La Stampa, 21 marzo 2023
Le confessioni di Amanda Knox
«Anche se ora sono libera e si è fatta giustizia sul mio caso, anche se adesso sono una madre e una moglie felice, sto ancora camminando sulla corda. E come tutti quelli che hanno guardato nell’abisso, così come ho fatto io, conosco bene quello strano senso di sconforto per portarne sempre un pezzo dentro di me». In un lungo articolo pubblicato sul sito Free Press, Amanda Knox racconta le sue prigioni, e tutta la sua storia kafkiana, un calvario lungo 4 anni passato a cercare di trovare un motivo per sopravvivere a 26 estati e 26 inverni col sole a spicchi. La sua vita «era deragliata», come scrive lei, nel momento in cui la sua compagna di stanza a Perugia, Meredith Kirchner, era stata brutalmente stuprata e uccisa. Cinque giorni dopo lei fu arrestata assieme al suo fidanzato, Raffaele Sollecito. «L’accusa era basta su una dichiarazione forzata che la polizia mi ha costretto a firmare dopo 53 ore di interrogatorio in una lingua straniera e senza un avvocato, dopo essere stata privata del sonno e maltrattata». Dopo qualche giorno, Rudy Guede, «un ladro locale», è stato accusato di quel delitto: «aveva lasciato le sue impronte e il suo Dna su tutta la scena del crimine e sul copro di Meredith. Mentre non è stata trovata una sola traccia di me in quella stanza e non mi sarebbe stato possibile partecipare a quella lotta violenta e sanguinosa senza lasciare nemmeno un segno».Non è una vicenda che ci fa onore quella di Amanda, perché non c’è mai la reversibilità del male. Abbiamo vissuto il solito processo mediatico, con una violenta campagna stampa a sostegno della condanna, in una missione quasi docetista, che nega l’essenza delle persone e degli imputati, riducendoli a fantasmi e streghe da mandare al rogo. Ma nonostante questo, lei credeva veramente il 4 dicembre del 2009 «quando il giudice e la giuria si sono presentati, che era solo una turista smarrita che aspettava di tornare a casa». Invece la condannarono: «La parola colpevole riecheggiava nella mia testa. Ho sentito una guardia dire a un’altra: “Poverina. Lei non capisce cosa sia appena successo"». Ma Amanda era silenziosa e senza lacrime perché quando si soffre non si ha neanche più la forza di piangere: lei lo sapeva benissimo che la sua vita cambiava, che quella era la sua epifania e quella di prima era finita. «Non ero una turista smarrita nell’attesa di tornare a casa. Ero un prigioniero e la prigione era la mia casa. La condanna, la sentenza, la prigione: questa era la mia vita. Non c’era altra vita che avrei dovuto vivere. Ero in carcere per un crimine che non avevo commesso, sarei stata rinchiusa per i migliori anni della mia esistenza. Non mi sarei più innamorata, non avrei avuto figli, una famiglia e neppure un lavoro e una carriera. Ero sola con me stessa. Non importa quanto fosse meschino, crudele, triste e ingiusto il mio destino: quelli erano i giorni che mi aspettavano, quello era il mio destino. E io non potevo fare altro che cercare di dargli un senso».Amanda ha pensato al suicidio, se l’è immaginato in ogni dettaglio, sognando di ingoiare i frammenti di una penna, bere la candeggina o tagliarsi i polsi sotto la doccia. Ha cercato di reagire, dentro al perimetro della sua prigione: scriveva lettere, leggeva un libro. E a qualcosa serviva. Ma restava quella disperazione che ritornava ogni mattina, «la sensazione di vedere chiaramente la realtà, per quanto triste fosse. Stavo lentamente e deliberatamente camminando sul filo del rasoio attraverso un abisso nebbioso senza fondo e senza niente a cui aggrapparmi». Ha cercato di sopravvivere, di tradurre la potenza distruttiva del carcere in un racconto umanitario, come sta facendo ancora adesso a ripensarci, come un albero che nutre la terra in cui si nutre, a cercare un respiro nell’aria e dare un senso a tutto quelle cose che un senso non hanno.Alla fine ce l’ha fatta. È sopravvissuta. Nel 2011, 4 anni dopo che tutto questo era cominciato, l’ultimo processo ha rovesciato la sentenza di primo grado e Amanda e Raffaele sono tornati liberi. Il male che ha fatto quell’ingiusto processo con la sua campagna stampa è rimasto, perché in giro la gente è ancora incredibilmente convinta che siano colpevoli. Però, lei è tornata in America, si è laureata, ha trovato un lavoro che le piace e ha messo su famiglia. Ma gli incubi non vanno mai via così. «Anche se ora sono libera e mi occupo di arte, come ho sempre desiderato, e se sono un’attivista dei diritti, come mai avrei pensato di essere, anche se sono una moglie con un marito innamorato e una madre con un figlio pieno di vita, io continuo ancora a camminare sulla corda». È vero che il tempo è una delle cose che non torna indietro, ma quello che è passato ha lasciato il suo segno per sempre e non si può cancellare. E non c’è un tempo per dimenticare il male, ci dice Amanda. Forse, dovremmo ricordarcelo anche noi, ogni tanto. —