La Stampa, 21 marzo 2023
Tra i russofili del Donbass
«Sì, io sono vecchia, ma li aspetto qui dentro. I russi torneranno. L’Ucraina se ne deve andare dalle regioni di Lugansk e Donetsk, Kiev può anche tenersela». Nel monastero di Sviatohirsk le nostalgiche dichiarate dell’ex Urss sono tre signore anziane sedute in un cantuccio della piazza, tra gatti e bimbi che giocano a pallone. Portano il foulard in testa, qualche amica passa a trovarle e va. Se la contano di chissà cosa, ma sulla guerra non si discute. Il fortino dei religiosi nel Nord del Donbass occupato e deoccupato è ancora ufficialmente sotto l’ombrello del Patriarcato di Mosca, così come era fino a dicembre il monastero di Pechersk Lavra a Kiev.
Molti preti e civili filo Putin sono scappati, anche a nuoto nel fiume, raccontano i testimoni a Sviatohirsk, quando le truppe del Cremlino sono arrivate fin lì. Una delle donne della Santa Dormizione prima non vuole parlare, poi rivisita la Storia dal piccolo villaggio con certezza granitica e spiega: «La mia casa è tutta distrutta, e sa chi è stato? Sono stati gli ucraini! Me l’ha detto mia sorella e io ci credo. Gli ucraini stanno bombardando questa terra e uccidono le persone».
Nel silenzio assordante del convento che si arrampica su colline ricche di vigneti da sminare, il fragore delle bombe sembra lontano, anche se il fronte oggi è solo trenta chilometri più in là. È un’esperienza estraniante, ma si cancella appena scendi in paese. Ancora più stonata, però, è la propaganda che si respira tra la gente che vive isolata nel convento, religiosi e non. Una comunità che crede che Mosca, realmente, sia lì a combattere per liberarli da Kiev.
Restaurazione e disinformazione, fede e lavaggio del cervello. Tra i residenti di questa terra di mezzo ucraina, che non disdegna di finire nelle braccia del Cremlino, c’è Aliona, una giovane spartana e calorosa, contenta che dei forestieri facciano capolino nell’eremo ortodosso affiliato alla Chiesa di Mosca. Si intrattiene a lungo, invoca la pace e bacia i piedi della Madonna, che durante i bombardamenti ha perso una mano, ma è rimasta in piedi: «Putin non mi è simpatico, ma è una figura storica – dice –. Non può fare altrimenti, dall’altra parte c’è qualcuno che lo costringe a comportarsi così». E ripesca uno dei fantasmi del leader del Cremlino, l’affondamento del sottomarino nucleare Kursk, il 12 agosto del 2000: «Lui ha pianto in chiesa per i marinai russi morti. Non poteva tirare su la nave. Nella sua posizione è molto difficile fare solo cose buone». Aliona ci saluta con un abbraccio, citando Toto Cutugno e Gigi Buffon, e chiedendoci se è ancora vivo Ennio Morricone: «Sapete, qui non usiamo molto internet, qualche volta guardiamo la tv».
È l’ora di pranzo. I bambini delle famiglie che si sono asserragliate alla Santa Dormizione si ritirano a mangiare. Le strade sono un viavai di preti ortodossi in abito talare nero, occhi bassi, lunghe barbe incoronano i loro volti. Uno di loro si ferma e accetta di parlare. È ucraino, è cresciuto lì. Spiega che ogni comunicazione con Mosca è formalmente interrotta, «poi si deciderà che fare dopo la guerra». Un anno fa, nella roccaforte di Sviatohirsk vivevano 120 monaci, uno è morto durante il bombardamento, e insieme a lui due suore. «Siamo rimasti in 100. Poi ci sono 250 civili – aggiunge –, la scorsa estate erano 600. Molti sono passati dall’altra parte».
I segni della distruzione sui muri bianchi e sulle guglie azzurre pastello sono ancora evidenti, anche se gli operai lavorano dalla fine dell’estate, quando la città è stata liberata, «ma per sapere chi ha sparato davvero bisognerebbe essere esperti balistici», sentenzia il monaco. Che vuole concludere con un messaggio di pace: «Qui non si prega per la Russia, è un mito quello. Nessuno però può impedire a un religioso di esprimere la sua opinione davanti a un tè».
Giù in paese, il diluvio del fuoco russo è scritto su ogni edificio. Sviatohirsk la ricca, meta lussuosa dei parlamentari ucraini e dei signori di Mosca pieni di soldi, ora è trasfigurata. Ogni palazzina è stata colpita e cade a pezzi. La proprietaria del resort Sherwood, unica struttura aperta nel giro di chilometri, ha contato danni per 2 milioni di dollari. Il benessere doveva essere cancellato, dal nemico invasore.
La signora Natalia Hostrenko, nello slargo davanti al Comune, vende il formaggio di capra ai pochi avventori e ci racconta di come lei e la famiglia si siano salvati dalla fucilazione. «Vengo da un altro villaggio, Studenok – dice –. Lì sono tutti filorussi. I nostri vicini ci hanno denunciati. Non ci hanno sparato solo perché ho tirato fuori un foglio che dimostrava che mio figlio è invalido ed era in Polonia. Non era vero, era al fronte. Vivaddio ci hanno creduto». È seduta ad un banchetto, attorniata dalle macerie e da qualche venditore di patate, esibite in grandi sacchi direttamente sulla strada. Dopo un paio di clienti, aggiunge dettagli su dettagli dei mesi di occupazione: «I soldati russi sono arrivati in sette, hanno circondato me e mio marito. Ci hanno detto che venivano a liberarci, ma da cosa?, ho chiesto. Erano tutti giovani, buriati, un militare della Russia dell’Est ci ha confessato: “Non capiamo cosa facciamo qua”. Un altro era benestante, del Daghestan, aveva l’apparecchio coi diamanti». Hanno puntato il fucile contro la coppia, insistendo: «Dov’è vostro figlio?». Poi, documenti alla mano, si sono convinti a graziarli. Studenok è stata occupata per 105 giorni, dal 1° giugno al 15 settembre. «Ora che i russi se ne sono andati, rimangono i miei concittadini, che attendono il loro ritorno. Nessuno li arresta – dice Natalia –. Come quelle quattro donne molto attive per Mosca, che saltavano dalla gioia quando è caduta Soledar, e oggi esultano per Bakhmut». Bel godimento, vedere i civili evacuare e morire, insieme a migliaia di soldati, da entrambe le parti.