la Repubblica, 23 marzo 2023
Intervista ad Altan
Caro maestro Altan, proviamo a fare un viaggio nei ricordi?
«Sì, ma sarà un po’ complicato».
Intanto proviamo ad andare alla fine degli anni Sessanta, per i tuoi disegni ritrovati.
«Ero a Roma, tornato dal primo viaggioin Brasile. Realizzavo per “Playmen” delle vignette particolari e illustrazioni in cui mettevo un’altra firma per non inflazionare la mia presenza in quelle pagine. I disegni ritrovati hanno a che fare con quel tipo di produzione in cui provavo anche tecniche nuove e stili diversi».
L’editrice di quel mensile per adulti era la celebre Adelina Tattilo.
«Io non ho mai avuto contatti con lei ma con Luciano Oppo, il direttore. In effetti tutto è iniziato grazie alla moglie di Gianni Amico, il regista del film girato in Brasile, che aPlaymen era la segretaria di redazione».
Dicevi degli stili diversi. A volte andavi anche verso l’astrattismo.
«Era una ricerca alimentata dalla mia antica vocazione alla pittura, nata quando avevo 13, 14 anni. Quindi avevo la necessità di creare qualcosa di personale.
E di variare lo stile. Cosa che nel fumetto è più difficile.
Nei fumetti hai la necessità di disegnare dei personaggi riconoscibili. Anche per questo ho spesso disegnato dei nasi particolari. Così è facile riconoscerli».
Le tematiche di queste vignette sono esistenzialiste, si parla di vita, di psicologia, del rapporto con la realtà.
Quando ti sei dovuto avvicinare all’attualità tutte queste tematiche sono rimaste intatte.
«Beh questo non sta a me dirlo».
Intendo dire che l’attualità rientra nelle tue vignette ma in un rapporto profondo con il sentire della vita che va bene al di là della presa in giro del politico.
«Sì sì, sono d’accordo».
Che impressione ti ha fatto rivedere questi disegni?
«La stessa che mi fanno le cose di qualche tempo fa. Mi dico: ma guarda che testa che avevo. Ogni tanto non mi riconosco e mi sorprende anche piacevolmente ritrovare una parte di me che mi ero dimenticato, che ho perso per strada».
Insieme ai tuoi disegni ci sono anche quelli di un collega o amico. Questo fa pensare a un lavoro fatto in compagnia.
«Sì li facevo mentre ero in mezzo alla gente perché per medisegnare era una sorta di mania. Oppure li facevo con la radio accesa o addirittura con un piccolo televisore Brionvega da tavolo».
Adesso con la tv accesa sarebbe impossibile.
«Con la radio sì, con la tv no. E sì, poi è diventato un lavoro più intimo e solitario».
Ti ricordi com’era la casa romana?
«Era a via dei Cappellari, al centro, vicino a piazza Farnese. Tutti i vicini dicevano che quella strada era piena di ladri per cui avrei potuto stare tranquillo: nessun ladro ruba nella propria strada».
Qualche interesse in quegli anni per la Roma artistica?
«Ma no, c’era il Sessantotto, era un gran casino. A nessuno interessavano le cose antiche».
Facciamo ora un salto di almeno cinque anni. È il 1974
e sul “Jornal do Brasil” pubblichi il fumetto Kika &Jaime
«Ero tornato in Brasile per fare un altro film con il regista Gianni Barcelloni e questa volta ho conosciuto Mara alla produzione del film. Quindi sono rimasto a Rio anche quando il resto della troupe è tornata a casa. Ho vissuto lì pensando di rimanerci. Poi i piani sono saltati quando è partito il lavoro in Italia con Marcelo Ravoni e la Quipos».
Il consiglio di rivolgersi a lui è arrivato da Miguel Paiva, fumettista brasiliano.
«Lui era l’allievo preferito di Ziraldo, il più celebre fumettista brasiliano. Allora era art director di un mensile che credo si chiamasse Playtime, per il quale devo aver realizzato anche una copertina e qualche illustrazione.
Forse Miguel ha a che fare anche con la mia collaborazione alJornal do Brasil che è stata una bella opportunità. Tra l’altro io non avevo il visto per poter
lavorare, ero clandestino e per questo era Mara a ricevere l’assegno».
Una storia legata alla tua situazione familiare.
«Kika è mia figlia e Sandra la sua tata. Abbiamo trovato una foto in cui lei è ben riconoscibile».
Nella prima storia avevi lasciato una vignetta con i balloon vuoti perché fossero i lettori a inserire i dialoghi.
«Sì, e poi mi è venuto in mente la storia dell’anello indiano di cui non mi ricordo affatto la conclusione che avevo immaginato».
È un fumetto per bambini ma con uno stile più aspro di quello della Pimpa. E poi ci sono i commenti tipici dei tuoi feuilleton.
«Riscrivendo i dialoghi in italiano mi sono reso conto che anche i testi sono poco per bambini, uso un umorismo
adulto. Però mi dicevano che piaceva, che andava bene, anche se non ho mai avuto una prova diretta di questo».
I fumetti sui quotidiani non li leggono solo i bambini.
«Ecco, magari li hanno letti i bambini insieme ai genitori.
Chissà».
Tra le tavole ritrovate c’è anche una prova italiana di una tavola pubblicata in Brasile.
«Non me la ricordavo affatto. Evidentemente Ravoni aveva pensato di proporlo a qualcuno. Ma non ricordo proprio».
Come sono andate perdute queste tavole?
«Sono state rubate mentre eravamo al Salone di Lucca.
Deve essere stato il 1976 ed eravamo allo stand con Ravoni. A un certo momento la cartellina non si è trovata più. E così le avventure di Kika & Jaime finirono lì».