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 2023  marzo 21 Martedì calendario

Il Manhattan project raccontato da Massini

E certo che i codici per un attacco nucleare sono poi finiti in una valigetta. La storia della bomba atomica, come la racconta Stefano Massini, è infatti una storia di valigie. E di elementi chimici, variabili indipendenti, montagne di dollari per comprare la fine della paura, morti che aumentano e scadenze che si avvicinano mentre in un cinema di New York, proiettando Casablanca, suonano As time goes by.È, anche, una profezia, ma all’inizio e soprattutto resta però una storia di valigie. E degli uomini che le hanno portate, svuotate, disegnate. Che cosa c’era dentro? Domanda sbagliata, o quanto meno insufficiente, perché i protagonisti di questa storia cercano di entrare «dentro il dentro del dentro del dentro». Vedono oltre lo sguardo e immaginano oltre il presente.
Dal 2007 Massini lavora sulla genesi della bomba atomica e sugli aspetti etici della scienza. Aveva prodotto un primo testo, poi si era “distratto” inseguendo le strade che hanno portato al fallimento di Lehman Brothers e al suo personale successo internazionale. Un filo gli era rimasto in tasca: l’uomo che finanzia e fa finanziare il Manhattan Project (Alexander, nato Surocka, Sacks) di Lehman Brothers è stato vicepresidente. Nato in Lituania, emigrato in America, aveva cambiato la sua valigia gonfia da profugo con quella, più piccola, di pelle lucida, da uomo d’affari.
Idealmente posata accanto a quella degli altri protagonisti. Quella di Leo Szilard (l’uomo che insegue l’estremo dentro) non è mai stata aperta perché si considera di passaggio e porta con sé «un atomo di nostalgia». Quella di Paul Erdos (il semplificatore assoluto) è vuota per ricordarsi che non ha bisogno di riempirla. Quella di Ed Teller (scisso a forza) è stracolma, perché si era portato via tutto, anche la polvere spazzata in casa perché quello «sporco era superiore allo schifo lasciato». Quella di Jeno Wagner (studioso del “cosa succede se”) contiene la calma interiore necessaria per calcolarlo. Ecco composto il “clan degli ungheresi”, come l’attore (Bela Lugosi, Dracula ) o come il mago (Houdini). Li chiamarono così fino all’esplosione, poi divennero “quelli della bomba”. Manca qualcuno? Sì certo. Einstein, che Massini presenta come una specie di password: la dici e si aprono porte, schermi, possibilità. Ed Enrico Fermi, lontano come il detonatore dal tritolo, intento a studiare la “pila nucleare a Chicago”. Poi ancora il capobanda, Robert Oppenheimer.
Capobanda perché all’inizio di Manhattan Project i personaggi vengono rappresentati un po’ come quei gangster che rimettono insieme la vecchia banda per tentare il colpo del secolo. Ognuno ha la sua specialità e la sua debolezza caratteriale. Hanno portato il loromondo da Budapest a New York. Hanno ridotto ogni passato al presente, cercando di garantire un futuro. Questo è il punto. Sentono la minaccia nazista («la mano dell’imbianchino Hitler») propagarsi. La risposta al che fare viene loro dalla fisica. Fanno ricorso al terzo principio della dinamica: ogni forza ne crea una uguale e contraria. «Hitler vuole annientare la democrazia? Per legge fisica la democrazia annienta Hitler». E così sia. Sarebbe una storia “dritto per dritto”, come in un fumetto del più volte evocato Superman: il bene contro il male, tanta incertezza, colpi di scena, un rovescio nel pre-finale e l’ happy ending. Finché entra in scena Oppenheimer. Con la sua valigia, ovviamente: «una valigia che non doveva esserci». La disegna da bambino: scura, con il manico rosso, per il profeta Elia, perché non può certo assurgere al cielo senza portarsi nulla.
Che cosa porta invece Oppenheimer al Manhattan Project, oltre alle competenze che lo fanno scegliere come responsabile da Vannevar Bush, l’uomo che considera tutte le variabili? Porta il dubbio, il dilemma morale, il peso della coscienza. Trasforma il “cosa succede se” della fisica nel “cosa faresti se” dell’etica. Ogni giorno la guerra uccide 11520 uomini. Quanti ne ucciderebbe l’atomica se venisse realizzata? La risposta può essere affidata all’aritmetica? Il male minore corrisponde al numero più basso? Nella mente di Oppenheimer, scissa tra il desiderio di riuscita e quello di fallimento, riecheggia l’urlo del suo maestro di scuola: «Capisci sì o no, chepunire l’orrore non è violenza, è giustizia?». Oppenheimer porta la zavorra del senso di colpa. Rappresenta «la variabile della pecora nera», lo scienziato contro la scienza perché non lavora a un acceleratore di particelle, ma a un’arma. Vorrebbe salvezza da risposte impossibili: cerca la formula fisica del dolore e l’equazione di sé stesso. Fa da contrappeso morale a chi ritiene che la bomba sia una specie di grande opera, stia alle democrazie come le piramidi ai faraoni. Percepisce il rischio, parafrasando il guerrigliero di Giù la testa,di dire un giorno: «Quando ho cominciato a costruire la bomba, allora credevo anch’io in tante cose, e ho finito per credere solo nella bomba». Di questa storia conosciamo l’esito, ma il tempo che abbiamo raggiunto non ci conforta sul fatto che sia stato definitivo. Non sapremmo dire al clan degli ungheresi a quale effetto abbia condotto la reazione a catena che hanno innescato. Proprio per questo la vicenda è non solo storica, ma attuale. Meritava una ricostruzione come quella di Massini, che ogni attore sarebbe contento di interpretare, qualsiasi valigia gli tocchi. Partendo da toni agro-ironici e ricorrendo a una scrittura densa di reiterazioni che richiama ilNovecento di Baricco, provoca l’addensamento di una tempesta che costringe personaggi e lettori a chiudersi nell’angusta stanza della propria sensibilità cercando la soluzione alla più difficile delle equazioni. Dentro al dentro del dentro: se esiste la guerra giusta esiste anche il modo giusto per terminarla? O è tutto soltanto inevitabile?
I personaggi vengono descritti un po’ come quei gangster che rimettono insieme la vecchia banda per tentare il colpo del secolo