https://www.treccani.it/enciclopedia/bilancio-e-finanza-pubblica_%28L%27Unificazione%29/, 21 marzo 2023
Debito, bilancio e finanza pubblica nei primi anni dell’Unità
Fra i compiti più ardui che i governi del nuovo Stato dovettero affrontare va annoverata la costruzione della finanza pubblica, la colonna su cui l’amministrazione italiana doveva poggiare per dimostrare solidità e affidabilità agli occhi dei propri cittadini e delle potenze straniere. Non si trattò affatto di applicare semplicemente all’Italia l’impalcatura fiscale del Regno di Sardegna, perché anche questa, che era certamente la più avanzata fra quelle degli Stati preunitari, si rivelò inadeguata ai bisogni del nuovo Regno. Occorsero creatività e coraggio, se non si voleva che le aspettative di progresso venissero frustrate da una finanza povera e squilibrata, come notò pubblicamente Quintino Sella varie volte e in particolare in un suo famoso discorso del 14 aprile 1865:
Vi erano due strade da tenere nella formazione del Regno d’Italia (…) Alcuni (…) ed erano i più paurosi (…) hanno potuto credere che si potesse mettere una specie di spegnitoio sopra il bisogno prepotente di lavoro, di movimento sorto in tutto il Regno, sopra questa spontanea necessità di nuova vita, e si dovessero continuare le spese in corrispondenza alle piccole risorse che avevano gli antichi Stati, e che finalmente non occorresse affrettare tanto l’unificazione, ma convenisse andare avanti lemme lemme, adagino, con tutto il nostro comodo. Noi abbiamo scelto una via diametralmente opposta; noi ci siamo gettati animosamente a soddisfare i bisogni di civiltà, di progresso che traspiravano da tutte le parti delle popolazione italiana (…) L’Italia dunque, a parer mio, ha fatto benissimo a gettarsi animosamente in tutte queste spese per provvedere ai bisogni dell’incivilimento e del progresso.
Vale dunque la pena di ripercorrere la situazione della finanza pubblica negli Stati preunitari e i provvedimenti che via via vennero concepiti e realizzati dai primi governi del Regno per comprendere la grandezza del disegno che venne perseguito e che valse all’Italia quella stabilità finanziaria che le permise di entrare senza tentennamenti nel novero dei pochi paesi capaci di percorrere irreversibilmente la strada della modernizzazione. In questo percorso, incontreremo vari protagonisti, ma due si stagliano fra tutti: Quintino Sella e Marco Minghetti.
Quintino Sella nacque da una famiglia di lanieri di Biella (sua madre ebbe 20 figli, di cui 10 sopravvissero), ma non lavorò nell’impresa di famiglia; si laureò in ingegneria (1847), intraprendendo una carriera di ricerca nel campo degli studi cristallografici che lo portò anche all’estero. Entrato in politica nel 1860, fu ministro delle Finanze con il gabinetto Rattazzi a soli 35 anni (4 marzo-8 dicembre 1862), poi col La Marmora (28 settembre 1864-31 dicembre 1865), quindi col Lanza (13 maggio 1869-19 luglio 1873), facendo sentire la sua influenza anche nei periodi in cui non fu al governo. Fra le sue altre attività, vanno annoverate la fondazione del Club alpino italiano nel 1863 e la presidenza dell’Accademia nazionale dei Lincei.
Marco Minghetti, nato da una famiglia di proprietari terrieri benestanti del bolognese, ricevette anche attraverso numerosi viaggi all’estero una preparazione culturale molto profonda, che spaziava tra letteratura, scienza ed economia. Il suo più famoso scritto in quest’ultima disciplina titola Della Economia Pubblica e delle sue attinenze colla morale e col diritto. Trasferitosi in Piemonte dopo le vicende del 1848-49, collaborò con Cavour. Fu ministro dell’Interno col governo Ricasoli (17 marzo-1° settembre 1861), quindi ministro delle Finanze nel governo Farini (8 dicembre 1862-4 marzo 1863), presidente del Consiglio (24 marzo 1863-28 settembre 1864, mantenendo anche il dicastero delle Finanze), infine ancora presidente del Consiglio e ministro delle Finanze (10 luglio 1873-18 marzo 1876), un periodo quest’ultimo in cui si completò il disegno di finanza pubblica da lui condiviso col Sella.
Si tratta dunque di due personaggi di grande cultura e statura morale, che conoscevano ampiamente le più progredite realtà statuali estere e ad esse si ispirarono, come potremo vedere analizzando i singoli provvedimenti fiscali che vennero introdotti. Gli altri protagonisti, anch’essi di notevole levatura culturale e impegno civile, si inserirono senza grandi contrasti nel disegno pensato e politicamente posto in essere da Minghetti e Sella.
LA SITUAZIONE DELLA FINANZA PUBBLICA NEGLI STATI PREUNITARINon vi è miglior modo di presentare le grandi differenziazioni esistenti in Italia in materia fiscale che far parlare lo stesso Minghetti, il quale, in una lettera agli elettori dell’ottobre 1865, così riassumeva la situazione trovata dai governi unitari:
L’Italia in materia di ordini finanziari era forse più che in ogni altra parte della cosa pubblica dissimile, e quasi direi pugnante in sé medesima (…) Se si prendono in esame le leggi di imposta che vigevano nei vari Stati innanzi il 1859, si vedrà quanto diversificassero fra loro tranne un solo punto, cioè l’imposta prediale, ma questa medesima fondata su catasti o sopra indicazioni diverse era riscossa in diverse misure e con diverse forme. Se poi si parla delle imposte dirette su redditi non fondiari, queste in talune Provincie erano molteplici e svariatissime: in altre neppure esistevano. La stessa varietà si riscontrava nella tassa sugli affari. E quanto al dazio consumo, qui presentavasi sotto forma di canone gabellario, là sotto forma di tassa personale o focatico, in taluni luoghi apparteneva al Comune, in altri al Governo, o ad entrambi con varie proporzioni (…) Che se nelle imposte vi era varietà, e talora contraddizione, non meno diversi erano i sistemi, gli ordinamenti che alla finanza appartenevano. Amministrazioni autonome o, dove pur riunite, uffici aventi attribuzioni le più disparate fra loro, contabilità diverse, diversi metodi di percezione, Corti di conti molteplici e procedenti con criteri disformi.
tabella 1In particolare, le difformità più gravi erano esistite nel Regno delle Due Sicilie, dove le entrate fiscali all’unificazione erano ferme dagli anni 1830 e derivavano solo dall’imposta fondiaria (1/3), dalle dogane (1/3), dai dazi consumo della città di Napoli, da qualche privativa e da qualche imposta di registro e bollo, e in Sicilia dalla tassa sul macinato. Del tutto inesistenti erano le imposte sul commercio, le professioni, le rendite finanziarie e le successioni. La consistenza delle entrate delle aree che vennero a far parte del Regno d’Italia è riportata nella tabella 1, che evidenzia l’alto livello di contribuzione del Regno di Sardegna e la grande varietà del quadro generale, con il Regno delle Due Sicilie in ultima posizione.
Gli ambienti diplomatici internazionali erano al corrente di questa situazione e i giornali inglesi, francesi e tedeschi arrivarono a mettere in dubbio la sopravvivenza del nuovo Regno a causa delle difficoltà di bilancio. Era dunque un obiettivo prioritario la costruzione di una nuova impalcatura fiscale, ma si comprende come mai essa non potesse essere concepita in poco tempo, anche a causa degli episodi bellici nel frattempo occorsi; ci volle un decennio perché fosse interamente completata e qualche anno in più perché andasse a regime con il raggiungimento del pareggio di bilancio alla metà degli anni 1870.
Un solo passo poté essere compiuto senza indugio dal primo ministro delle Finanze del Regno, l’uomo d’affari livornese Pietro Bastogi, e fu l’unificazione dei debiti pubblici esistenti negli Stati che vennero a formare l’Italia. Con le due leggi dell’estate 1861, che istituivano il «Gran libro del debito pubblico», e provvedevano all’iscrizione dei debiti precedentemente in essere come debito consolidato del Regno d’Italia (in gran parte al 5% e in una parte minore al 3%), si diede risposta alla necessità a un tempo di ordine e di stabilità. Come disse lo stesso Bastogi in Parlamento il 29 aprile 1861:
Bisognava perché l’Italia meritasse il credito di tutta l’Europa cominciare a rispettare tutti i debiti contratti (…) Né sarebbe conveniente alla nuova Italia che essa si costituisse debitrice degli antichi prestiti e pagarli, quasi fosse procuratrice degli antichi governi. Di qui la necessità di distruggere i loro antichi titoli e sostituire a quelli un titolo italiano.
Il livello di indebitamento totale del nuovo Regno non era troppo elevato (poco più di 3 miliardi di lire dell’epoca, con una percentuale sul prodotto interno di un terzo circa), ma era destinato rapidamente ad aumentare perché la copertura della spesa in essere da parte delle entrate si attestava solo al 60%. Inoltre, ciò che si evidenziò immediatamente fu la grande preponderanza del debito ereditato dal Regno di Sardegna (60% circa del totale a fronte del 30% del Regno delle Due Sicilie), mentre le altre aree avevano contribuito solo marginalmente. In realtà, osservando l’andamento del bilancio del Regno di Sardegna tra 1830 e 1860 (Felloni 1959), si nota un raddoppio delle entrate, ma anche picchi notevolissimi di spesa in corrispondenza con le due guerre di indipendenza (1847-50 e 1859-60), che provocarono elevati deficit di bilancio, con il decennio 1850 anch’esso sempre in deficit, sia pur contenuto, per la politica fortemente espansiva di Cavour. È interessante notare che in tutte le parti d’Italia, a eccezione del Regno delle Due Sicilie, le entrate aumentarono nel trentennio preunitario, ma in nessuna allo stesso tasso del Regno di Sardegna (Romani 1968). Si può dunque sostenere che il deficit cronico del Regno di Sardegna non fu dovuto a inerzia fiscale, ma a un ambizioso disegno politico-economico di espansione, indispensabile per giungere all’unificazione, disegno che non poteva essere interamente supportato dalla tassazione.
I FONDAMENTI DEL NUOVO SISTEMA IMPOSITIVOLe imposte sugli affaritabella 2L’opera di unificazione normativa incominciò dalle imposte indirette sugli affari, perché era il settore in cui tutte le legislazioni fiscali precedenti erano attrezzate, con un’influenza manifesta del modello francese (a eccezione della Lombardia). Fu già Bastogi a presentare una legge in merito nel luglio 1861, sempre sul modello francese dell’imposta di registro, che comprendeva però anche l’imposta di successione, non presente nel Regno delle Due Sicilie. La disparità esistente subito prima dell’unificazione è dimostrata dalla tabella 2, da cui emerge l’alto livello di questo tipo di tassa nel Regno di Sardegna in confronto agli altri Stati.
Il progetto di Bastogi estese in questo caso la legge di successione del Piemonte a tutta l’Italia, mitigandone però il rigore, con un minimo di esenzione in linea retta, con aliquote differenziate a seconda del grado di parentela e con l’esclusione delle passività. Pur con queste clausole migliorative rispetto alla legge piemontese, si calcolava di aumentare il provento totale di circa 32 milioni di lire, per l’estensione del tributo a tutti i territori. La proposta di Bastogi non andò in porto per le vicende travagliate dei primi governi, ma venne ripresa da Sella nel marzo del 1862 e approvata rapidamente, come anche la tassa di bollo, l’imposta ipotecaria e l’imposta di manomorta sui beni ecclesiastici (che sopperiva al mancato passaggio di mano per successione di tali beni). Difficile fu invece l’introduzione di una tassa interamente nuova sul movimento ferroviario, che colpiva i trasporti a grande velocità con un’aliquota del 10%, perché se ne temeva l’effetto di disincentivo del commercio, ma alla fine la tassa fu approvata, sia pur con molti voti contrari.
Tuttavia, si era ben lontani, con queste modifiche marginali, dall’aver risolto i problemi della finanza del nuovo Regno, come Quintino Sella dichiarò senza mezzi termini in un suo memorabile discorso alla Camera del 7 giugno 1862:
noi colla più grande indifferenza, senza mai tener conto del nostro passivo e del nostro attivo, senza preoccuparci mai dei mezzi coi quali si farà fronte alle spese, andiamo a votare un miliardo di spese contro mezzo miliardo di entrate! Continueremo noi ad avere un bilancio di un miliardo con un attivo di mezzo miliardo? Oppure non è giunto il tempo di dover seriamente pensare a rimettere ordine nelle finanze, e a non fare le spese se non quando si sarà sicuri di avere i mezzi per farle, se non quando si sarà provveduto con modi ragionevoli ad avere questi mezzi? (…) Non è giunto il momento di dire: dobbiamo seriamente ridurre l’ordinario al solo necessario; dobbiamo aggiungere a questo necessario l’interesse sulle somme che occorressero in via straordinaria per la difesa nazionale e per i lavori pubblici, e dobbiamo provvedere a queste passività ricorrenti con un buon sistema d’imposte? Non è giunto il momento di prendere ad esame questo sistema delle imposte, di organizzarle definitivamente, e, quando siano organizzate, di vedere se si possa aspettarsene, entro un discreto tempo, quello sviluppo che sia tale da pareggiare, con una data loro misura, il passivo ordinario?
Sugli stessi temi ritornava Sella il 1° dicembre 1862 nel discorso di presentazione della previsione finanziaria del paese per il 1863:
Il Regno d’Italia si è formato direi in un attimo, per l’aggregazione di provincie da tanti secoli divise da altissime barriere. Le condizioni economiche di parecchie di queste provincie rese infelici per l’effetto della mala signoria o della straniera servitù, poche vie di comunicazione, quasi nessuna scuola popolare ed il commercio inceppato da quel mortale suo nemico che è l’arbitrio. Le imposte degli antichi Stati italiani in parte non piccola al momento della loro liberazione furono abrogate dai Governi provvisorii o per crederle oppressive o per affezionare le popolazioni al nuovo ordine di cose. Finalmente le spese del nuovo regno sono relativamente maggiori della spesa totale degli antichi Stati, a cagione della necessità di portar presto la civiltà di tutte le parti del regno all’altezza dei tempi odierni, ed a compiere i supremi destini del paese (…) Quindi la necessità, o signori, di attendere a tutta possa al riordinamento delle finanze ed allo sviluppo della ricchezza, alla diminuzione delle spese non proficue ed all’accrescimento dell’entrata.
Dopo aver passato in rassegna le spese e aver chiarito che i risparmi che si potevano effettuare erano marginali, Sella ribadiva che «ad assestare le nostre finanze occorrono imposte, imposte, null’altro che imposte», mentre per far fronte alle necessità impellenti di copertura dei disavanzi, oltre all’accensione di nuovi debiti, la strada era quella dell’alienazione in una forma o in un’altra dei beni dello Stato. Rinviando a un paragrafo successivo la trattazione della finanza «straordinaria», proseguiamo qui nell’illustrazione di quella ordinaria.
L’imposta fondiariaLa prima questione affrontata fu quella della «perequazione» dell’imposta fondiaria, resa difficile dalla mancanza di un catasto uniforme sul territorio della nuova nazione. Venne prontamente istituita una commissione (l’11 agosto 1861), che mise a nudo la situazione assai diseguale dei catasti esistenti. Sostanzialmente, esistevano due tipi di catasto: quello geometrico-particellare e quello descrittivo. Il primo era basato su misurazioni che davano luogo a mappe dettagliate con l’indicazione dell’uso e della redditività dei terreni ed era in vigore nell’ex Regno di Sardegna, nel Lombardo-Veneto, nell’ex Ducato di Parma, in Toscana e nello Stato pontificio, con diversi gradi di aggiornamento. Il secondo era basato sulle denunce dei singoli possessori, a volte controllate da commissioni che usavano criteri generali (ma non una misurazione diretta), e dava luogo a gravi imprecisioni e contestazioni, non essendo accompagnato da mappe. Tale tipo di catasto era in vigore nell’ex Ducato modenese e soprattutto nell’ex Regno delle Due Sicilie. Inoltre, nei catasti particellari veniva colpito il prodotto netto ottenuto su una media di più anni, mentre nei catasti descrittivi si colpiva il reddito corrente.
tab. 3In realtà, si prese in considerazione la possibilità di cambiare approccio usando l’imposta sulla rendita (proposta da Sella), ma soprattutto Minghetti si pronunciò per lasciare il catasto alla base di questo tipo di imposta. Fu dunque Minghetti che propose un «conguaglio provvisorio», da calcolarsi per compartimento sulla base di ingegnosi sistemi di rilevazione che erano stati predisposti da una Commissione nominata a tale scopo subito dopo l’unificazione. In sostanza, si raccolsero circa 750.000 contratti di compravendita di beni immobili stipulati negli anni 1851-60 e ripartiti per tutto il territorio, oltre alle imposte che avevano qualche nesso con i prezzi di compravendita e ai tassi di interesse attribuiti ai capitali impiegati, e si ottennero quattro stime non troppo distanti fra di loro della suddivisione dell’imposta fondiaria (tab. 3), in attesa di una nuova catastazione uniforme dei terreni.
La decisione finale presa dopo molte e accese discussioni e con numerosi voti contrari nella legge n. 1831 del 14 luglio 1864 aumentava di poco la contribuzione totale, spalmandola in modo che le distanze fra aree si smussassero. Confrontando la colonna 1 della tabella 3 (situazione precedente alla legge) con la colonna 8 (primo anno di piena vigenza della legge) si vede che Piemonte, Modenese, Toscana, Napoletano e Sicilia ebbero degli aumenti, mentre Lombardia, Parmense e le aree dell’ex Stato pontificio registrarono diminuzioni, con un restringimento della forbice tra i più tassati (i cittadini della Lombardia, che da lire 7,44 pro capite e scendevano a lire 6,33, restando sempre al limite superiore) e i meno tassati (che erano i cittadini della Sicilia, con lire 3,40 pro capite prima e lire 4,24 pro capite dopo, restando sempre al limite inferiore).
Ecco il commento che Minghetti fece alla proposta di legge il 19 marzo 1863:
Ora, se voi vorrete confrontare i risultati finali, che si propongono colla popolazione dei diversi ex-stati, rileverete che col nuovo riparto, se l’imposta non riesce eguale per abitante di ciascuno di essi, il che né doveva né poteva essere, scompaiono però quelle differenze esorbitanti che oggi sono e non possono spiegarsi. Vedrete che anche dopo questo riparto la Lombardia e Parma, che diminuiscono, rimangono però sempre ai più alti gradi di imposta, Il Piemonte che aumenta conserva un posto di mezzo, Toscana e Sicilia, pure aumentando, tengono gli infimi gradi. Le quali cose tutte debbono ingenerare nell’animo vostro il convincimento che se non l’esattezza assoluta, sempre impossibile ad ottenersi in questa materia, si viene però colle attuali proposte molto vicino al vero ed a conclusioni che possono essere accettate con tranquilla coscienza.
Si potrebbe obiettare che il ragionamento non era proprio corretto, in forza della diversa produttività per ettaro delle terre, notoriamente maggiore nella pianura padana e minima in Sardegna e in forza della diversa incidenza dell’agricoltura nelle varie aree. Abbiamo provato nell’ultima colonna della tabella 3 a calcolare in termini percentuali il conguaglio 1867 sugli ettari delle aree coltivate di ciascuna zona e il risultato sembra plausibile anche da questo angolo visuale, con Lombardia e Piemonte che si stagliano ai livelli alti, seguiti dall’Emilia, e la Sardegna molto distanziata. Un esercizio più risolutivo sarebbe quello di calcolare il contributo sul rendimento per ettaro, ma questo attende ancora uno studio dedicato. Il conguaglio che avrebbe dovuto essere un provvedimento temporaneo durò a lungo, per i forti contrasti a varare un nuovo catasto geometrico-particellare per l’intero paese, una decisione che venne presa solo nel 1886, innescando un processo che vide la sua conclusione definitiva nel 1956.
Il passo successivo fu quello di rendere autonomo il tributo sui fabbricati non rurali; ad esso si applicò ancora Minghetti, presentando un progetto di legge apposito il 18 aprile 1864, che venne approvato come legge n. 2136 – la quale istituiva anche il catasto dei fabbricati – il 26 gennaio 1865, quando al ministero delle Finanze era subentrato Sella. Si tratta anche in questo caso di una legge «moderna», introdotta in Italia prima che in Francia, che permise di separare i fabbricati dal destino del catasto dei terreni, utilizzando un metodo di accertamento che permetteva un adeguamento rapido dell’imposta all’incremento del valore dei fabbricati urbani.
L’imposta di ricchezza mobileMa il «pezzo forte» della imponente riforma fiscale effettuata dopo l’unificazione fu un altro: l’imposizione sui redditi diversi da quelli derivati da immobili. Solo nel Regno di Sardegna era stata tentata questa strada, ma con metodi indiziari (l’abitazione, i mobili, le persone di servizio, i cavalli, le vetture), che la configuravano più come un «testatico» con una leggera progressione che come un’imposta sui redditi. Altrove vi erano tributi su particolari attività, o su stipendi pubblici, oppure tasse di famiglia (il vecchio «focatico»), mentre nelle aree ex pontificie e dell’ex Regno delle Due Sicilie commercio e industria erano esenti da imposizione. Ecco come Minghetti riassumeva la situazione nell’esposizione finanziaria del 14 febbraio 1863:
Nelle antiche provincie avvi la tassa personale e mobiliare, quella sulle patenti e sulle vetture pubbliche e private. Nella Lombardia v’ha una tassa sulla rendita e un contributo d’arti e commercio. Trovi a Parma la tassa personale e la tassa patente; a Modena una tassa sui capitali fruttiferi, sui capitali posti in commercio, la personale e la tassa sul bestiame; nelle provincie pontificie la tassa patenti, comunque fosse per legge stabilita, non ebbe mai esecuzione. Finalmente in Toscana la tassa famiglia colpisce chiunque abbia uno stato qualunque, o per ragione di patrimonio o per ragione di industria.
tabella 4La distribuzione territoriale del bassissimo gettito di questo tipo di imposte era all’unificazione quella riportata nelle prime due colonne della tabella 4. Nell’agosto del 1860 erano stati presentati dei progetti di legge che sostanzialmente proponevano di estendere a tutto il Regno il tipo di imposizione vigente nel Regno di Sardegna, ma queste proposte furono oggetto di pesanti rilievi sull’inapplicabilità generale dell’approccio indiziario. Il ministro Bastogi aveva quindi istituito una commissione, conservata anche da Minghetti, che nei primi mesi del 1862 manifestò la preferenza per un sistema fondato sulle dichiarazioni dei contribuenti. Fu solo sotto il ministero di Sella, però, che si giunse a formulare una proposta di legge in tal senso, accompagnata da una robusta capacità argomentativa corroborata da dati statistici e confronti internazionali, che indirizzava risolutamente l’opinione parlamentare verso l’approvazione.
Ripercorriamo gli argomenti forti esposti da Sella nella relazione al progetto di legge presentato alla Camera il 18 novembre 1862:
Fra i mezzi ai quali si poteva ricorrere, con grande probabilità di felice successo, per conseguire lo scopo che tanto, e con tanta buona ragione, preoccupa oggidì, del bilancio dello Stato, un’imposta sui redditi della ricchezza mobile era quello che più prontamente si offriva e sembrava meritare la preferenza. Due titoli di gran momento la raccomandano alla vostra attenzione, e furono per me decisivi. In primo luogo, il principio da cui essa parte, considerato teoricamente, ne fa la sola, tra le molte specie d’imposte che nel mondo prevalsero, la quale si accosti assai da vicino al concetto fondamentale delle pubbliche contribuzioni. La tassazione dei redditi procede logicamente e nettamente; abbandona le antiche vie tortuose, non cerca la cosa tassabile indipendentemente dall’uomo, non vuole proteggere industrie né favorire classi sociali, né opprimerne altre; ma, fondando direttamente i suoi calcoli sulla cifra reale della ricchezza, invece di andar tentoni cercandone gli indizi bene spesso fallaci, pone chiaramente il problema preciso della finanza: data una spesa da sopportarsi in comune, domanda a ciascun cittadino la parte sua, non già con la legge cieca del testatico, ma secondo l’annuo reddito che ciascuno possieda, secondo, cioè, il solo titolo per cui il cittadino possa sentirsi tenuto di concorrere in un’annua spesa che si faccia a beneficio di tutti. Si direbbe che la tassazione dei redditi sia l’inaugurazione della verità nelle imposte; costituisce forse l’unico caso al quale non possa competere l’espressione felice di cui si servivano i nostri padri, quando avevano dato il titolo di gabbanti a quelle tasse che gli Stati moderni han chiamato semplicemente indirette (…) In secondo luogo, questo teoretico pregio ha il suo naturale riscontro nella pratica amministrazione. Raggruppando le varie forme della produzione annuale per colpirle di una sola imposta, non solo si semplifica sempre più il metodo della riscossione, ma ancora, ciò che importa di più, si diminuisce il disturbo dei contribuenti. (…) Una sola obbiezione sembrava affievolire i motivi di favore, da cui si presenta accompagnato il principio di un’imposta sui redditi; ed essa è la difficoltà, vera o temuta, della sua pratica attuazione. Confesserò alla Camera che, avanti a questo dubbio, io pure ho alquanto esitato (…) Ma, dando attorno uno sguardo sul mondo e sulla storia, io ho trovato che l’Italia oggi sarebbe piuttosto il solo paese in cui il principio di un’imposta sui redditi, sotto una forma qualunque, pura o mascherata da imposta sul capitale, stabilita in modo perpetuo o temporaneo, sotto un titolo o sotto un altro, non figuri ancora esplicitamente nella legislazione finanziaria.
Caduto il governo di cui Sella faceva parte, Minghetti mandò avanti senza tentennamenti l’iter della legge, perché riteneva che il progetto del suo predecessore fosse stato presentato «con tale sodezza di argomenti e con tale copia di documenti» da non richiedere modifiche sostanziali. La discussione parlamentare fu vivace e combattuta. Molti furono i parlamentari favorevoli all’adozione di qualche vecchia forma di contribuzione, ma le loro argomentazioni vennero contestate da Sella, Emilio Broglio, Leopoldo Galeotti, Valentino Pasini e dallo stesso Minghetti, soprattutto sulla base dell’impossibilità di individuare indizi «oggettivi» che avessero la medesima valenza nelle diverse parti del paese. Una modifica di non poco conto introdotta dal Parlamento fu la discriminazione qualitativa del reddito, che si ispirava a una famosa discussione avvenuta in Inghilterra sulla riforma dell’income tax: la diversa natura dei redditi meritava aliquote diverse, per permettere in caso di maggiore incertezza maggiori accantonamenti a risparmio. Si arrivò così a tre distinte categorie di reddito – i redditi perpetui (tassati integralmente), i redditi misti da capitale e lavoro (tassati per i 6/8) e i redditi da solo lavoro o da pensione o da vitalizio (tassati per i 5/8) –, oltre che all’esenzione per i redditi bassi. Una simile distinzione venne accolta nell’income tax inglese solo a partire dal 1907, ma Einaudi riteneva che la formulazione italiana restasse anche allora migliore. In Francia, un’analoga proposta di introduzione di un’imposta generale sui redditi avanzata nel 1870 venne respinta e solo la necessità di risorse della prima guerra mondiale valse a far cambiare atteggiamento.
Proprio per la novità dell’approccio seguito, l’iter di questa legge fu ancora più accidentato di quello delle altre già ricordate. Oltre alle modifiche di cui sopra, l’iniziale proposta di esenzione delle rendite da debito pubblico venne accantonata, ma la riscossione per ritenuta non venne subito introdotta (lo fu nel 1868). Finalmente la legge fu approvata nei primi mesi del 1864, ma pubblicata il 14 luglio 1864 come legge n. 1830, in concomitanza con la legge sull’imposta fondiaria. Inizialmente per un paio di anni venne applicato il sistema del contingente, poi quello della «quotità» (8% sopra il reddito imponibile, con alcune esenzioni e riduzioni di aliquote per i redditi più bassi). Il contingente venne calcolato inizialmente sulla base di lire 1,70 pro capite per le province settentrionali; 1,40 per le centrali e 1,20 per le meridionali, anche per rendere meno pesante un’imposta che nel meridione non era mai esistita. Quando Sella tornò alle finanze, alzò l’aliquota al 12% (1870), con un’addizionale che la fece arrivare al 13,2% e fu su questo livello che l’imposta andò a regime, con la distribuzione territoriale che si può notare nelle ultime quattro colonne della tabella 4, dove abbiamo escluso l’imposta riscossa con il metodo della ritenuta, perché andava a gonfiare in modo inconfrontabile la zona dove si trovava l’amministrazione statale (la Toscana prima e il Lazio dopo). In essa si vede che il gettito pro capite nel Mezzogiorno era molto inferiore a quello delle altre aree nel 1872 e ancor più nel 1881.
È certamente sorprendente che un proprietario terriero come Minghetti e un rampollo di famiglia industriale come Sella siano stati i protagonisti delle battaglie parlamentari che condussero a tassare le loro classi sociali, ma questa loro lungimiranza valse a inserire l’Italia fra i paesi con una legislazione fiscale fra le più avanzate del mondo. Non sono molti i periodi storici che possono vantare un personale politico con simili qualità. È in particolare l’imposta sulla ricchezza mobile il capolavoro della classe politica dell’epoca, una classe che ebbe il coraggio di guardare avanti in modo creativo, non adagiandosi su qualche prassi già esistente.
L’imposta sul macinatoLa creazione del fisco italiano non terminò nel 1865 con la citata legge che separava i fabbricati non rurali dal resto, anche perché il gettito dei nuovi tributi tardava a regolarizzarsi e le spese, soprattutto per la difesa, non accennavano a diminuire. Vedremo in un prossimo paragrafo il vorticoso aumento del debito pubblico e i mezzi straordinari messi in campo per abbatterne il peso. Nel suo discorso alla Camera il 13 dicembre 1865, Sella passò dunque in rivista tutte le possibilità residue di ulteriori imposte:
Ci sarebbero le gabelle; ma sapete che nelle dogane non possiamo fare aumenti [nel 1863 si era infatti deciso per un regime liberistico] (…) Quanto al sale e tabacco io già vi diceva che non c’è altro che lasciar la tariffa attuale (…) Vuolsi allora cercare qualche altra imposta indiretta che possa dare un grande provento alle finanze. Un’imposta di questo genere deve essere a base larga, imperocchè quando si prendessero imposte le quali non vertano sopra oggetti di grande consumo, dovrebbero essere troppo alte le tariffe e quindi troppo perturbatrici per dare un provento notevole. (…) Bisogna fare che un’imposta di questo genere non riesca di esosa riscossione. Ora, o signori, io, dopo averci lungamente pensato non senza esitanza e con grande rincrescimento mio, imperocchè, o signori, codesti uffici non si fanno volentieri, sono costretto a dirvi che credo trovare questi requisiti, meglio che in qualunque altra imposta, nella tassa sulla macinazione.
Ma il governo di cui Sella faceva parte cadde. Ministro delle Finanze venne nominato Antonio Scialoja, senatore napoletano, costretto all’esilio in Piemonte dopo il 1849, il quale, oltre ad aumentare le tasse di registro e bollo, pensò di unificare le imposte dirette in una imposta generale sulle entrate. La sua rivoluzionaria proposta di legge esposta alla Camera il 27 gennaio 1866 non incontrò però il favore dei parlamentari, che nominarono una Commissione per lo studio della questione. Nel marzo del 1866 si abbatté la grave crisi di credibilità del governo italiano che portò un riluttante Scialoja alla proclamazione del corso forzoso il 1° maggio 1866. I mesi successivi furono travagliati, anche per la caduta del governo. I brevi mesi del 1867 in cui l’economista Francesco Ferrara fu al ministero delle Finanze videro la ripresentazione del progetto per l’introduzione della tassa sul macinato (giugno 1867); ma di nuovo ci fu una crisi di governo, e alle Finanze andò Luigi Guglielmo conte di Cambray-Digny, proprietario terriero toscano e studioso di economia agraria, che riprese la proposta di Scialoja di unificazione delle entrate da imposte dirette e ripropose la tassa sul macinato. La Commissione parlamentare, non a caso presieduta da Sella, respinse la prima proposta, ma accolse la seconda, accompagnata da un inasprimento delle aliquote di molte imposte vigenti.
L’imposta sul macinato evocava non solo seri dubbi sulla sua opportunità in quanto gravava su consumi di base, ma faceva anche temere una grave macchinosità nella sua applicazione, come era avvenuto in passato. Sella, da ingegnere, si era applicato alla risoluzione dei problemi tecnici, proponendo l’applicazione ai mulini di un contatore che segnasse i giri della ruota macinante. Cogliamo nella dotta e articolata esposizione di Sella del 13 dicembre 1865 il legittimo orgoglio per questo avanzamento tecnologico:
Abolite le polizze e le stadere, il contribuente non deve che mirare il contatore, prender nota del numero da cui cominci la sua macinatura, confrontarlo con quello con cui finisca e conteggiare col suo mugnaio le centinaia di giri eseguitisi: tutto ciò agevolmente si compie senza dubbi e contrasti e, quel che è più, senza inutile consumo di tempo (…) La facoltà di macinare in qualsiasi momento, la pienissima libertà di trasportare i grani e le farine come se nessuna imposizione vi gravitasse è conseguenza spontanea del sistema de’ contatori (…) Tale è il sistema in cui io credo che possa trovarsi la più soddisfacente soluzione di un problema agitato indarno per secoli, quello cioè di porre a profitto nell’interesse del pubblico una delle più feconde imposte che mai si possano immaginare, conciliandola, con tanta libertà ne’ cittadini, con tanta semplicità nelle forme e con tanta parsimonia di spese, che non avrebbe certamente esempio in tutta la storia delle pubbliche finanze.
Sul merito della regressività della tassa, Sella cercò di sviluppare molte e articolate argomentazioni, nessuna delle quali perfettamente convincente, ma il suo asso vincente fu il richiamo alla necessità di fermare la caduta delle quotazioni del debito pubblico, rovesciando le aspettative sul futuro del paese. Ai deputati che gli contestavano che il macinato fosse una tassa sul povero, replicò durante la discussione parlamentare del 28 marzo 1868:
Volete permettere anche a me di dire quale credo sia la tassa sul povero? (…) La vera tassa sul povero, a mio avviso, sta nella sfiducia, e starebbe essenzialmente in una catastrofe cui si andasse incontro. Oggi ci è una grave tassa nella sfiducia che va crescendo; sarebbe gravissima il giorno in cui (…) il fallimento si rendesse inevitabile (…) Riflettete un istante alla massa di capitali che diventa disponibile per la tassa sul macinato (…) Or bene, signori, io vi dico che i vantaggi economici che derivano al paese per l’aumento dei capitali disponibili, per la fiducia che farete rinascere ricompenseranno con tanta usura la classe operaia della tassa sul macinato che (…) non dubito che, ove si accalcasse sotto le nostre finestre, come disse taluno, lo farebbe per incoraggiarci, o signori, a prendere i provvedimenti che sono indispensabili ed a votare anzitutto il macinato.
tabella 5La legge n. 4490 venne approvata il 7 luglio 1868, ed entrò in vigore nel dicembre, ma scoppiarono tumulti in varie parti del paese, perché erano state sottovalutate le difficoltà di esazione. Fu solo quando Sella tornò alle Finanze che i problemi tecnici e amministrativi vennero risolti e la tassa contribuì sostanzialmente alle finanze pubbliche fino alla sua abrogazione nel 1883. A questo punto l’intelaiatura del fisco italiano era pronta. Ci fu solo da ritoccare le aliquote per arrivare al pareggio di bilancio, meta che venne raggiunta alla metà del decennio 1870 da Minghetti. Nella tabella 5 possiamo vedere che le fonti tradizionali di imposte – la fondiaria in primo luogo, le imposte indirette sui consumi, a eccezione del macinato, e le privative – si rivelarono particolarmente anelastiche, cosicché risalta ancora di più il dinamismo fiscale del tandem Sella-Minghetti, che con l’imposta di ricchezza mobile, le imposte sugli affari e il macinato fecero lievitare il totale delle entrate in maniera efficace.
I redditi patrimoniali presentano di significativo solo un’imponente aumento delle entrate prodotte dalla gestione delle Poste (dai 12 milioni di lire del 1862 ai 41 milioni del 1875), mentre l’altro introito importante che si rileva nel 1875 (ed era assente nel 1862) sono i 34 milioni di lire di «Interessi di titoli del debito pubblico posseduti dal Tesoro» e depositati presso la Banca nazionale a garanzia di mutui che verranno descritti più avanti. Si tratta di una partita in realtà compensativa, perché il corrispettivo in uscita era registrato nelle spese per interessi sul debito. In termini pro capite, l’aumento delle entrate fu un po’ meno pesante, ma si aggirava comunque attorno a un raddoppio.
tabella 6Le rielaborazioni di Repaci (1962) offrono una visione un po’ diversa delle entrate effettive, ma ci permettono di riportare anche le spese effettive e dunque il disavanzo, che, come si può vedere nella tabella 6, ebbe un primo contenimento a partire dal 1865 (il picco del 1866 fu dovuto alle spese della terza guerra di indipendenza, stimate da Repaci pari a 468 milioni di lire) e un secondo dal 1871, per scendere a proporzioni marginali dal 1875, quando si raggiunse l’equilibrio, se non il vero e proprio pareggio, di bilancio.
Riforma della riscossionePrima di chiudere questo resoconto della imponente riforma fiscale posta in atto dalla Destra storica, va ancora richiamata la riforma della riscossione delle imposte dirette. I sistemi in campo erano tre: regìa di Stato o amministrazione diretta con propri funzionari (Regno di Sardegna, Parma); delegazione, di solito ai comuni (Toscana, Regno delle Due Sicilie); appalto a privati, che rispondevano del non riscosso per riscosso (Stato pontificio, Lombardo-Veneto, Modenese). Sella si era convinto che il sistema piemontese fosse inefficiente e quello toscano non generalizzabile e aveva presentato già nel 1862 un disegno di legge per introdurre il sistema dell’appalto, ma esso decadde. Seguirono molti ondeggiamenti e grandi discussioni, ma nel 1870 Sella, tornato al ministero, ripropose il suo vecchio progetto, con un prospetto che chiariva senza ombra di dubbio che il rendimento della forma di riscossione per appalto era molto più elevato di quello delle altre forme di riscossione. La legge, che si ispirava a quella del Lombardo-Veneto del 1816, venne dunque approvata il 20 aprile 1871 (n. 192) e imponeva l’appalto a mezzo d’asta. In questo modo, scomparvero gli enormi arretrati precedenti.
Anche in questo caso, la forza delle argomentazioni di Sella stava nella ricognizione puntuale dei fatti, come gli riconosceva l’attento commentatore dell’epoca Pietro Maestri (1868):
Nell’amministrazione Sella una cosa merita specialmente di essere avvertita ed è la mano vigorosa del Ministro, che seppe imprimere a tutti i servizi un impulso sconosciuto fin’allora. Il metodo d’osservazione, che già aveva acquistato a Sella una bella fama fra gli scienziati, gli servì assaissimo nella gestione delle finanze pubbliche, le quali ebbero, durante il suo ministero, una vera e propria statistica economica. Gli studi sulle nuove imposte, i progetti di legge erano ogni volta corredati da relazioni e da prospetti, dove venivano passati minutamente in rassegna tutti gli elementi di fatto, che sconsigliavano oppure raccomandavano una data provvigione. L’esecuzione poi dei vari atti finanziari era condotta in ogni caso efficacemente, cosicché in niun tempo mai s’ebbero nella riscossione delle imposte così pochi arretrati. È mirabile vedere con quanta agevolezza il ministro Sella affrontasse e superasse ogni difficoltà; la stessa burocrazia procedette sotto di lui in falange serrata con una vigoria sprezzatrice degli ostacoli ed un’alacrità e rapidità mai smentite.
Naturalmente, vi furono molti parlamentari e commentatori che non condivisero l’attivismo selliano in materia di finanza pubblica, rimproverandogli proprio quanto Maestri aveva invece considerato positivo. Come scrisse Plebano nel suo monumentale lavoro sulla finanza pubblica italiana (1899):
Il male è che le risorse economiche di un paese, per quanto vigorose e potenti, non si svolgono che assai lentamente; ed in Italia, purtroppo, per molte ragioni che bisognerebbe rintracciare nella sua storia e nell’indole triste dei suoi passati Governi, le difficoltà di quello svolgimento e quindi la lentezza di esso, non potevano non essere grandissime. Era perciò assai pericoloso sistema il contrapporre alle attuali e crescenti necessità della finanza le lontane speranze di una futura prosperità economica ancora da conquistare (…) E così, mentre a procedere con sicurezza l’entrata dovrebbe essere sempre ragione e sorgente della spesa, la spesa diventa invece causa e ragione dell’entrata, che bisogna con ogni mezzo e senza troppi riguardi andar cercando.
Ci domandiamo: sarebbe stato possibile costruire il nuovo Stato italiano con la medesima lentezza mostrata dallo svolgersi delle attività economiche private?
IL DEBITO PUBBLICO E L’ALIENAZIONE DEL PATRIMONIOCome accennato sopra, mentre si effettuava l’imponente sforzo di dare una solida base fiscale alla nazione, le spese rimasero grosso modo stazionarie, escludendo quelle straordinarie per vicende belliche e scontando la lievitazione dovuta all’entrata nel Regno prima del Veneto, quindi del Lazio (tab. 6). La necessità di interventi straordinari fu dunque pressante per fronteggiare i reiterati disavanzi di bilancio, in attesa che si giungesse al riequilibrio fiscale. Vari furono gli strumenti messi in campo. Il più tradizionale fu il ricorso a nuovi prestiti. Il primo fu collocato nel luglio del 1861 da Bastogi per 500 milioni netti e 715 di consolidato nominale (collocamento a 70,5). Seguì nel 1863 il prestito di Minghetti per 700 milioni netti e poco più di un miliardo di lire di consolidato al valore nominale (collocamento a 71), prestito che vide un grosso intervento del banchiere di Parigi Rothschild. Due anni dopo toccò a Sella ricorrere nuovamente al consolidato, con 425 milioni di lire di ricavo netto, per un valore nominale di 650 milioni circa (collocamento a 66). Il dibattito in parlamento fu assai critico:
A me pare – dichiarò alla Camera il deputato Giuseppe Lazzaro il 13 aprile 1865 – che in quattro o cinque anni dacché stiamo qui riuniti, la questione finanziaria non ci abbia presentato null’altroché una serie di illusioni, e per conseguenza una serie di disinganni; e si potrebbe dire che i vari Ministeri si sono demoliti gli uni gli altri; i precedenti illudevano sé e il paese; ed i successori demolivano i primi mostrandosi illusi, aspettando gli altri che li demolissero a volta loro dimostrando disinganno (…).
Nell’amministrazione finanziaria – rilevò nella stessa occasione il deputato Luigi La Porta – che cosa abbiamo noi osservato? Un sistema che si puntella sui prestiti ogni due anni: un prestito al 1861, un prestito al 1863, un prestito al 1865! Due miliardi di lire (…)
Addossando ai Comuni – sostenne Giovanni Siotto-Pintor al Senato il 9 maggio 1865 – parte delle spese che stavano a carico dell’erario nazionale, si continua a riscuotere le imposte antiche. Indeterminate, sconfinate le imposte locali. Diritto ai Comuni di divorare vivi come un tozzo di pane i cittadini. L’ente collettivo è tutto, l’individuo è nulla. Vogliate o no, siamo in pieno socialismo (…) Il malcontento è grave, un senso di malessere si diffonde in tutte le classi della società. Le sorgenti della ricchezza vanno a disseccarsi. Noi facciamo il lavoro di Tantalo o di Penelope. Il signor Rothschild, re del milione, è, finanziariamente parlando, re dell’Italia.
A tal punto peggiorò la situazione l’anno dopo con il profilarsi di una guerra all’Austria, che le quotazioni della rendita italiana scesero ad aprile a 49 lire. Fu così che l’allora ministro delle Finanze Scialoja dovette dichiarare l’inconvertibilità della carta moneta in circolazione (il corso forzoso) il 30 aprile 1866. Fino ad allora la lira era stata in regime aureo (gold standard) e l’emissione di carta moneta avveniva sotto le rigide regole di compatibilità con l’oro detenuto dal paese a scopi monetari. Con il corso forzoso si aprì una valvola di sfogo che venne ampiamente utilizzata, ossia quella dei mutui della Banca nazionale. Il 1° maggio 1866 il Tesoro richiese alla Banca nazionale di accendere un mutuo di 250 milioni di lire, mentre il 28 luglio (dopo la dichiarazione di guerra all’Austria) si ricorse a un debito redimibile forzoso per 350 milioni netti e 400 nominali (collocazione a 87). Il collocamento di questo debito fu molto ingegnoso: la somma totale fu ripartita per provincia e poi per comune, sulla base delle imposte di ricchezza mobile, dei fabbricati e prediali. I redditi per comune venivano poi divisi in 8 classi; l’ultima era esente, la quarta doveva contribuire per 1/7, le prime tre contribuivano progressivamente di più e le ultime tre meno della media, con una progressività significativa. Questo prestito, che finì ben presto in larga misura nelle mani delle banche di emissione, doveva essere restituito a partire dal 1870, ma venne tramutato in consolidato da Sella nell’aprile 1871, all’interno di una manovra complessiva di cui andiamo subito a parlare.
Poiché i bisogni del Tesoro continuavano a rimanere elevati, quando Sella ritornò al ministero delle Finanze ritenne di abbracciare un approccio interamente diverso, già provato dal suo predecessore Cambray-Digny: il ricorso ai mutui della Banca nazionale, con aumento di circolazione cartacea fino ad arrivare a 790 milioni nel 1872 e 940 milioni nel 1875 (assunti da un Consorzio creato nel 1874 che includeva anche le altre banche di emissione). Questo cambiamento di prospettiva venne generato principalmente dalla mutata congiuntura internazionale, che non prometteva grandi flussi di capitali in entrata (come osservato da Tattara 1992), ma soprattutto dalla preoccupazione per l’impennata del debito pubblico. Ecco che cosa disse Sella in Parlamento il 12 dicembre 1871:
L’incremento del debito pubblico, per un uomo timido come me, è tale che atterrisce. Gli interessi del debito pubblico erano 113 milioni nel 1861, nel 1870 sono 380 milioni, cioè 270 milioni di aumento sull’interesse del debito pubblico! Signori, sono cifre tremende. Dell’aumento di capitale nominale i vari ministri delle Finanze non vi hanno mai parlato. Si trattava di non scoraggiarvi, ma bisognava pur anco guardarci, da 2.300 milioni siamo venuti a 8.200 milioni (…) E notate che l’aumento del debito pubblico è avvenuto malgrado l’alienazione di ferrovie e di un ingente patrimonio demaniale e di beni ecclesiastici (…) Ebbene, per accattare 2.691 milioni effettivi, ci siamo impegnati per un debito nominale di 3.852 milioni ed in questo decennio in cui abbiamo fatto queste operazioni abbiamo pagato 1.369 milioni per interessi e premi (…) Questa è la storia dell’improvvido figlio di famiglia; a tal passo non si regge. Considerate che tra perdite sul capitale nominale e ciò che abbiamo pagato in questo decennio per tali operazioni veniamo a scapitare di 2.530 milioni. E non abbiamo avuto che 2.691 milioni.
Per dare una sistemazione all’imponente ricorso alla monetizzazione del debito, si fecero convenzioni con la Banca nazionale. Ricorderò in particolare quella del 19 aprile 1872, con legge n. 759, in cui il governo commutava il debito redimibile del 1866 in consolidato, richiedeva un aumento di altri 300 milioni dei mutui allo Stato e depositava presso codesta banca tanta rendita al 5% quanto bastava per uguagliare i debiti contratti al saggio di lire 85 per 100 di valore nominale. Gli interessi di tale rendita venivano restituiti allo Stato, il quale pagava un canone più tenue sui biglietti inconvertibili in circolazione. Ecco come Sella giustificava il suo programma con la Banca nazionale per il 1872-1875 nell’esposizione finanziaria del 12 dicembre 1871:
Io domando a chi osserva attentamente, se questo sistema a cui ci appigliammo, e di cui riconosco tutti gli inconvenienti, tutti i gravissimi pericoli, non sia stato un male incomparabilmente minore di quello a cui saremmo andati incontro se avessimo provveduto con operazioni di credito (…) noi possiamo adesso riconoscere come quest’aumento di circolazione si sia potuto fare senza modificare sensibilmente l’aggio (…) Chi l’anno passato avesse detto che vi sarebbe stato un aumento di valori pubblici pari a quello che vi fu, forse sarebbe stato trattato da visionario (…) Il programma che vi ho fatto (…) si fonda essenzialmente su due concetti, un concetto finanziario e un concetto economico, che si confondono insieme. Il concetto finanziario è questo: provvedere ai bisogni del Tesoro senza percorrere quella terribile via che vi ho indicata, di aggravare il bilancio, opera che distrugge tutto ciò che si fa di buono; dall’altra parte mi propongo il rialzo del credito. Signori, io non so se sono troppo audace (…) Ho forse bisogno di dire che il rialzo del credito significa ribasso nell’interesse del capitale? Non sa ciascuno che uno dei principali inceppamenti alla nostra produzione è appunto il saggio troppo elevato dell’interesse dei capitali?
Naturalmente, la decisione di ricorrere all’aumento della circolazione monetaria non coperta da riserve di oro rese un successivo rientro nel gold standard più pesante, come fu notato da molti, fra cui l’onorevole Michele Casaretto nella discussione parlamentare dell’11 marzo 1872:
Queste nuove e continue emissioni di carta sono un peggioramento del corso forzoso e tendono a togliere anche la speranza di poter sgravare la nazione di questo triste dono che le abbiamo fatto in un momento di triste necessità; tende, dico, a rendere quasi impossibile l’abolizione del corso forzoso (…) Il corso forzoso non è altro che il fallimento; l’aumento del corso forzoso è l’allargamento di tale fallimento.
Ricorderò che, quando nel 1881 si volle infine ritornare al regime aureo, si dovette ricorrere a un sostanzioso prestito in oro, ma negli anni tra 1866 e 1875 si evitò un più largo ricorso al mercato, che avrebbe sicuramente comportato gravi difficoltà di collocamento delle nuove obbligazioni. L’insistenza da parte degli esponenti della Destra a voler usare la leva monetaria aveva fatto sorgere il sospetto di una certa «connivenza», mai provata, fra costoro e la Banca nazionale, che ottenne dalle convenzioni notevoli utili. Ecco come Jacopo Tivaroni (1908), che considerava sbagliata la scelta della monetizzazione del debito, si esprime a proposito di tale sospetto:
Se questi conservatori furono dei terribili ostinati, furono puri da ogni interessata connivenza con la Banca, connivenza che potrebbe ragionevolmente essere sospettata, data la loro insistenza in favore di convenzioni altrettanto dannose per lo Stato quanto utili alla Banca. No, nessuna complicità vi fu mai tra gli Scialoja, i Sella e i Minghetti e la Banca Nazionale; se questi uomini hanno commesso degli errori, agirono almeno in buona fede e furono degli onesti nel senso più rigido della parola, tanto è vero che non si arricchirono di un soldo a spese dello Stato, ma piuttosto consumarono a servizio di esso gran parte delle loro modeste sostanze e rinunciarono agli elevati guadagni che certamente avrebbero ottenuto, rivolgendo la loro attività ad occupazioni più lucrose di quelle politiche (…) [e conclude] Sebbene a caro prezzo, e con danno sicuro della Nazione per l’inasprirsi del corso forzoso, il Governo allontanava così la necessità di ricorrere a nuovi ingenti debiti per far fronte ai disavanzi dei bilanci e sino al 1881 non troviamo stipulati altri debiti a tale scopo.
Oltre all’accensione di debito pubblico e ai mutui della Banca nazionale, venne anche messa in campo grande ingegnosità per trovare fonti straordinarie di entrate che servissero a contenere la lievitazione del debito fino a che il nuovo impianto fiscale si fosse stabilizzato. Nell’agosto del 1862 venne autorizzata la vendita dei beni demaniali, ma solo con la costituzione di una Società anonima per la vendita dei beni demaniali (20 novembre 1864) – cui venne richiesto di anticipare 150 milioni di lire (mediante il collocamento sul mercato di proprie obbligazioni garantite dallo Stato e rimborsate con le somme incassate dalle vendite) –, si cominciò a riscuotere qualche entrata.
Nel 1865, si arrivò all’alienazione delle ferrovie liguri-piemontesi ereditate dallo Stato sabaudo a favore delle ferrovie dell’Alta Italia e all’alienazione dei tronchi in costruzione in Liguria e Campania a favore delle ferrovie romane, per un’entrata di poco meno di 250 milioni di lire. Lo Stato manteneva però le sovvenzioni annue concordate nei confronti delle Società private, come anche il contributo alla costruzione di nuovi tronchi ferroviari. Questo abbozzo di privatizzazione delle ferrovie fu una soluzione temporanea, che ben presto si dovette rovesciare, arrivando già nel 1875 al riscatto della Società delle ferrovie romane e a quello delle ferrovie ereditate dall’Austria, fino all’assunzione poco tempo dopo da parte dello Stato di tutti i tronchi principali.
Nel 1866 venne all’ordine del giorno la liquidazione del cosiddetto «Asse ecclesiastico», cioè le proprietà terriere delle istituzioni ecclesiastiche non direttamente connesse alle attività di culto. Il progetto di legge presentato da Scialoja non venne però approvato. Fu così che la questione si trascinò fino all’estate del 1867, quando il 27 luglio, Urbano Rattazzi osservò alla Camera che non era più possibile procedere sulle strade già percorse:
L’onorevole Lanza [che aveva proposto un altro prestito forzoso] non ignora certo che le cartelle del prestito 1866 sono non solo per la metà, ma quasi per i due terzi presso i pubblici stabilimenti. La Banca Nazionale ne ha poco meno del terzo, e tutti gli altri stabilimenti ne hanno; lo ché prova che il paese non ha più in se stesso i mezzi, non ha più le risorse necessarie per farvi fronte; mentre è chiaro che se egli tali mezzi avesse posseduto, non l’avrebbe lasciato né alla Banca Nazionale, né agli altri stabilimenti di credito (…) [Una nuova emissione di debito consolidato riuscirebbe poi] funesta per quanto concerne tutta la nostra rendita, poiché voi invitate necessariamente i banchieri a far in modo che la rendita vada in ribasso, ben sapendo che si dovrà gettare quest’altra parte di rendita sul mercato.
Risultava quindi inevitabile presentare un nuovo progetto per effettuare celermente la vendita dei beni ecclesiastici, senza immettere sul mercato troppi lotti che avrebbero fatto cadere oltre il desiderabile i prezzi di vendita. Anche il progetto presentato da Ferrara venne però respinto e causò le dimissioni del ministro il 4 luglio 1867, ma la decisione doveva essere presa e la soluzione che infine venne adottata il 15 agosto 1867 (il ministero delle Finanze era tenuto ad interim dal presidente del Consiglio Urbano Rattazzi) fu assai macchinosa: la legge soppresse una lunga serie di enti morali, i cui beni furono devoluti allo Stato con il compito di alienarli. Il ricavato da tale vendita andava a favore dello Stato (3/4) e dei comuni (1/4) quando gli enti erano regolari e a favore del fondo per il culto, quando gli enti erano secolari. Poiché la vendita doveva essere scaglionata, veniva emesso un prestito di circa 500 milioni di lire di valore nominale (in realtà 559 milioni), da collocare sul mercato ed estinguere man mano che le vendite avevano luogo. Ma l’accoglimento presso il pubblico di queste obbligazioni non fu buono, così che 150 milioni della prima tranche di 250 milioni furono depositati presso la Banca nazionale a fronte di una anticipazione. Anche in seguito, la Banca nazionale venne richiesta di continuare a occuparsi del collocamento di queste obbligazioni, fino al loro riscatto quasi generale nel 1874, anno in cui fu stimato da un’apposita Commissione che le entrate per lo Stato provenienti da questo canale erano ammontate in totale a 480 milioni di lire (Tivaroni 1908). Nel complesso, tra beni demaniali e manomorta si privatizzarono più di 3 milioni di ettari, pari al 12% dell’area coltivabile dell’epoca, con una particolare incidenza nel Mezzogiorno, dove si arrivò a privatizzare 1/4 dell’area coltivabile, con effetti di rottura di equilibri storici che non sono ancora stati approfonditamente studiati.
Nel 1868 si decise anche di affrontare la situazione poco florida del Monopolio dei tabacchi, decidendo di darne la gestione per 15 anni a una Regìa cointeressata dei tabacchi, costituita con la Società generale di credito mobiliare. L’idea era circolata da tempo ed era stata raccomandata da Ferrara durante il suo breve ministero. Tale soluzione portava all’erario un canone annuo, oltre a un’anticipazione di 180 milioni in oro, da raccogliersi con obbligazioni emesse dalla Regìa stessa e garantite dallo Stato. Quintino Sella si oppose alla costituzione di questa Regìa, perché riteneva che lo Stato ci rimettesse una parte delle entrate a favore di interessi privati, ma la legge fu approvata il 24 agosto 1868, nonostante una forte opposizione parlamentare. Il risultato fu invece considerato positivo dagli studiosi di finanza dell’epoca, perché i 180 milioni in oro fecero diminuire notevolmente il deprezzamento della lira e il canone pagato dalla Regìa allo Stato salì da 69 milioni nel 1869 a 85 nel 1875 (e 109 nel 1883, ultimo anno della Regìa).
tabella 7Possiamo ora dare uno sguardo ai dati sul debito pubblico italiano negli anni 1861-75, riportati nella tabella 7. Quello che chiaramente ne emerge è l’impennata del debito fino al 1870, sia in valori assoluti, sia come percentuale del Pil, e il suo contenimento successivo in forza dell’entrata a regime del sistema impositivo e della manovra di monetizzazione realizzata da Sella. Ancora, si può avanzare qualche ipotesi sull’ammontare di debito pubblico italiano collocato all’estero sulla base degli unici dati disponibili, ossia il pagamento della rendita su piazze estere (soprattutto Parigi), che era fatto in lire-oro. Ora, è noto che qualche residente italiano cercò dopo la proclamazione del corso forzoso di far transitare i suoi investimenti dall’estero attraverso qualche prestanome per lucrare l’aggio, cosa che venne scoraggiata una prima volta nel 1867 con l’obbligo di presentare insieme alle cedole anche le cartelle (che erano però al portatore) e una seconda volta con un provvedimento del 10 febbraio 1873 noto come affidavit, con il quale si imponeva ai presentatori di cedole di giurare di non essere istituto o cittadino italiano. Dalle colonne 8 e 9 della tabella 7 si ricava che il picco del collocamento all’estero si ebbe tra 1862 e 1867, dunque iniziò ben prima del corso forzoso, con un consistente rientro a partire dal 1870. Fu ancora la politica di Sella ad ottenere questo risultato e non l’affidavit.
QUALCHE CENNO SULLA FINANZA LOCALEL’unificazione portò a discutere anche di finanza locale, dove pure vigevano i più svariati ordinamenti e il grado di decentramento amministrativo era molto diverso. Lombardo-Veneto e Toscana avevano conservato una tradizione di notevole autonomia e attivismo dei comuni, mentre nel Regno di Sardegna, nei territori dell’ex Stato pontificio e nel Regno delle Due Sicilie vigeva un regime più accentrato, con una differenza di livelli impositivi locali parallela a quella dei tributi statali. Nel 1859, dopo l’annessione della Lombardia, fu emanato un decreto da Rattazzi che in sostanza sposava l’opzione centralista del Regno di Sardegna, pur concedendo una maggiore rappresentatività democratica al governo comunale, configurandosi come un compromesso tra la tradizione piemontese e quella lombarda. Al prefetto e alla giunta provinciale amministrativa venivano assegnati i compiti di controllo. Tale decreto venne poi esteso alle altre aree che man mano si aggiungevano al nuovo Regno e portò significativi cambiamenti, con particolare riguardo alle aree dell’ex Regno delle Due Sicilie, dove i comuni si trovarono improvvisamente a dover far fronte a una serie di compiti mai prima affrontati (Battilani 2001).
Ben presto si pensò a una riforma più radicale delle autonomie locali, con la presentazione di un progetto di regionalizzazione del paese. La proposta più ambiziosa e articolata fu quella di Minghetti, che lasciava ai comuni le attribuzioni che già avevano (l’istruzione elementare, l’assistenza, l’igiene pubblica ed alcune opere di viabilità), mentre affidava alle province l’istruzione secondaria, altre opere di viabilità e servizi di sanità e assistenza di ordine più generale e alle regioni l’istruzione superiore, le accademie di belle arti, gli archivi storici e altri lavori pubblici. Come sostiene Volpi (1962), «nel determinare la caduta dei progetti del Minghetti un ruolo importante giocò indubbiamente il timore che eccessive libertà locali e soprattutto l’autonomia regionale potessero contribuire a mantenere in vita le antiche divisioni» (p. 18). La bocciatura di questo progetto fu così pesante che qualunque altro progetto successivo non prese più in considerazione una riforma radicale, proponendosi invece solo di modificare il decreto Rattazzi, senza cambiarne l’impostazione.
Si giunse quindi alla legge n. 2248 del 20 marzo 1865, che basava il bilancio dei comuni sul dazio di consumo e sulle sovraimposte alle imposte dirette (oltre a qualche imposta locale) e quello delle province solo sulle sovraimposte, senza avere il coraggio, a causa delle difficoltà della finanza statale, di assegnare ai comuni l’intero provento dei dazi di consumo, che venivano invece condivisi con lo Stato. Questo regime di mancata separazione fra i cespiti di tassazione degli enti locali e dello Stato fu fonte di infinite discussioni parlamentari, che non approdarono a nulla. Anzi, la parte di tali cespiti riservata a comuni e province tese a diminuire, particolarmente con la legge detta «omnibus» di Sella dell’11 agosto 1870, n. 5784, mentre i servizi accollati a comuni e province tesero ad aumentare. Così l’originaria semplicità dell’impianto tributario dei comuni venne complicata dall’istituzione di innumerevoli tributi «compensativi», che non furono sufficienti a impedire ai bilanci degli enti locali di andare in rosso a partire dal 1868: nel 1873 i debiti comunali, prima inesistenti, ascendevano già a 534 milioni di lire. Ancora, nella legge del 1870 Sella decise di addossare tutte le sovraimposte solo sui redditi fondiari e da fabbricati, cosa che fece lamentare una grave sperequazione del sistema tributario locale. Fu solo con il ritorno di Minghetti al governo che la stretta centralista della finanza pubblica impressa da Sella venne un po’ allentata, ma uno dei cavalli di battaglia che portò al successo della Sinistra alla metà degli anni 1870 fu proprio la riforma delle finanze locali (che paradossalmente nemmeno la Sinistra riuscì però a fare).
Ricorderò ancora la volontà da parte di Sella di costituire delle casse di risparmio postali, che finanziassero la Cassa depositi e prestiti, già creata nel 1863 ma priva di una consistente base di risparmio, soprattutto in funzione dei mutui da concedere agli enti locali. Il disegno di legge venne inizialmente presentato da Sella alla Camera il 9 dicembre 1870, ma fu violentemente attaccato perché si riteneva che potesse sottrarre capitali alle casse di risparmio esistenti. Come al solito, Sella argomentò sulla base di ricerche puntuali che erano moltissimi i comuni italiani di piccola dimensione che non avevano una Cassa di risparmio, né alcun altro istituto di credito e a quelli erano rivolte le casse di risparmio postali. Il disegno di legge fu approvato il 21 aprile 1871, ma non arrivò in Senato prima della caduta del governo. Sella lo ripresentò successivamente, ma neanche quella volta arrivò all’approvazione. Fu così che Sella, quando non era più al ministero, lo ripresentò come proposta di sua iniziativa il 10 dicembre 1874, perorandolo il giorno seguente con la consueta eloquenza:
L’Inghilterra aveva nel 1868 una cassa di risparmio ogni 6.000 abitanti; l’Italia ne ha una ogni 120.000 abitanti, ed anzi, eccettuando le provincie ove si sta meno male, si trovano numeri anche più paurosi. Se, per esempio, prendiamo le provincie meridionali, troviamo una cassa di risparmio ogni 573.000 abitanti (…) Se poi si esamina il riparto di queste benefiche istituzioni di previdenza, si troverà che nelle città, nelle quali la popolazione è maggiore di 30.000 abitanti, la Cassa di risparmio vi è quasi da pertutto, o almeno nella proporzione di ottanta sopra cento di codeste città. Se veniamo a città comprese fra i 10.000 ed i 30.000 abitanti, si scende al 28 per cento e finalmente nel 1868 (…) noi avevamo 8.210 comuni con popolazione minore di 10.000 abitanti, nei quali non si arrivava all’1 per cento di Casse di risparmio e si avevano 77 Casse di risparmio sopra 8.210 comuni! (…) È doloroso, o signori, il vedere che progetti di legge, i quali come questo non presentano inconvenienti per nessuno, e vantaggi per tutti, debbano aspettare tanto per essere convertiti in legge.
tabella 8La discussione parlamentare fu ancora lunga e vivace, ma alla fine il progetto di Sella, con qualche modifica, venne definitivamente approvato il 24 maggio 1875. Esso prevedeva che metà dei fondi raccolti dalle casse di risparmio postali e amministrati dalla Cassa depositi e prestiti fossero destinati a finanziari i debiti degli enti locali. L’evoluzione della finanza locale nel periodo qui considerato può essere seguita nella tabella 8. In essa si vede che la lievitazione postunitaria della finanza locale fu assai inferiore a quella della finanza statale nel periodo considerato, con una quasi stazionarietà se la si calcola pro capite.
Quanto al diverso impatto sulle varie aree del paese, nel Sud la nuova legge valse a togliere dal letargo gli enti locali, ma non riuscì mai a portarli al livello degli altri, per la quasi totale assenza di meccanismi di perequazione, mentre nel resto del paese la contribuzione pro capite rimase stazionaria e persino diminuì. Riportiamo qui di seguito le conclusioni di Patrizia Battilani, secondo cui:
la legge del 1865 (…) non rappresentò un’inversione di tendenza per il Granducato di Toscana (…) e non lo fu per il Lombardo-Veneto, che di fatto vide applicata sull’intero territorio nazionale parte delle proprie tradizioni amministrative (…) Le regioni per le quali la legge del 1865 rappresentò un profondo momento di rottura furono soprattutto quelle appartenenti al Regno delle Due Sicilie, dove il livello di decentramento amministrativo era quasi nullo (Battilani 2001, p. 351).
Quando verso la fine del XIX secolo ci si accorse di ciò, si intervenne dall’esterno, con una legislazione straordinaria o con l’avocazione allo Stato di ruoli prima affidati ai comuni, come nel caso dell’istruzione elementare, ma non si ebbe il coraggio di rivedere interamente l’impostazione originaria.
CONCLUSIONIAlla fine del quindicennio di governo della Destra storica, il raggiunto equilibrio della finanza pubblica non valse a mantenere tale partito al governo. Nella sua ultima esposizione finanziaria, il 16 marzo 1876, Minghetti si mostrò consapevole di ciò, esprimendo in memorabili parole la meta raggiunta:
Quanto a noi, se dobbiamo lasciare questo ufficio, saremo felici ripensando che noi vi lasciamo il paese tranquillo all’interno, in buone relazioni e rispettato all’estero; vi lasciamo le finanze assestate e pregheremo Iddio che possiate questi benefici conservare alla patria (…) So bene, e lo ripeto, che l’aver conseguito il pareggio non vuole dire trovarsi in una situazione finanziaria prospera (…) Ma che per ciò? La prima cosa, la più importante, quella da cui dovevamo incominciare, era il pareggio delle entrate e delle spese; era quella la pietra angolare di tutto il restante edificio.
Ecco come Gianni Marongiu nel suo magistrale lavoro sulla finanza pubblica giudica il lavoro della Destra:
Animati da una forte tensione etico-politica, incentrata in alcuni (Minghetti) sul primato della società civile, sulla fiducia nella capacità di autogoverno del singolo e della collettività, sulla creatività dell’uomo libero, in altri (Spaventa) sul primato dello Stato, in altri ancora sullo Stato integratore delle carenze private (Sella e Luzzatti), furono tutti ancorati alla realtà, con la passione per i ragionamenti ben fatti, e appoggiati sui dati, con la cura di parlare anche per cifre e tariffe (…) Nel valutare la propria opera furono serenamente e severamente critici e, lungi dall’attardarsi nell’autocompiacimento per le opere realizzate, ebbero una accentuata sensibilità per i problemi nuovi (Marongiu 1995, p. 364).
Del fatto che i protagonisti di questa storia avessero sensibilità per i problemi nuovi abbiamo avuto ampia dimostrazione nelle pagine precedenti, in cui si è documentato che solo in pochi casi venne esteso il sistema finanziario piemontese al resto d’Italia, mentre per lo più si crearono nuove imposte o si ristrutturarono integralmente quelle vecchie, mentre anche la finanza straordinaria mostrò caratteri innovativi. In particolare, lo spostamento dell’impalcatura impositiva dalle imposte indirette verso quelle dirette, la tassazione di tutti i tipi di reddito e l’introduzione di una certa progressività mettevano l’Italia in prima linea fra le nazioni progredite per l’equilibrio anche sociale del suo sistema impositivo. La sola tassa sul macinato ricadeva su un genere di prima necessità e fu un espediente sofferto e non condiviso, che venne presto abrogato. Ma tutta la restante impalcatura finanziaria resse non solo a un confronto con i paesi più avanzati, ma anche all’usura del tempo. Alla luce di ciò, è difficile accogliere le critiche che sono state mosse da varie parti, secondo cui le scelte di finanza pubblica della Destra storica avessero favorito una classe a danno delle altre.
Più problematico è il giudizio dell’impatto differenziale del nuovo sistema fiscale sulle varie aree del paese. È evidente che, se l’aumento della pressione fiscale fu significativo per l’intera nazione, tanto più lo fu per quelle aree, soprattutto le meridionali, in cui i precedenti governi avevano mantenuta bassa la tassazione e non si erano preoccupati né delle opere pubbliche né dell’istruzione. Se la repentinità e la profondità con cui le condizioni fiscali cambiarono abbiano sfavorito il Mezzogiorno è una questione che fa parte di un interrogativo più radicale: era il Regno delle Due Sicilie maturo per unificarsi con il resto del paese in un periodo storico in cui non si potevano immaginare politiche economiche perequative come quelle, per esempio, applicate in tempi molto successivi all’interno dell’Unione europea tra aree avanzate e aree arretrate? Si tratta di un’analisi contro-fattuale a cui molti studiosi si sono richiamati in passato e che ha avuto finora risposte contraddittorie. Se si deve dar credito alle ricerche finora condotte sul dualismo Nord-Sud, non sembra che il divario di reddito sia cresciuto significativamente in periodo liberale, il che porterebbe a non ritenere le politiche economiche dei governi postunificazione responsabili di un peggioramento del Mezzogiorno. Il divario crebbe in realtà soprattutto fra prima e seconda guerra mondiale. Ma si tratta di questione aperta, destinata ad attrarre ancora altro lavoro storico prima di trovare una sua definitiva interpretazione.
Ci piace terminare dando un’ultima volta voce a Quintino Sella, che nella seduta alla Camera dell’11 dicembre 1872 disse, rispondendo a chi gli contestava un ennesimo ricorso all’inasprimento fiscale:
L’onorevole Lazzaro dice: non siamo noi che abbiamo votato il macinato. In fatto d’imposta per verità non so che cosa abbiate votato. Credo che non ne abbiate votata alcuna. Avete solo votato le spese. Ma per ciò appunto ve ne lavate troppo facilmente le mani. Non basta dire: non abbiamo votato questa o quell’imposta. Avete votato quasi sempre le spese, moltissime ne avete domandate. Ora, credo che veramente s’impongano aggravi ai contribuenti, non quando si votano le imposte, ma quando si votano le spese (…) Siete quindi perfettamente solidali con noi della attuale situazione. Coloro i quali ebbero il coraggio di votare le imposte sono perfettamente giustificati a compiacersene, perocché con ciò hanno salvato il paese, che sarebbe stato perduto se non avessero votate le imposte.
Un monito che risuona in tutta la sua cruda verità anche oggi.
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