Corriere della Sera, 23 marzo 2023
Intervista a Francesco Alberoni
«Come può un sociologo come te, che ha scritto saggi fondamentali, occuparsi di reggiseni e mutandine?», lo provoca, scherzando, un direttore del Corriere della Sera. Francesco Alberoni, diventato una star internazionale con il suo libro «Innamoramento e amore» (un paio di milioni di copie vendute persino in Giappone) sbotta: «Scherzi? Io vengo da lì, se non avessi azzeccato il colore dei corredi delle italiane la mia vita avrebbe preso una piega diversa».
Professore, ma lei non è il teorico dello «stato nascente», concetti complessi che permettono di comprendere i «movimenti» e come si comportano le masse?
«Sì, ma nessuno mi avrebbe dato le opportunità che ho avuto se non avessi aiutato Piero Bassetti nell’affare più spericolato della sua vita».
Ci spieghi meglio.
«Inauguro la mia esistenza da adulto con il piede sbagliato. Mi iscrivo a Medicina a Pavia. Il professore con cui devo laurearmi, quando vede le mie 52 interviste a melanconici realizzate per la tesi, dice che quella è psicoanalisi, non psichiatria: o cambi passo o cambi mestiere. Per fortuna il rettore dell’università dirige anche il collegio Cairoli dove sono ospitato. Una mattina gli faccio la posta, lui capisce e mi dirotta sul professor Lattes, un ebreo che ha fatto l’esperienza dei campi di concentramento. Per farla breve, mi laureo con 110 e lode. A quel punto voglio diventare psicoanalista, ma mi spiegano che invece devo fare il medico condotto. Stringo i denti e porto i miei lavori a padre Agostino Gemelli all’Università Cattolica. Un tale mi comunica che è in Spagna. Insisto: vi lascio i miei lavori, fateli vedere a un assistente. Quando non ne può più, il tale prende i fogli e mi dice di aspettarlo. Passano due ore. Me ne sto andando mentre sbuca da una scala e dice che padre Gemelli mi riceve. Ma non era in Spagna? “Si dice sempre così”. Scendiamo in uno scantinato e me lo trovo davanti. “Li hai fatti tu? Come ti chiami?” Alberoni. “Discendente del cardinale?”. No, noi siamo dei morti di fame. “Vai dall’amministratore e fatti dare una borsa di studio”. A settembre me la assegnano e padre Gemelli mi chiama perché Bassetti vuole capire se produrre tessuti per le doti in bianco, come è sempre avvenuto, o a colori, un’eresia. “Fai una ricerca”. Come si fa? “Come ti viene”. Con una Cinquecento usata batto l’Italia dalla Calabria a Bolzano. Ci stavano lavorando anche sociologi di fama pagati profumatamente. A me rimborsavano la benzina. Loro dicevano che le donne italiane adoravano il bianco. Io tornai convinto che erano tutte balle: l’80% era per il colorato. Lo dico a Gemelli e a Bassetti che, con una punta di follia, seguono il mio consiglio. Fu un successo e, quando si sparse la voce, nel giro degli imprenditori ero un enfant prodige, per i sociologi uno da uccidere in fasce».
Eppure comincia la sua carriera accademica. Non le tagliarono le gambe?
«Vinco il concorso per la cattedra di Psicologia, mi sposo e muore Gemelli, peggio che se mi fosse mancato un padre. Faccio consulenze, mi cooptano nel board messo insieme dalla Fondazione Olivetti e dalla Ford Foundation. Così comincio ad andare a New York e mentre gli altri se ne stanno in ufficio io batto la strada. Sta arrivando l’onda lunga del movimento hippy. Quando torno, racconto. Mi faccio la fama di uno che capisce i movimenti. È lì che elaboro il mio pensiero, la forza inarrestabile dello “stato nascente”, di un uragano che travolge. Non ci si può opporre, se lo vuoi governare devi cavalcarlo. Anni dopo lo spiego a Bettino Craxi: sali sul carro di Mario Segni, se gli vai contro, ti abbattono. Non mi crede: “Andate tutti al mare”, dice in occasione del referendum. E il mare lo affoga. A conferma dell’intuizione, poi, mi capita di sperimentare l’uragano in prima persona e di non capire che non posso oppormi: mi sono persino fatto ricoverare in una clinica psichiatrica».
Voleva diventare hippy?
«Peggio. Vado dal professor Ferrarotti a Roma, conosco la sua assistente e me ne innamoro. Ho moglie, tre figli e insegno alla Cattolica. In clinica volevo disperatamente guarire dall’amore. Inutile. Alla fine mollo tutto e scappo con Laura, un rapporto travagliato che finisce con una brutta immagine: io chiuso fuori di casa perché lei ha fatto cambiare la serratura. Per fortuna sta entrando nella mia vita Rosa Giannetta, di cui mi innamoro e riesco a non essere geloso quando nei suoi romanzi racconta di altri amori...».
Torniamo indietro: in quello scorcio di anni Sessanta diversi uragani scuotono l’Italia...
«All’università di Trento, nel 1967 c’è una rivolta e tutto il corpo docente si dimette. Norberto Bobbio e Manlio Rossi-Doria fanno il mio nome come dell’unico che capisce di movimenti. È una bella sfida. Accetto la nomina a rettore. Per dimostrare che sono di una nuova razza metto insieme un collettivo, colgo fior da fiore il meglio della psicologia, della sociologia e dell’antropologia. Costituisco due plenum, sei professori e sei studenti, e li metto a discutere nella sala dei dodici apostoli. Funziona. La mia teoria è provata: il movimento si auto-organizza. Mi affeziono a Mauro Rostagno e quando lascia il movimento per diventare buddista lo capisco. E c’è gente come Curcio. Non ha una matrice ideologica precisa. Qualcuno come lui a volte torna nell’alveo della chiesa. Curcio poteva diventare un bravo studioso di Amadeo Bordiga, un buon bibliotecario. Ma si innamora di una montanara cattolica testarda. È stata Margherita Cagol a portarlo su quella strada. Lei ha fatto la tesi con me e probabilmente glie l’ha scritta lui. Li ho incontrati ancora a Milano, vicino all’Istituto dei ciechi. Era incinta. Perso il bambino sono andati a sparare».
A quel punto nascono i suoi best seller. L’aveva previsto?
«Lascio Trento e vado a Messina per avere la tranquillità di metter tutto nero su bianco. Nasce Movimento e istituzione e gli altri libri vengono a ruota. Innamoramento e amore viene tradotto in ogni lingua possibile. Ma ce ne sono altri che ritengo più importanti, come Genesi».
Eppure l’accusavano di essere banale.
«Dagospia mi soprannominò “va’ pensierino”. Non immaginano quanti sforzi faccio per farmi capire da tutti».
Provi allora a spiegare cos’è lo «stato nascente».
«Non c’è una definizione. Posso visualizzarlo. È il momento in cui nella piazza davanti alla Cattolica gli studenti cominciarono a cantare, prima sottovoce e poi più forte: We shall overcome one day... Arrivano gli scioperanti, i sindacalisti e ci sono altri canti intonati da don Giussani».
Vede all’orizzonte movimenti che possono travolgerci?
«Due: uno è quello ucraino, ma non è nemmeno il più potente. L’altro è l’India. La sottovalutiamo perché interessa poco agli americani. Eppure è lì che dobbiamo puntare gli occhi. Lo dico da tempo; nessuno mi ascolta».