Corriere della Sera, 22 marzo 2023
Dopo 40 anni i battibecchi tra Saronni e Moser continuano. Un’intervista
A trentacinque anni dalla loro sfida finale (la cronometro Firenze-Pistoia del 24 ottobre 1987), Beppe Saronni sente ancora sul collo il fiato e gli improperi dell’acerrimo rivale Francesco Moser, 71 anni, il più anziano dei due giganti del ciclismo italiano moderno. Moser ha una nuova fidanzata dopo il divorzio, un figlio celebre influencer e Belén come ospite fissa nel suo maso di montagna. Saronni che ha 65 anni e la stessa moglie da 45, si gode la pensione in Brianza e le cene tra vecchie glorie.
Saronni, Moser ha detto al «Corriere» che tra voi era scontro continuo, in corsa e fuori: impossibile andare d’accordo con uno che si sentiva superiore perché veniva dalla città.
«Lui evoca sempre il confronto tra un montanaro trentino con dieci fratelli che zappava la terra e un borghese di Milano. Peccato che io sia cresciuto a Buscate, nella campagna lombarda. Papà Romano era autista di bus di linea, mamma Giuseppina casalinga: eravamo quattro fratelli, si campava con un solo stipendio».
Lei pedalava e lavorava.
«Sì, per portare qualche soldo a casa: tre allenamenti a settimana, tre giorni di lavoro in fabbrica alla Olivetti e poi la gara alla domenica. Aggiustavo macchine da scrivere e imparavo a montare e smontare le Logos, le calcolatrici da cui vennero sviluppati i primi computer».
Perché il ciclismo?
«Per via di mio nonno materno Tito Brambilla, classe 1897, gregario di Libero Ferrario, il primo italiano a diventare campione del Mondo nel 1923 a Zurigo, ai tempi eroici di Binda e Guerra. Era un corridore indipendente, gregario a gettone come usava all’epoca. E poi per merito di mio padre, buon ciclista dilettante. Anche da mia madre ho ereditato qualcosa: giocava a basket in serie A nella Bernocchi Legnano, una delle prime squadre femminili italiane. Reclutavano atlete tra le apprendiste delle loro filande».
Da ragazzino lei era considerato un talento assoluto.
«Tra i 13 e i 17 anni ho vinto quasi 150 corse, tra pista strada e cross. I premi erano tubolari, pantaloncini di lana o caschetti di cuoio. Preziosi perché si usuravano facilmente. Grazie ai premi non dovevo chiedere ai miei genitori i soldi per comprarli. Dopo l’oro agli Europei di velocità, ho partecipato alle Olimpiadi di Montreal. A 19 anni, nel 1977, mi hanno autorizzato a passare direttamente professionista: era rarissimo».
Che ciclismo era, il suo?
«Ruspante e favoloso. Un gruppo di industriali italiani investiva su squadre e corridori contendendoseli a suon di milioni: c’erano i Del Tongo dei mobili, il Teofilo Sanson dei gelati, i Bagnoli della Sammontana, i Fornari della Scic Cucine, Belloni della Termozeta e Rancilio delle macchine da caffè. Erano appassionati, entusiasti e competenti, sempre presenti alle corse. Oggi le squadre, nel ciclismo come nel calcio, sono proprietà di fondi di investimento».
Cos’è cambiato?
«I costi del ciclismo si sono gonfiati. Dai piccoli industriali appassionati si è passati ai gruppi assicurativi e automobilistici e adesso addirittura agli Stati sovrani come Bahrain ed Emirati Arabi. Per allestire una squadra di alto livello servono almeno trenta milioni a stagione, in Italia si fatica a trovarne tre».
Perché Moser la soffre ancora così tanto?
«Ho sei anni meno di lui, sono arrivato nel professionismo quando Francesco era un Dio acclamato dalle folle e dai giornalisti. Il ciclismo era lui. Ho cominciato a batterlo presto e in più avevo la battuta pronta e la lingua affilata, al contrario di Moser, goffo e lento nell’esprimersi. Nel confronto televisivo perdeva sempre e non gli è mai andato giù. Dovrebbe farsene una ragione».
Ancora Moser: «Saronni ha avuto solo tre o quattro anni forti, forse troppo per il suo fisico. Infatti d’un tratto ha smesso. Io nel 1984 a Città del Messico feci il Record dell’Ora e vinsi Milano-Sanremo e Giro d’Italia».
«A dire il vero io ho vinto venti corse l’anno per sei stagioni di fila, non tre o quattro. E preferirei non parlare della famosa seconda giovinezza di Moser...».
Parliamone, invece.
«A fine carriera Francesco è stato il primo e in quel momento l’unico a far ricorso a una certa scienza, di cui disponeva in modo esclusivo. La bici con cui ha battuto il Record dell’Ora era un siluro che pochi anni dopo venne vietato perché dava vantaggi enormi. Per tacere del resto».
Se si riferisce a pratiche mediche come la trasfusione di sangue che oggi sono doping, all’epoca erano consentite.
«Sì, lo so. Ma ha sfruttato certe metodologie che il famoso professor Conconi offriva solo a lui: io e gli altri i suoi vantaggi li abbiamo subiti. Nel 1983 quando vinsi il Giro mi disse che era troppo vecchio e si sarebbe ritirato. Poi ha accettato il progetto del Record con innovazioni che non si sono rivelate sempre positive».
Perché?
«Sulla base di alcune di quelle innovazioni il ciclismo negli anni successivi ha avuto un sacco di problemi. Ma lui non aveva nulla da perdere e le ha sfruttate quando erano legali».
Potendo, lei avrebbe fatto le trasfusioni?
«Non posso rispondere a posteriori. Oggi potrei dire di no, magari allora avrei detto di sì, ma resta il fatto che lui era l’unico a usufruirne. Moser aveva il monopolio, è stato un po’ una cavia».
Lei invece si ritirò a 32 anni.
«Mi sono accontentato di una giovinezza sola dopo aver vinto due Giri d’Italia, un Mondiale, una Sanremo, un Giro di Lombardia e altre 120 corse. E i due Giri li ho vinti con le mie forze».
Moser, invece?
«Ha conquistato quello del 1984, disegnato per lui e dove la tappa dello Stelvio che gli sarebbe stata fatale venne cancellata per presunto maltempo. Superò il povero Fignon nella cronometro finale con una bici a ruote lenticolari che nessun’altro poteva permettersi. È stato bravo, ma queste cose vanno dette».
Anche i due Giri che lei ha vinto non erano proprio da scalatori.
«Infatti erano disegnati per Francesco che ho battuto sia nel 1979 che nel 1983 andando più forte di lui in salita e a cronometro. Ho vinto contro di lui e contro i suoi tifosi».
I famosi tifosi moseriani...
«Che in salita organizzavano catene umane per spingerlo quando arrancava e la notte si mettevano a fare schiamazzi sotto le camere d’albergo dove dormivo per non farmi dormire. Sa cosa mi fa impazzire?».
Cosa?
«Che nemmeno oggi, a 40 anni di distanza, Moser ammetta quanto io venissi molestato dai suoi tifosi e in che modo scorretto lo aiutavano. Ogni volta cambia discorso».
Quindi, più che di estrazione contadina e borghese, eravate di carattere completamente opposto.
«Sì. Ci beccavamo su tutto. Moser aveva un carattere impossibile anche con i suoi gregari che ancora adesso sono troppo educati per raccontare quanto venivano sfruttati e bastonati se non si sfiancavano per lui. Ma la gratitudine non è mai stata il suo forte. Le racconto una cosa».
Prego.
«Francesco ha vinto il suo mondiale a San Cristobal, in Venezuela, nel 1977. In quella corsa io che ero passato professionista da poco mi sacrificai per lui, come mi aveva chiesto il grande Alfredo Martini che dirigeva la nazionale. Pochi giorni dopo, al Giro del Lazio, eravamo in fuga io, lui e Felice Gimondi. Pensate mi abbia ricambiato il favore? No, pensò solo a vincere».
Ci sarà una qualità che gli riconosce.
«Una forza di volontà e una caparbietà mostruose. Io avevo più talento di lui ma vincevo solo quando ero in forma. Lui quando voleva».
Moser ha vinto tre Parigi-Roubaix, lei sul pavè non si è mai affacciato.
«Non gliele invidio, la Roubaix non l’avrei mai vinta perché il percorso non era adatto a me. I miei rimpianti sono diversi, ad esempio non aver mai corso il Giro delle Fiandre, che avrei potuto vincere, e aver trascurato il Tour de France dove potevo prendermi un bel po’ di tappe. Ma all’epoca i nostri sponsor erano italiani e volevano che corressimo in Italia».
Con Moser vi sentite?
«Spesso. Parla sempre solo lui, però: quando parte con i suoi discorsi è difficile interromperlo e comunque rischieremmo di litigare. Ci vediamo alle cerimonie e io compro regolarmente il suo vino che è davvero buono. Non guardo mai le fatture, ma non credo mi faccia sconti nemmeno lì».
C’è qualcosa su cui andate d’accordo?
«Nel giudicare lo stato del ciclismo italiano, che è davvero critico».
Perché?
«Per mille motivi: mancano gli sponsor, mancano i maestri, le strade sono così pericolose che i genitori non mandano i bambini ad allenarsi. E poi conta l’assenza di campioni che ispirino i giovanissimi».
Lei, quando era team manager alla Uae, ha scoperto il più luminoso di tutti, Tadej Pogacar, vincitore di due Tour.
«Difficile non notare un fenomeno del genere. Ma io preferirei soffermarmi sulla Slovenia, il Paese da cui Tadej viene. Due milioni di abitanti, fuoriclasse in tanti sport diversi, dal ciclismo allo sci al calcio al basket, una cultura straordinaria dell’educazione fisica a livello scolastico. I campioni non si costruiscono dal nulla, in Italia siamo messi male a cominciare dalla scuola».
Ci saranno un nuovo Moser e un nuovo Saronni?
«Non credo proprio e di sicuro non esisterà mai più una rivalità del genere. Con tutti i suoi eccessi e con i nostri caratteracci, sono stati anni meravigliosi: decine di migliaia di persone che stavano a bordo strada ad aspettare ore per tifare per te e contro di te, magari litigando tra loro ma innamorati persi dello sport».