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 2023  marzo 23 Giovedì calendario

Intervista a Luigi Lo Cascio

Nel suo libro «Storielle per granchi e per scorpioni», uno dei racconti imbastisce un’alleanza inedita tra un microbo e un anticorpo. Un messaggio pacifista?
«In un certo senso. Dopo anni di pandemia abbiamo imparato che dai virus ci si difende con i vaccini e con le cure mediche. Però ho provato a immaginare una sorta di pacificazione, un non conflitto tra due forze opposte».
Si vivrebbe molto meglio.
«Si vive meglio anche rispettando la singolarità di ogni essere vivente. Dopo aver fatto Aldo Braibanti nel film di Gianni Amelio, per esempio, ho imparato a rispettare le formiche. Le faccio entrare, circolano liberamente. Ormai casa nostra prolifera di formiche, non ci vuole venire più nessuno».
E il film, «Il signore delle formiche», è anche una grande metafora di libertà, no?
«Sì, Braibanti viene accusato di plagio, gli danno 14 anni di carcere, uno in meno dell’omicidio. Poi la pena viene ridotta, però lui all’ingiustizia oppone il silenzio. Una difesa interiore, un lento e paziente coltivare quella libertà che abbiamo dentro e che ci dà forza. Oltre al fatto che lui osservava le leggi dei formicai, appunto. Anche Dmitrij Karamazov, accusato di parricidio dice che vuole restare in silenzio al processo».
Cinquantacinque anni, una lunga carriera di teatro e cinema, due libri. Come si sente oggi Luigi Lo Cascio?
«Non molto diverso da quando ho iniziato, però di certo sento che in me si delinea una misura che mi rende più stabile, più sereno. Ma non è sempre stato così, anzi. Peraltro la mia carriera è iniziata in modo bizzarro, dopo due anni di studi di Medicina all’Università».
Che cosa scattò?
«Qualcosa che non saprei dire. Di certo i miei genitori non compresero subito il senso di quella scelta. Papà, soprattutto, non si capacitava che nella Palermo di trent’anni fa ci fosse un ragazzo che preferiva la strada precaria dell’attore a quella sicura e remunerativa del medico».
Come lo convinse?
«Facendolo ridere. Alla sera gli recitavo brani comici che lo divertivano: gli facevo capire che non ero così male. Un giorno poi successe una cosa. Io ero in teatro alle prove, era il mio debutto assoluto in una piccola parte di Aspettando Godot con la regia di Federico Tiezzi. In fondo alla sala vidi una sagoma che parlottava con il regista e quell’ombra mi sembrò mio padre. La sera a cena gli chiesi se era effettivamente lui e papà, senza scomporsi, mi disse che sì, era venuto a parlare con il regista per chiedergli se davvero io ero bravo a recitare».
Tiezzi rispose di sì, immagino.
«Sì, però la mia carriera ha seguito traiettorie curiose. Per esempio, al cinema ci sono arrivato nello stesso giorno in cui, a teatro, un regista mi fece fuori dallo spettacolo perché secondo lui io ero un attore “scarsissimo”, “insentibile”. Tornai a casa affranto. Fu allora che mi telefonò mio zio, Luigi Maria Burruano, grande uomo di teatro, e mi disse: “Luigi raggiungimi a Mondello, sono qui con Marco Tullio Giordana che sta cercando un attore per fare Peppino Impastato”».
Ne «I cento passi».
«Mi sembrò una follia: ora, lei deve sapere che io ero arrivato a trentadue anni non solo senza aver mai recitato al cinema ma, praticamente, senza aver mai visto un film».
Mai andato al cinema prima di allora?
«Durante gli anni dell’Accademia d’arte drammatica ci ero andato due sole volte, e per vedere Air force one e Barton Fink. So che sembra una bestialità, ma voglio essere onesto: ero un giovane presuntuoso, credevo che il cinema non avesse lo stesso spessore del teatro, che fosse un’arte superficiale. La mettevo sul piano del testo: quello che ha scritto Shakespeare non potrà mai essere paragonabile a un film, mi dicevo. Che errore grossolano. Tuttavia, dovevo pur dirlo a Giordana. Arrivai a Mondello, mi feci coraggio e gli dissi: “Senta, io non ho praticamente mai visto un film. Non ho mai visto nulla di Orson Welles, nulla di Kubrick, nulla di Fellini”».
E lui?
«Lui mi guardò, tacque un attimo e poi disse: “Che culo”».
Nel senso di «fortuna»?
«Sì, perché ai suoi occhi ero un uomo fortunato nel dover ancora scoprire tante meraviglie. Mi disse che davanti a me avevo una prateria di cose belle da conoscere e che lui voleva affidarmi a tutti i costi il ruolo di Peppino Impastato».
Fece un provino?
«E andò malissimo. Lui mi telefonò: “Sei stato pessimo, però io so che quel ruolo è tuo. Torna e convincimi”. Solo molti anni dopo ho capito che cosa gli faceva credere che io fossi il perfetto Impastato: è vero che non avevo mai visto un film, però era anche vero che io ero già un assiduo lettore. Altra bizzarria della mia carriera: mai letto nulla fino ai 22 anni, poi all’improvviso scoprii Kafka, Dostoevskij, Majakovskij, Pasolini. Li conoscevo, li amavo e quelli erano anche gli autori di Peppino, quelli che avevano contribuito a rafforzare le sue convinzioni. Giordana, da regista sensibile e intelligente, lo aveva intuito. Con I cento passi iniziò il mio percorso al cinema e ancora oggi Marco Tullio è uno dei miei migliori amici, ci telefoniamo spesso, mi segue e continua a darmi consigli affettuosi e pertinenti».
Una solidarietà, questa, che nel mondo del teatro non è così scontata, no?
«Negli anni ho coltivato belle amicizie, per esempio con Fabrizio Gifuni: eravamo colleghi all’Accademia. Lui tentava di farmi vedere dei film, mi trascinava a casa sua e metteva su delle videocassette. Io però ero annoiato, distratto, come se non volessi vedere quell’altra potenziale parte di me. Invece facevo chilometri e chilometri per andare a vedere uno spettacolo teatrale».
Per esempio?
«Una volta io e Fabrizio partimmo da Roma per andare al Lingotto di Torino dove Luca Ronconi metteva il scena Gli ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus, lo spettacolo più bello che io abbia mai visto. Alla fine, affranti, andammo a dormire in qualche posto, non ricordo bene quale pavimento o brandina ci ospitarono quella notte».
La sua scrittura narrativa nei racconti attinge anche all’immaginario pirandelliano. Che cosa è per lei Pirandello?
«È la Sicilia. È il modo di pensare di un siciliano: la maschera, l’umorismo, il paradosso, il sentirsi marginali e, a volte proprio per questo, superiori. È quello che ci hanno visto Sciascia, Consolo e il Camilleri regista. Pirandello rappresenta le mie radici, quello che sono».
Lei ha due figli, di otto e dieci anni. Come ha spiegato loro che mestiere fa?
«In realtà non gliel’ho mai spiegato, anche perché loro non hanno mai visto un mio film. Anzi, non è vero: hanno visto La città ideale, quello diretto da me, ma non perché sullo schermo c’è papà, bensì perché in quel film c’è la nonna Ida. Mia madre infatti fa una piccola parte e così loro hanno voluto vederla. E, certo, poi hanno visto anche La stranezza di Roberto Andò ma solo perché sono tutti e due dei fan di Ficarra e Picone. Qualche volta, però, vengono dietro le quinte, mi raggiungono in camerino, si aggirano curiosi. È bellissimo sentirli parlare tra di loro senza essere visto: i bambini sanno fare discorsi lineari e intelligenti».
Potrebbe essere uno dei suoi racconti?
«Nel libro, infatti, loro due in un certo senso ci sono».
Sua madre com’è?
«Guardi, io non so come faccia ma lei, nonostante viva lontano da noi, sa sempre tutto di me e dei miei fratelli. Mi scrive ogni giorno, si ricorda il numero di replica teatrale. Per me è importante, perché ancora oggi, dopo tanti anni, prima di salire sul palcoscenico mi assale una paura incontrollabile».
Attacchi di panico?
«Una cosa simile. Il teatro è ogni sera diverso e io non so mai se quella sera riuscirò a interpretare qualcosa di unico, tanto per tornare all’idea di singolarità. Per me il teatro è un sentire che si compie in modi differenti: anche nel libro c’è un accenno di sceneggiatura teatrale, ci sono dei racconti che sembrano quasi concepiti per essere messi in scena. Forse era questa qualità quasi magica che mi irretiva così tanto da non lasciare spazio al cinema».
Le piace questa imprevedibilità che accomuna l’arte del racconto breve e il teatro?
«Sì, pensi che ho cominciato a scrivere racconti mentre rispondevo per messaggio a un amico “complottista”, durante la pandemia. Non volevo dare lezioni, non è da me, così cominciai a inventare storielle metaforiche. E in teatro, certo, può succedere di tutto. Una volta ero in scena con Sergio Rubini a fare Delitto e castigo. Guardai per caso le mie mani e vidi che erano imbrattate di sangue: senza accorgermene avevo battuto la testa. Finì che una provvidenziale dottoressa in sala, alla fine dello spettacolo, mi mise dei punti in camerino».
Lei e sua moglie (Desideria Rayner, ndr) state insieme da vent’anni. Come si tiene la cucitura di un rapporto longevo?
«Semplicemente non ponendosi il problema. Senza un traguardo, ma con l’esserci, l’esserci dentro ogni giorno. Quando l’amore si vive e basta acquista l’inesauribilità dei classici».
Bello definire «classico» un amore. E con i suoi figli lei com’è?
«Loro mi hanno insegnato che non sono io la persona più importante al mondo. È diverso persino dall’amore coniugale, dove resta comunque un briciolo di autoreferenzialità. I figli vengono prima di ogni cosa, persino prima di me stesso. Qualche volta quando loro rientrano dalla scuola e si mettono in soggiorno, li sento parlare e giocare. Io magari sono nello studio a lavorare, ma quel tempo che non passo con loro mi sembra un tempo perduto. Le sembra assurdo?».
No.