il Fatto Quotidiano, 22 marzo 2023
Storia dell’Orient Express
Agatha Christie ci ambientò il suo epocale romanzo. Josephine Baker vi sopravvisse a un attentato. Trotskij in fuga da Stalin, le corrispondenze di Ernest Hemingway, Marlene Dietrich intenta a sedurre Jean Gabin. Lo frequentarono pure Lawrence d’Arabia, Mata Hari e infinite barbe finte sovietiche. Spie e principesse, avventurieri e attrici, marajà e malviventi, scienziati e artisti, diplomatici, politici e sultani. Il solo evocarne il nome sprigiona tuttora un senso profondo di mistero, complotti, intrighi e irresistibile glamour: Orient-Express.
Imperdibile è quindi la mostra in programma fino al 21 maggio a Roma, all’Accademia di Francia in Villa Medici: Orient-Express & Cie. Itinerario di un mito moderno. Ne sono curatori Eva Gravayat e Arthur Mettetal e tutto proviene dagli archivi originali. Raccolte fotografiche, mappe e progetti, disegni tecnici e manifesti pubblicitari d’antan: oltre 200 i pezzi esposti. Capostipite di una serie di treni transnazionali di lusso, costruito dalla Compagnie internationale des wagons-lits dall’ingegnere belga Georges Nagelmackers, l’Orient-Express è rimasto in vita per quasi un secolo collegando, da par suo, Parigi e Costantinopoli. L’odierna Istanbul, l’antica Bisanzio, la città ideale delle 300 moschee. Nascita del cosmopolitismo.
La corsa inaugurale partì dalla Ville Lumière il 4 ottobre del 1883. L’aria era elettrica e gli invitati quaranta, uno più elegante dell’altro: una lista invidiatissima. Il biglietto costava un occhio della testa, pari a diversi mesi di salario di un normale lavoratore. E il menu era proto-stellato e cangiante in base alla latitudine, come lo spettacolo a bordo. Tartufo e foie gras, champagne e cognac. Le carrozze erano in rutilante legno di teak, illuminate col gas e riscaldate a vapore. Cabine-letto e vagone ristorante, qualsiasi comfort. Art nouveau e poi il déco, l’opulenza si respirava allo spasimo. I pasti venivano serviti in piatti di porcellana e affiancati da vini magnifici. Cristalli e sedie in cuoio pregiato, lenzuola profumate in seta cambiate quotidianamente.
Fu uno dei simboli supremi della Belle Époque, l’Orient-Express, che intrecciò universi lontanissimi. Un ponte sfarzoso di pace latente tra l’Europa e l’impero Ottomano agli ultimi giri di danza, passando per quello (altrettanto terminale) austro-ungarico. Lo zenit dell’età dell’oro dei mega-viaggi sui binari: stare su quel convoglio significava prenotarsi un biglietto per la leggenda. Il “Treno dei Re” ha attraversato due conflitti mondiali e la sua decadenza s’è dispiegata inesorabile nel secondo dopoguerra, complice la concorrenza accattivante dell’aereo. E fu introdotta la seconda classe. Orrore. La sua stella è tornata illusoriamente a risplendere nell’immaginario collettivo tra gli anni 60 e 70, grazie a due film: uno dei migliori James Bond (Dalla Russia con amore, 1963, da Ian Fleming) e Assassinio sull’Orient Express di Sidney Lumet (1974), dall’omonimo libro della Christie, che ha ispirato qualche anno fa (2017) anche la trasposizione di Kenneth Branagh. A seguire una ridda di sequel e variazioni sul tema. Il 20 maggio del 1977 è calato definitivamente il sipario su questa fantastica storia, fatta eccezione per una nebulosa di mini-riedizioni assortite, instagrammabili ma svuotate del codice fondativo. Su un “nuovo Orient-Express” sarebbe salita, di recente, Chiara Ferragni.
La mostra romana non dimentica anche di inquadrare la tecnologia avanzata di un mezzo di locomozione da mille e una notte, perpetuata da molti lavoratori invisibili specializzati della nostra penisola. Tappezzieri, cuochi, ebanisti. Da vedere un lavoro inedito della fotografa Sarah Moon, tra percorsi reali e astratti. L’esposizione omaggia, inoltre, il parimenti iconico Rome-Express, sempre progettato dalla Compagnie des wagons-lits. Per chi anelava una vacanza sul mare, o una sua semplice epifania en passant, era un po’ il non plus ultra. Entrò in servizio nel dicembre del 1883 e i 1.446 chilometri che separavano Parigi dalla nostra capitale costeggiavano dapprima la riviera transalpina e dopo i litorali tricolori di ponente e di levante. Lo ricorda, aggirandosi per le sale, la speciale docu-fiction sonora dello scrittore francese Mathias Enard. Gli autentici Grand Hotel su rotaie non esistono più, ma non ha trionfato nemmeno la giustizia proletaria.