i produttori non avevano capito se fosse davvero svenuto o se avesse fatto finta di farlo ai piedi di una bella donna apparsa sul palco».
A quali dei suoi maghi è più affezionato?
«Oronzo mi ha dato la popolarità. Dopo poche puntate di “Mai dire gol” il cachet è duplicato, poi è triplicato, quindi è quintuplicato e infine è diventato quello che è ancora oggi».
Sfotte Silvan, alias Aldo Savoldello da Venezia, ma lui è stato eletto miglior mago del mondo.
«Silvan rappresenta un’epoca che contiene la nostra infanzia. Quando dico la “prestidirigi...”, insomma quella roba lì, dico quello che affermava lui scandendo le parole: “Si dice pre-sti-di-gi-ta-zio-ne”. Da bambino mi colpiva, poi ho deciso di allungare la parola in ossequio ad Aldo. Quando gli annunciai che a Zelig avrei fatto Omen, commentò: “Va bene, ma ricordati di fare anche Silvan”».
Con Jacopo Ortis canzona Carmelo Bene.
«La mia creatività era alta, così è nato Jacopo Ortis. Ma oggi non è più attore, è regista. A volte purtroppo i personaggi devono sparire perché non ci sono più i locali per il varietà: l’esempio è Milano, città che amo e odio».
Omen non è politicamente corretto, con le battutacce sulle donne.
«Ma io me ne sbatto. Certe aziende mi dicono di non farlo, altre lo chiedono. Però il personaggio si riscatta quando arriva la telefonata della moglie e diventa succube. Sì, diciamo che oggi certe battute sono a rischio. Ma Omen ha una franchigia».
Butta male pure per Yuri Papachenko...
«Da qualche parte è scritto che è ucraino...: allora mi sa che è meglio dire che vive nella Papachenkia. La sua battuta? “Io ho macchina di verità, tu vuoi comperare?”. Guitto e truffaldino».
Magia e illusionismo sono due facce della stessa medaglia?
«Sì. Magia è un termine più vario, l’illusionismo è invece l’arte di mostrare la finzione e di farla sembrare la realtà».
Vero che i trucchi non si svelano?
«Una volta se lo facevi venivi radiato. Oggi invece ci sono questi maghi inventati che, senza l’ok di alcun circolo o istituzione, svelano. Oppure si inventano docenti e divulgano: ma in nome di che cosa?».
Suo figlio Giordano è dj; invece l’altro, Leonardo?
«È un baritono, aspira a fare carriera. Giordano era partito con ingegneria elettronica. Insomma, il Cremona mago non ha eredi».
Qualche magia per l’Inter?
«Già fatta due volte contro il Milan: la prima nella Supercoppa. Adesso faccio comperare Osimhen e Kvaratskhelia: via Lukaku, che è diventato un Luperu...».
Sua moglie che cosa dice?
«Esci di casa. Tanti la invidiano: “Che bello, signora, stare con un marito così”. Ma lei: “Che palle, mi alzo alla mattina e lui mi fa subito un gioco...”».