21 marzo 2023
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Biografia di Lucio Dalla
Lucio Dalla
nato a Bologna il 4 marzo 1943
morto il 1º marzo 2012 a Montreux in Svizzera.
Cane Quando era piccolissimo diceva che da grande voleva fare il cane. «Lo vedevo così libero e felice. Da ragazzo invece sognavo di fare il bidello» [a Renato Franco, CdS]
Sarta La mamma, Iole Melotti, di professione modista, era una brava sarta che nel tempo aveva accumulato una fedele clientela, non solo a Bologna. Devota a Padre Pio anche perché sua mamma, Silvana Scaglioni, era stata miracolata dal santo in persona.
Padre 1 Il padre, Giuseppe Dalla, commerciava oli e li vendeva in giro per l’Emilia (Assante e Castaldo, cit.). «O faceva forse l’aviatore, non ricordo bene. Aveva il brevetto da pilota ed era anche il direttore del tiro a volo di Bologna».
Matrimonio Iole e Giuseppe Dalla si sposarono un mese prima della nascita di Lucio.
Padre 2 Le voci sul vero padre di Lucio Dalla, un Francesco Morcaldi, vedovo, padre di quattro figli, devoto di Padre Pio e a più riprese sindaco di San Giovanni Rotondo. Iole Dalla l’avrebbe conosciuto e frequentato nei suoi ripetuti viaggi in Puglia, essendosi trasferiti a Manfredonia il padre Ettore, rimasto vedovo, e i suoi fratelli (Lucio Dalla di Ernesto Assante e Gino Castaldo, Mondadori 2021, 365 pagine, 20 euro).
Filastrocca A tre anni, si racconta, mamma e papà lo portano a passeggio e, passando davanti al Caffè Centrale in piazza Re Enzo, Lucio scappa e sale sul palco per cantare una filastrocca intitolata Op, Carolla, tra gli applausi del pubblico divertito (Assante e Castaldo, cit.)
Attrazione «Lo rivedo bambino, a 3-4 anni, sul palcoscenico dei teatri di Bologna dove era la star, cantava, ballava, zampettava, chiudeva lo show in un tripudio di successo, frac e il cilindro in testa. Sui manifesti dello spettacolo parrocchiale della domenica il nome più grande era il suo. Era l’attrazione della serata, un bambino bellissimo, travolgente, avremmo voluto essere tutti come lui e, infatti, per tutta la mia vita, ho desiderato essere Lucio» (Pupi Avati) [Fulvia Caprara, Sta].
Briciola Soprannome da bambino: Briciola.
Luce «“Si è spenta una luce”! Mia mamma mi annunciava così con pietà, dolcezza e, perché no, anche un poco di poesia quello che lei già sapeva, che era accaduto quindici giorni prima e che io intuivo e come solo un bimbo di sette anni può fare, forse avevo già metabolizzato: la morte di mio padre. Eravamo uno di fronte all’altra e lo spazio che ci separava non era più di un metro ma era una distanza che mi sembrava eterna, uno spazio infinito forse perché probabilmente avvertivo come già chiuso il dolore-ferita che aveva provocato alla mamma la morte del babbo e non era scattato o, non so per quale misteriosa ragione, non scattava il mio dolore di orfano per cui mi sentii obbligato a dare una risposta che la tranquillizzasse, certo non altrettanto poetica come “Si è spenta una luce” ma che testimoniasse nello stesso tempo e perentoriamente il mio essere diventato adulto, capo famiglia? Uomo. Con la stessa pietà e con lo stesso amore le buttai le braccia al collo e le dissi: dove andiamo quest’estate al mare? Era una gaffe? Un patetico tentativo di camuffare il dolore dimostrando di saperlo vincere? O un dire quasi: non preoccuparti mamma, da ora in poi ci penso io? Non lo so dire che cosa era, ma in questo squarcio della memoria ho ancora in mente e stampata negli occhi la faccia di mia madre che sbalordita mi stringeva al suo petto e la sensazione oggi come allora di averle dato comunque una risposta».
Tragedia Lucio raccontava che da bambino era cresciuto con tanti «figli ’e bottana smarocchinata», figli della guerra, «di nascita e colore incerti», e voleva immedesimarsi in uno di loro: «Mi sentivo uno zingaro, un apolide dal patrimonio genetico disordinato. La messa in scena della tragedia è la tragedia vera» (Aldo Cazzullo) [CdS].
Compagnia Dai cinque ai nove anni recita in «una compagnia tristissima che si chiamava Primavera d’arte: facevo il bambino che gli muore la mamma, cantavo, ballavo...» [Lina Coletti, L’Europeo, 1971]
Fisarmonica Primo strumento a 13 anni. Il clarinetto che gli regala la madre Iole.
Mare «Quando avevo quasi dieci anni, nel 1953, una cliente pagò mia madre con una casa alle Tremiti. Cominciai a passarvi tutte le estati. Ricordo quando mi dettero una maschera subacquea; ero un bambinetto e vidi per la prima volta il mondo del mare. Piante, coralli, rocce. Che grandissima emozione; fu come un pugno in faccia, come il primo bacio. Non l’ho mai dimenticato. Anzi, cominciò così il mio grande amore per il mare. Molti anni dopo, pescando nella mia nebulosa, scrissi Come è profondo il mare» (a Silvana Mazzocchi).
Ormoni «La parabola di Lucio è stata come un viaggio siderale. Dopo la stagione d’oro dei teatri parrocchiali ha avuto una penalizzazione fisica esplicita, che ha gettato nel panico la madre. Lucio non cresceva, la mamma gli fece fare una cura a base di ormoni che in qualche modo lo ha compromesso. Non solo non è cresciuto, ma a un certo punto Lucio è diventato ispido, peloso. Non so se questo mutamento abbia avuto riflessi in ambito sessuale» (Pupi Avati) [Fulvia Caprara, Sta].
Slip Lucio poteva avere atteggiamenti virili e vezzi femminili: fumare con il bocchino, indossare i pellicciotti, nuotare con certi slip fiorati da donna (Aldo Cazzullo) [CdS].
Liceo «Ho studiato fino al primo liceo, ma a scuola andavo male, preferivo andare in giro a suonare.
Baker «A quindici anni mi ritrovai a suonare con Chet Baker» [a Gino Castaldo, Rep] • «Quando cominciai a suonare non avrei mai pensato di fare il cantante. Ero come un invasato, il jazz mi aveva preso: suonare per me era sacro e quando mi accadde di trovarmi al fianco di Chet Baker o Bud Powell mi sembrò d’impazzire di gioia. Sono un trasgressivo. Vado a istinto, uso il clarinetto in modo anomalo, per suonarlo davvero bisogna saper fare Mozart» (a Vittorio Franchini).
Infatuazione «Vede, io nel mondo della canzone ci sono capitato per caso, gliel’ho detto. Venivo dal jazz. La Roman New Orleans, Chet Baker... Quella per il jazz era stata un’infatuazione giovanile. Prima, tutte le scuole possibili: il ginnasio, il liceo, ragioneria, poi ancora il liceo... Dice: e tua madre? Mia madre è una persona estremamente intelligente e divertente: m’ha sempre lasciato libero di fare quello che mi pareva» [Lina Coletti, L’Europeo, 1971].
Fiorellini «A 16 anni me ne andai da casa, ma con il suo permesso: lei sarta, e a me che m’aveva preso l’idiosincrasia per il plissé, lo stampato a fiorellini e il corpetto a vita alta. Mia madre povera donna sognava il figlio dottore, ma il figlio s’è messo a suonare il clarino, e il jazz si sa bene che non da una lira: be’, la povera donna l’ha sempre mantenuto senza far drammi quel figlio» [Lina Coletti, L’Europeo, 1971].
Clarino Una sera a Stromboli gli chiesero di suonare il clarinetto, lui disse ai colleghi «mi raccomando fate tutto voi che io so a malapena leggere la musica», poi ovviamente li massacrò (Aldo Cazzullo) [CdS]
Assatanato «A Lucio, nel periodo in cui suonavamo insieme, piacevano moltissimo le ragazze, era un assatanato delle donne, era innamorato pazzo della sorella dell’impresario Cremonini, l’attrazione per il mondo femminile era in lui presente e inequivocabile. Poi, a un certo punto della sua vita, qualcosa cambiò. È una storia che ho in qualche modo trasferito nel mio film Regalo di Natale, ho raccontato il cambiamento di sessualità di uno degli amici. Allora era diverso, non è come oggi, certe cose si vivevano con impaccio e imbarazzo. Lucio chiuse tutti i rapporti con le persone del prima, credo anche un po’ per quella ragione. È un problema che tutti noi amici abbiamo vissuto, io di sicuro. Con Lucio, in tutta la mia vita, ho parlato di qualunque cosa, tranne che di questo aspetto. Mai» (Pupi Avati) [Fulvia Caprara, Sta].
Tetano «Ho vissuto dieci anni, tra i sedici e i ventisei, convinto di avere il tetano e una sera sì e una no telefonavo all’ambulanza, mi chiamavano “quello del tetano”» (Assante e Castaldo, cit.).
Pupi Il sedicenne Dalla entra a far parte come clarinettista del gruppo jazz Rheno Dixieland Band, affiancandosi al già membro Pupi Avati, anche lui clarinettista. «Lui aveva 16 anni, io 21. Suonavo in una banda di ragazzi bolognesi, la “Kriminal jazz band” di un altro mio film. Lucio suonava in una banda per così dire rivale, e io fui mandato in avanscoperta per cercare di capire se poteva unirsi a noi. Dissi agli amici che non sapeva suonare. Ma venne lo stesso con noi e sapete tutti com’è andata a finire» [Michele Brambilla, La Stampa]
Roma «A 17 anni ero già a Roma a fare musica» (a Marina Cavallieri).
Ragno «Lucio è sempre stato di un’enorme generosità professionale, non economica… da ragazzi, a Bologna, lo chiamavamo tutti “il ragno” perché non aveva mai offerto un caffè a nessuno, era di una tirchieria pazzesca» (Pupi Avati) [Fulvia Caprara, Sta].
Vimini A Roma da ragazzo dormiva accoccolato sulle poltrone di vimini dei caffè di via Veneto: «Sono piccolo, ci stavo tutto. Mi bastavano due ore di sonno, perché avevo fretta di ricominciare a vivere. All’alba mi svegliavano i camerieri, ordinavo cappuccino e giornale. Faceva 60 lire» (Aldo Cazzullo) [CdS].
Buzzurro Lucio Dalla arrivò a Sorrento per la prima volta nel 1964. Suonava il clarinetto nei Flippers, ingaggiati dal Fauno Notte Club dei fratelli Franco e Peppino Jannuzzi. Una sera di metà settembre, un acquazzone fece saltare i tombini e il Fauno si allagò. Le sedie galleggiavano e la gente gridava aiuto. Dalla, bagnato e scalzo, con un paio di pantaloni rossi, continuò a suonare, al centro della pista da ballo. Improvvisò un motivo jazz e urlava, cantando: “Peccatori, peccatori! Perirete tutti, perché fuori non c’è l’arca di Noè”. Franco Jannuzzi gli tirò addosso un bicchiere: “Questo buzzurro bolognese fa il matto invece di mettere in salvo le altre persone e se stesso?”. Franco e Lucio divennero come fratelli [Fabrizio D’Esposito, Fatto].
Coppola «Giuro che da quando ha smesso di vestirmi mia madre mi sono sempre combinato così. Giuro che sarò anche paranoico ma vorrei che tutti seguissero il mio esempio, e per me gli originali sono gli altri e non io. Dice: e la coppola, che bisogno c’è della coppola? Dico: portare la coppola è contro il buoncostume? Dico: sempre avuta la mania dei baschi, dei caschi, dei cappelli, abbiate pazienza e chiedo perdono. Ma tant’è. Una volta vado a Settevoci, con la coppola. Pippo Bando mi fa: “Perché hai la coppola?”, Perché mi va, avrei dovuto rispondere. Mi pareva troppo banale. Così gli dico: “Si chiama Giovanni”. Be’, in un mese ricevo 5 mila lettere: tutti a parlarmi di Giovanni, a chiedermi se gli regalo Giovanni, oppure a insultarmi perché invece di rispondere da ragazzo educato avevo tirato fuori le mie solite puzzonate. E che è: non si può più scherzare, adesso? Dice: non si tratta di scherzo, si tratta di abitudine. Una volta vai a Sanremo e ti presenti in giacca da smoking e blue-jeans... Avevo messo i pantaloni sotto il materasso, signori. Per stirarli. Eppoi mi ero dimenticato di averli messi lì, e li cercavo, li cercavo... Che dovevo fare: presentarmi in mutande?» [Lina Coletti, L’Europeo, 1971]
Piera «Una delle prime figure femminili importanti nella sua vita è quella di Piera Degli Esposti. Si conoscono fin dalla scuola elementare, condividono l’amore per lo spettacolo e un carattere brillante. Lucio si innamora di Piera, ma anche di sua madre, “la moraccia” come la chiamavano a Bologna, frequenta la loro casa, Piera diventa la sua amica del cuore e rimangono legati anche durante l’adolescenza. Allorché Piera inizia a calcare le scene Lucio la segue e la sostiene («Quando mi vide per la prima volta sul palco non riusciva a stare fermo, tanta era la sua emozione» ricorda l’attrice), così come fa lei nelle prime avventure musicali di lui. L’amicizia diventa sempre più stretta e per un certo tempo Piera va addirittura a vivere a casa di Lucio. Un legame durato tutta la vita. Per il resto, poco altro da segnalare, al massimo qualche flirt, fugace, tra un concerto e un set cinematografico».
Cabaret Nei primi anni cabaret Dalla faceva parte di un gruppo di cabaret con Gianni Cavina, Baldazzi, Mangano e Pizzirani. Il sottoscala dove si esibivano era sempre vuoto, ma si dice che una volta tra il pubblico c’era Gianni Morandi.
Paoli Nel 1964 l’esordio da cantante grazie a Gino Paoli. «Il mio Lucio si chiude una sera in uno dei locali più eleganti di Bologna, si chiamava “Wisky a gogò”. Ci esibivamo insieme, a un certo punto ci dicono che in sala c’è Gino Paoli, allora una grande star, cerchiamo di suonare nel miglior modo possibile. Alla fine arriva un cameriere e ci dice che Paoli voleva parlare a Lucio. Quella sera è nato il Lucio cantante. Con noi, fino ad allora, faceva “scat”, quel virtuosismo jazz in cui si canta imitando gli strumenti musicali, Paoli ne era rimasto colpito, gli fece incidere il primo disco. Noi amici, da quella sera, lo abbiamo perso» (Pupi Avati) [Fulvia Caprara, Sta].
Fischi «Io nel mondo della canzone ci sono entrato per caso. Fu determinante un incontro con Gino Paoli. Mi disse: “Perché non ci provi?”. Ci provai. Al Cantagiro del 1965. Paoli aveva scritto per me uno spiritual, Lei, e io lo portai al Cantagiro. Fu una pernacchia dal primo all’ultimo giorno. La critica mi osannava e io non capivo neanche quello, perché non era il caso, e il pubblico mi tirava mele, mi fischiava, mi spernacchiava senza pietà. Io prendevo le mele, i fischi, le pernacchie e non facevo drammi. Dopotutto la colpa era mia. Avevo peccato di presunzione: credevo di fare l’impegnato e risultavo solo un grosso rompiscatole. Credevo che uno con la faccia come la mia potesse impunemente sviolinare cose d’amore e invece gli altri morivano dal ridere. In pratica la mia decisione di buttarmi sull’ironia nacque da lì. E devo dire che mi andò bene» [a Lina Coletti, L’Europeo, 1971]
Calzini «Al night di Torino? Gente per bene, madri di famiglia, signore della buona società, commendatori rispettabili e tu barbone in palco senza calze. Il proprietario che quando mi vede quasi quasi gli prende l’infarto. Però l’ho accontentato subito: ho preso il lampostil e mi sono dipinto i calzettini sui piedi» [Lina Coletti, L’Europeo, 1971].
Maiale Fino a ieri dicevano: «Dalla? Quel matto che fa bellissime canzoni e presenta i fumetti alla tv». Matto per via di un modo di vestire tra il pecoraio sardo e il santone indiano, e di uno sguardo un po’ allucinato sopra la barba alla Giuseppe Verdi, e di certe frasi dissacranti («Lo scopo della mia vita? Ridare dignità alla figura altamente nobile ed esteticamente pura del maiale») dette per amore di battuta e prese per simbolo di intelligente alienazione [Lina Coletti, L’Europeo, 1971]
Protesta Nel 1966 il primo Festival di Sanremo (Pafff... bum con The Yardbirds) «Ci portai Pafff... bum!, una canzone che non c’entrava niente con il melodramma, lo smoking e la brillantina sul ciuffo. Non andai in finale, però mi imposi come uno che non stava al gioco. Mi definirono cantante di protesta. Non era vero, che io alla protesta, al messaggio con la canzone non ci credo, per me la canzone è solo espressione del mondo di chi la fa, solo un momento magico. Comunque mi beccai quell’etichetta, e mio malgrado continuarono a fraintendermi, a rendermi un contestatore, un santone... E a me continuava a non fregarmene niente di niente. L’amore per la canzone mi è nato quando ho cominciato a scrivere, a fare un certo tipo di discorso, ad approfondirlo. Discorso che adesso mi ha portato in classifica, ma è episodico, non può durare. Farò la fine di Georges Moustaki: ai tempi de Lo straniero tutti a dire “oh meraviglia delle meraviglie” e adesso tutti a dire che è finito, solo perché non ha imbroccato un altro disco giusto? Pazienza» [a Lina Coletti, L’Europeo, 1971]
Tenco Nel 1967 è di nuovo a Sanremo con Bisogna saper perdere con The Rokes. Era vicino di stanza di Tenco nel 1967, fu lui a dare l’allarme, a dire che Luigi stava male, ma di quella notte non ricordava nulla (Aldo Cazzullo) [CdS].
Fenomeni Il fenomeno Battisti, per esempio. Tutto ciò che fa Lucio Battisti ha successo? Nasce la moda Battisti, la psicosi Battisti, e si copia Battisti che a sua volta si rifà, agli americani ma basandosi su una preparazione professionale seria, su un certo tipo di ascolto e di lavoro ineccepibili. Il caos nasce da qui. E la crisi pure. Scimmiotta oggi, scimmiotta domani, la gente non capisce più un cavolo e che fa? Compra gli stranieri ed è anche giusto, che, di solito, gli stranieri sono più validi. Oddio, è vero che di cantanti tradizionali, abbarbicati all’acuto ne esistono a iosa, ma la loro è una corsa a vuoto perché al pubblico dell’acuto non gliene frega più niente. La prova? Il successo di Patty Pravo, di Fabrizio De André, di Endrigo... Gente che non ha mai cercato l’acuto in vita sua. E questo mi consola. Mi conferma che sto lavorando giusto. Rifacendoti ai vecchi stornelli, come Al Bano con la sua 13, storia d’oggi s’è rifatto alle ballate pugliesi? Lusingato, signori, dico io. E un’accusa che non mi tocca. Che pretendevate, da me: che raccontassi una storia popolare con una musica alla Burt Bacharach? Eppoi aggiungo: magari tutti facessero come il sottoscritto e Al Bano, perché sia la mia sia quella di Al Bano sono le uniche canzoni che da sei, sette o dieci anni non risultino scimmiottature di motivi americani. [Lina Coletti, L’Europeo, 1971]
Hendrix A chi gli chiede se ha davvero fatto da spalla a Jimi Hendrix al palazzetto dello sport di Bologna risponde «Non ricordo, potrebbe darsi, io a quell’epoca salivo su tutti i palchi». Il concerto si tenne il 23 marzo 1968.
Importanza «Io ho tanta fiducia nel successo che non ho neppure aumentato il cachet, si figuri un po’. Quella di alzare i prezzi è una politica sbagliata. E se poi crolli? Il gestore fa i salti mortali e ti paga lo stesso, chiaro: però dopo non ti chiama più. Io gliel’ho spiegato e glielo ripeto: non sono e non posso essere un big. Il che non mi sconvolge affatto, mi creda. Io so di essere bravo. Molto bravo. No, no, non per la produzione discografica: per le cose che faccio qui, nelle serate. Cose discograficamente intraducibili, perché improvvisate, tipo happening. Cose che mi piacciono e mi divertono. E allora sa che le dico? Che preferisco essere basso come sono, brutto come sono, goffo come sono piuttosto che tutto bellino e tutto giusto alla maniera di Gianni Morandi o Massimo Ranieri. Loro sono costretti a imbroccare un disco dopo l’altro se non vogliono crollare. Io no. A me l’importanza loro non me la darà mai nessuno» [Lina Coletti, L’Europeo, 1971]
Lavoro «Il pubblico della Bussola al sottoscritto non interessa. Una volta ci sono andato, alla Bussola, e ci sono anche rimasto malissimo: aria da grande tempio della canzone, gente disposta ad ascoltare solo un tipo di cose, matusalemme danarosi che vanno lì per Mina, perché Mina ha le gambe lunghe e rappresenta un fatto di costume. Grazie, non m’interessa. Io intendo lavorare come voglio io, con la gente che voglio io, per il pubblico che voglio io. Io tranne Morandi ed Endrigo non conosco altri cantanti e lo sa perché? Perché il loro mondo non è il mio. Nel senso che non è mio il mondo del lavoro. Nel senso che non trovo nemmeno giusto che per vivere l’uomo debba lavorare» [Lina Coletti, L’Europeo, 1971].
Stitichezza «Io, dopo Sanremo, sono stato male per quattro giorni. Per l’emozione m’ha preso la stitichezza» [Lina Coletti, L’Europeo, 1971]
Puzzonate Nel cinema mi sono lasciato invischiare anche da altre puzzonate, tipo un film con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia (Franco, Ciccio e le vedove allegre, 1968) ma in tv tutte cose dignitose [Lina Coletti, L’Europeo, 1971]
Camino «La tv è come un caminetto con il pubblico che ci si mette di fronte e gli attori, o chiunque vada davanti alle camere, diventano come i ceppi che bruciano nel camino».
4 marzo 1943 Nel 1971 torna a Sanremo e conquista la popolarità con 4/3/1943 (testo di Paola Pallottino). «Sull’isola di San Domino, alle Tremiti aveva una casa bellissima che guardava l’abbazia sull’isola di fronte, San Nicola; sul terrazzo aveva messo uno specchio molto lungo, in modo che pure i commensali che davano le spalle al mare potessero vedere la facciata romanica della chiesa. Il suo posto prediletto però erano “gli igloo”, le casette bianche che gli regalarono quando avevano dismesso il vecchio Touring Club, e che Lucio teneva in giardino. Amava raccontare che in uno di quegli igloo era nata la musica di 4 marzo 1943» (Aldo Cazzullo) [CdS].
Stornello «4 marzo 1943 era nata a casa a Bologna. Tra l’altro quella musica, che compose fischiettando, Lucio sosteneva di non amarla; a chi gli diceva che era stupenda e struggente rispondeva che era solo la rielaborazione di uno stornello romano, “una variante del Sor Capanna”; se è per questo, diceva di non amare neppure Caruso, una canzone incisa in tutto il mondo» (Aldo Cazzullo) [CdS].
Gesubambino 4 marzo 1943, chiamata inizialmente Gesubambino. Il titolo fu cambiato per superare il vaglio della censura Rai e partecipare a Sanremo 1971. Nel testo poi il verso «Giocava alla Madonna col bimbo da fasciare» diventa: «Giocava a far la donna con il bimbo da fasciare». Ugualmente «E ancora adesso mentre bestemmio e bevo vino / per i ladri e le puttane sono Gesubambino» si trasforma in «E ancora adesso che gioco a carte e bevo vino / per la gente del porto mi chiamo Gesubambino» (Assante e Castaldo, cit.)
Pallottino «La mamma Iole? Che antipatica. Stava sempre lì a squadrarti dalla testa ai piedi, valutando quanto risultassi utile al figliolo. Dopo il terzo posto di Sanremo mi soffiò gelida: ‘Sei contenta, Pallottino?’. E io: ‘Dovremmo esserlo in due’.Vivevano insieme: mamma lo controllava… Poiché cominciavano a circolare chiacchiere sul conto di Lucio, lo faceva accompagnare da presunte fidanzate, aspiranti mogli segrete. Scrissi Anna Bellanna. Mi ero ispirata a una sua deliziosa amica, bionda e bellissima, sorella del povero manager Renzo Cremonini. A Bologna parlavano. Dicevano cose orrende. Busone, schifoso, puzzolente, nano maledetto. Pure lavorare con lui diventava sospetto. Dopo la sua morte la città si riempì di vedovi inconsolabili, accorsi al megagalattico funerale-passerella dove non si trovò un posto per me (Paola Pallottino, autrice di 4 marzo 43) [Mannucci, Fatto].
Cravatta «Non mi metto una cravatta perché mi farei ridere da solo, con la cravatta. Non mi metto la giacchetta perché non ne ho, non mi servono e sto più comodo vestito così, e siccome ho anche la fortuna di fare il cantante e non l’impiegato al catasto o il direttore delle pompe funebri, non vedo perché dovrei cambiare idea. E invece la gente no, la gente non ci crede, la gente pensa: ecco Dalla, viene a Sanremo con la magliettina a righe per fare personaggio» [a Lina Coletti, L’Europeo, 1971]
Matto «A Sanremo “quel matto di Dalla” s’è piazzato al terzo posto scavalcando di prepotenza big riconosciuti come Adriano Celentano, Sergio Endrigo, Domenico Modugno, e allora una specie di pathos emotivo ha coinvolto stampa, pubblico e colleghi. S’è parlato di novello cantastorie e novello trovatore. S’è parlato di riscoperta del filone popolare e folcloristico. S’è parlato di un’ulteriore svolta della musica leggera in Italia» [a Lina Coletti, L’Europeo, 1971]
Matto 2 «Che significa questo mio successo? Non lo so. Giuro che non me l’aspettavo. Giuro che è stato un trapasso abbastanza sconvolgente. Prima, dopo e durante. La tv che non voleva un certo tipo di discorso; la casa discografica che pontificava: ma tu sei matto, ma guarda che si tratta di un festival, guarda che ci vuole roba più commerciale; io che come partner chiedevo Duilio Del Prete, ma Del Prete stava in tournée con Johnny Dorelli, e Dorelli non gli dava il permesso... Eppoi le grane con la censura. Io in origine cantavo: “Giocava alla Madonna” e loro: per l’amor del cielo, la Madonna non si tocca. In origine cantavo: “E ancora adesso che gioco e rubo e bevo vino” e loro: per l’amor del cielo, l’epitaffio al ladro mai. E quindi niente Madonna e niente rubare. “Lei capisce: Sanremo è una trasmissione molto seguita, entra in tutte le case...”. Ho capito. E ho tolto. Era anche giusto. L’altra volta no. A Un disco per l’estate. Ci vado con E dire che ti amo. Canto: “Era da molto che non pensavo, era da molto che non lo facevo”, e loro tutti lì a concludere: “L’amore? Ah, no, questo in radio non passa, in radio far l’amore mai”. E che il verbo fosse riferito a pensare chi se ne frega... Ma le dicevo? Ah, sì: Sanremo. Un successo di cui non ho ancora capito bene la proporzione, al quale non sono abituato, che non considero determinante e che mi imbarazza. Mi imbarazzano le confessioni di simpatia. Mi imbarazza la gente che mi guarda come un vitello a due teste...» [Lina Coletti, L’Europeo, 1971]
Capannelli Nel 1972 di nuovo al Festival con Piazza Grande: «Quando feci la canzone, Piazza Grande era un luogo d’incontro e di dibattito, si discuteva di politica e di sport, c’erano i capannelli, un mondo scomparso che oggi potrebbe interessare agli antropologi». Arrivò ottavo.
Sorpresa Mario Luzzatto Fegiz: «E qui arriva la prima sorpresa: invece di imboccare la strada in discesa del repertorio popolare, Dalla molla i produttori-autori Sergio Bardotti e Gianfranco Baldazzi e fa sodalizio con il poeta bolognese Roberto Roversi».
Borsa L’incontro con Roversi avvenne per caso. Il poeta: «Io volevo scrivere un’opera lirica per sperimentare nuovi linguaggi, ma non sapevo nulla delle relazioni fra musica e poesia. Però sentivo che in quegli anni nella canzone c’era lo spirito per fare cose che non si erano mai fatte. Un giorno venne a trovarmi Cremonini, il suo manager, cercava un mio libro, e d’istinto gli consegnai un pacco di fogli per Dalla, che conoscevo solo di nome. Un mese dopo mi tornarono indietro tutti musicati. Diventò Il giorno aveva cinque teste. In Anidride solforosa gli feci cantare perfino le quotazioni di Borsa. Certo, a risentirli, certi miei testi ignoranti “stringono” davvero, doveva usare le ingegnosità di cantante per farli entrare nel ritmo, avrei potuto tagliare qualche parola...» (Roberto Roversi)
Roversi Il gigante e la bambina (1971) e Itaca (1972) conquistano l’hit parade. Col poeta bolognese Roberto Roversi realizza gli album Il giorno aveva cinque teste (1973), Anidride solforosa (1975), Automobili (1976). «Da Roversi ho imparato tutto, a scrivere da solo le mie parole, ma sopra ogni altra cosa l’emozione pura. Perché quello esprimeva Roversi, nonostante volesse consegnare al pubblico italiano una canzone civile». Poi il sodalizio con Roversi, che si ruppe nel ’77. Più tardi lui commenterà così: «è come quando scopi con la Schiffer, a un certo punto lei non c’è più e al suo posto c’è un pastore tedesco».
Autore Nel 1977 tornò a una produzione più commerciale con Come è profondo il mare, che segna il suo debutto d’autore dei testi. Luzzatto Fegiz: «La canzone è criptica, parla di violenza, del pensiero che fugge da chi lo vuole uccidere, ma capace di salvarsi e nascondersi come il pesce nel mare. Pochi la capiscono, ma in tanti la amano. Non è roba da cantautore».
Romanzo Lucio Dalla dice che l’idea per la canzone L’anno che verrà gli è venuta leggendo il romanzo La passeggiata di Robert Walser.
Onda «Per essere un vero artista devi essere un po’ sciamano. Il presente è frammentato e devi poter capire dove ci porta. Io ho sempre visto il tempo come un’onda, concepisco il futuro come un’eco che viene dal passato, anzi penso che sia lo spostamento in massa del passato».
Caffè Ma come fanno i marinai (1978) scritta insieme a Francesco De Gregori: «forse la gente non ci crede, è nata a pranzo, quando, dopo il caffè, ci siamo messi a suonare insieme»
Stadi Lei è stato il primo però a riempire gli stadi… «Sì, io e Dalla nel ’78. Neanche gli stranieri si esibivano lì. La prima fu Patti Smith nel ’79» [Francesco De Gregori a Luca Valtorta, Rep].
Moro L’anno che verrà (1979) «Quando scrissi L’anno che verrà mi pareva inevitabile che qualcuno sarebbe sparito. Eravamo alla vigilia del sequestro Moro».
Piazze La sera dei miracoli.«Una sera a Roma ce ne andammo in giro e rimasi impressionato, succedevano cose dappertutto, Roma sembrava incendiata di canti e danze, di gente ubriaca, ma ubriaca bene, mi arrivò addosso il furore bello della festa collettiva, allora tornai a casa, mi misi al pianoforte ed è uscita la canzone, con questa immagine della città che è come una nave che parte e si muove portandosi dietro le piazze, le strade e la gente nei bar» [a Gino Castaldo, Rep]
Balla balla ballerino (1980)...
Checkpoint Charlie La volta, nel 1980, che si ritrovò a fumare su una panchina davanti al Checkpoint Charlie, il punto di passaggio tra Berlino Est e Berlino Ovest, con accanto Phil Collins, cantante e batterista dei Genesis. I due rimasero in silenzio per mezz’ora. Fu lì che Dalla scrisse il testo di Futura, storia di due amanti, lui di Berlino Est e lei di Berlino Ovest (Assante e Castaldo, cit.) • «Ero amico del direttore di Stern e una sera lo andai a trovare in redazione. Dalla finestra si vedeva il muro dall’alto, con quello che c’era al di là, due mondi».
Grilli «Sono stata l’unica donna che ha amato, ma solo perché mi considerava un maschiaccio… Non avevo una lira e lui mi coinvolse nei concerti in Veneto e riuscì a togliere i dubbi a mia madre con una frase lapidaria: ‘Signora deve solo cantare, non fare la troia’”. Risposta di mamma? “È già piena di grilli per la testa”. E Dalla: “Risolviamo così: sua figlia canta e lei va a dire un paio di preghiere”» (Donatella Rettore) [Ferrucci, Fatto]
Stadio Nel 1981 dà il nome agli Stadio. S’è ispirato al nome dell’omonimo quotidiano sportivo bolognese.
Gaetano Secondo la leggenda sarebbe stato lui a scoprire Rino Gaetano, come raccontò in seguito: «Stavo andando a Roma in macchina e lungo la strada vedo un ragazzo con la chitarra a tracolla che fa l’autostop. Mi chiede un passaggio, mi dice che sta andando a Roma per cercare di avere un contratto discografico. Mi fece sentire le sue canzoni, io lo portai da Vincenzo Micocci, lui all’inizio era restio ma io e tutti gli altri, Bassignano, De Gregori, Venditti, lo convincemmo che ne valeva la pena» (Assante e Castaldo, cit.)
Figli «Concepire un figlio è un grande momento di speranza, e ammiro chi ha ancora il coraggio di questa speranza in un mondo di fuoco come è il mondo di oggi» (nel 1982).
Catarro Il nome della sua barca era Catarro. Sul citofono della sua casa di Bologna c’era scritto: Domenico Sputo.
Famiglia «Siccome “una famiglia vera e propria non ce l’ho”, se n’era fatta una sua. Ognuno aveva un ruolo – il fratello maggiore era Tobia, il factotum, le sorelle erano la Tina, cui era affidata la casa, e Vittoria, cui toccavano i cani – e un soprannome: Marco era detto Trìcchete, per la rapidità dei movimenti; il comandante della barca era il Cumpé, “compare” in dialetto di Manfredonia; Stefano, artista da lui lanciato, era Brillo, e la sua fidanzata ovviamente Brilla (non venni risparmiato neppure io, e fui Poldo, per lo dannoso vizio della gola). Ma il vero capofamiglia occulto era la madre sarta, di cui teneva la foto sul comodino» (Aldo Cazzullo) [CdS].
Desinenze Sulla sua barca trovavi i grandi artisti italiani e marinai che parlavano solo dialetto, Mimmo Paladino e un timoniere chiamato Furetto, Peppe Servillo e Cesare Ragazzi da cui si era fatto fare il parrucchino biondo, Fiorella Mannoia e «Giacome», che sbagliava tutte le desinenze: «Lucio, cosa bevo?». Non so Giacome, bevi quello che vuoi. «Non io, tu: cosa bevo?» (Aldo Cazzullo) [CdS].
Sorrento 2 Nell’86, aveva scritto la sua canzone forse più popolare, Caruso. «Mi si ruppe la barca, ero tra Sorrento e Capri, mi ospitarono degli amici proprietari dell’albergo dove morì il grande tenore Enrico Caruso. Per tre giorni sentii raccontare la storia del maestro e di quella ragazzina a cui dava lezione di canto e di cui era innamorato. Mi raccontavano di come, in punto di morte, gli fosse tornata una voce così potente che anche i pescatori di lampare la sentivano e tornavano nel porto ad ascoltarla. Caruso è nata così» (a Cristina Taglietti).
Spremuta «Quando scrivo una canzone non la scrivo con uno strumento, ma con la testa. È come la ripescassi, come fosse la raccolta di una spremuta di quello che c’è già e che ci circonda».
Comunione «Forse senza saperlo, e certo senza volerlo, Lucio Dalla è un profeta. Lo è per il suo fisico che si adatterebbe benissimo a un uomo di Dio itinerante attraverso i deserti della Galilea. Lo è per la voglia di avvicinarsi agli altri, e di entrare in comunione con loro attraverso quel segnale affabile e misterioso che è la musica» (Ludovica Ripa di Meana).
Banana republic Nel 1979 cambia le regole del gioco anche per gli spettacoli dal vivo, realizzando con Francesco De Gregori, Ron e gli Stadio il più clamoroso tour italiano visto fino ad allora: “Banana Republic”.
Giovani Nell’88 in tour con Gianni Morandi (da cui l’album Dalla/Morandi). Assante: «Il successo torna inesorabile alla fine del decennio, con il clamoroso tour e un disco con Gianni Morandi. Negli anni Novanta la musica italiana cambia: Dalla lavora con moltissimi giovani autori, scrive ancora alcuni brani molto belli, torna ancora a scalare le classifiche con Attenti al lupo». Dopo quel successo, Dalla scrisse una delle sue canzoni più impopolari, Henna, dedicata agli orrori delle guerra nella ex Jugoslavia. Gino Castaldo: «Più volte ci aveva confidato di nutrire per Henna un amore speciale. Proprio per essere rimasta più nascosta di altre, la riteneva una figlia prediletta»
Parrucchino Il parrucchino con cui si presentò in pubblico nel 1996, realizzato per lui da Cesare Ragazzi (Assante e Castaldo, cit.)
Senna «L’altra canzone che immediatamente cattura l’interesse del pubblico è Ayrton, dedicata agli ultimi attimi della vita di Ayrton Senna, leggendario pilota brasiliano di Formula 1 scomparso due anni prima a causa di un incidente sul circuito di Imola. L’autore, Paolo Montevecchi, l’aveva scritta subito dopo la morte di Senna, e l’aveva intitolata Il circo. Aveva provato invano a farla pubblicare portandola a diverse case discografiche. Un giorno, mentre aveva con sé i demo del brano da consegnare a un produttore, passò per caso davanti agli uffici della Pressing a via D’Azeglio, e decise di lasciare il materiale. Quando Dalla scese in ufficio urtò per sbaglio la pila di buste che era sul tavolo della segreteria e quella con il demo di Montevecchi cadde e si aprì, mostrando il materiale all’interno, con il testo scritto dietro la copertina del cd. Dalla lesse e fu colpito dalle parole di Montevecchi» (Assante e Castaldo, cit.)
Lucido «Nel 76, quando cantava Nuvolari, era un grande artista, nell’86, quando cantava Caruso, era un ambasciatore mandolinesco ma efficace del made in Italy, nel 96, quando cantava Canzoni, era un autore senza più niente da dire ma ancora abbastanza lucido da riciclare il suo vero capolavoro, Disperato erotico stomp» (Camillo Langone).
Nella canzone, una frase che diventa celebre:”Ma l’impresa eccezionale, dammi retta, è essere normale”».
Marco Nel 1997 conosce Marco Alemanno. «Il ragazzo pugliese aveva diciassette anni, era a Bologna con la sua fidanzata, e incontra Dalla per caso, in strada, lei lo ferma per chiedergli una foto, Lucio non solo acconsente ma inizia a chiacchierare con loro, li invita a casa la sera in via D’Azeglio, e addirittura li porta con sé l’indomani in viaggio verso Firenze, dove va a incontrare De Gregori, e passa gran parte della giornata a far scoprire ai due ragazzi l’arte e la bellezza della città, prima di ritornare tutti a Bologna. Si salutano, si scambiano i numeri di telefono e per il momento la cosa finisce lì. L’anno successivo, dopo la maturità, Alemanno lascia la Puglia e si trasferisce a Bologna, per studiare all’università, e Lucio lo ospita nella sua vecchia casa di vicolo Mariscotti, poi quando si stabilisce definitivamente in città inizia una frequentazione più fitta, lo sostiene, lo incoraggia, pagandogli un corso di recitazione, diventando a tutti gli effetti il suo mentore. Il rapporto diventa negli anni sempre più stretto. Dal 2003 Alemanno, soprannominato prima “Freccia” e poi “Tricchete”, vive a via D’Azeglio, in un appartamento sopra quello di Dalla, un sottotetto del palazzo dove ci sono gli uffici della Pressing» [Assante e Castaldo, cit.].
Teatro «Definisce la sua attività nei teatri d’opera “un dopolavoro, un divertimento, una passione”, sceglie sempre partiture di rottura, come Arlecchino di Busoni e Pulcinella di Stravinskij» (Alfredo Gasponi). Ha messo in scena anche The Beggar’s Opera e lo spettacolo Un punk del Rinascimento, su Benvenuto Cellini con Marco Alemanno
Arlecchino «Lucio voleva che la mia voce fosse a metà tra quella di Ninetto Davoli e quella di Totò» (Marco Alemanno).
Cinema. Tra il ’65 e il ’79 sono ben quindici le pellicole in cui Dalla ha recitato. Spiccano i nomi di registi quali i fratelli Tavani, Mariano Laurenti, Renato Castellani. Per il cinema Lucio ha scritto anche colonne sonore, arrivando a vincere il David di Donatello per la musica di Borotalco nell’82, e per Il frullo del passero nell’87. Poi ex camorrista in Cinque, il numero perfetto (Egidio Eronico, 2008). Ha realizzato la colonna sonora di S.M.S. (regia di Vincenzo Salemme), musicato e cantato il brano Principessa, scritto inedito di Totò messo a colonna sonora al documentario Un principe chiamato Totò.
Vescovo In tv Artemisia Sanchez (Raifiction, 2007). Tornò a fare l’attore per Lo Giudice nella miniserie televisiva “Artemisia Sanchez”, vestendo i panni di un religioso, il vescovo Falvetti, e pochi giorni dopo, il 25 ottobre, era ad Assisi al fianco di Alda Merini, che negli anni era diventata una sua buona amica, per Francesco, canto di una creatura, un concerto-spettacolo che ripercorreva la storia umana e mistica del santo. Neanche a dirlo, anche qui a recitare era Marco Alemanno (Assante e Castaldo, cit.)
Collaborazione «Se dovessi rinascere mi piacerebbe essere come Marco Alemanno. Lui è uno che ha competenza: recita, canta, scrive ed è anche produttore. Quando mi chiedono da dove nasca la mia collaborazione con Marco dico sempre che non l’ho scoperto ma che è stato lui a scoprire se stesso».
Buñuel «Ricordo ancora la volta in cui sono andato a trovarlo a Bologna per proporgli di fare le musiche del Bar Margherita. Andai a casa sua, mi fece trovare Marco Alemanno vestito in modo curatissimo, a mio avviso anche truccato, mi disse che aveva preparato una cosa per farmelo conoscere. Fu un incontro alla Buñuel, Lucio seduto al pianoforte in estasi, questo ragazzo che recitava un testo appassionato, io imbarazzatissimo perché, come si sa, amo la recitazione naturalistica e mi sentivo all’altro capo del mondo. Negli occhi di Lucio c’era un amore, una commozione, da lì ho capito quanto fosse pazzamente innamorato di Marco, ho pensato all’Angelo azzurro… sulla sua richiesta ho glissato, gli ho detto che per il film Marco non andava bene, era una commedia e un personaggio così non c’era, ma so di aver dato a Lucio un grande dolore» (Pupi Avati) [Fulvia Caprara, Sta].
Monumento Dopo la laurea “honoris causa” ricevuta a Bologna nel 1999, il riconoscimento della cultura ufficiale fu ulteriormente certificato all’inizio dell’estate, quando il testo di Piazza Grande fu consegnato alla storia degli esami di maturità come documento da analizzare accanto alle poesie di Cardarelli, Penna e Saba. «Non vorrei che con questa storia mi considerassero ormai un monumento»
Scrittore «Il suo genio pare talora confinare con la follia. Ha perso le amicizie antiche con quelli che furono i suoi colleghi, i Guccini e i De Gregori, “li rispetto ma a me piace cambiare mestiere”: scrittore. Bella La vita, Rizzoli 2002
Mestieri Editorialista, gallerista d’arte moderna, attore (con i Taviani), regista teatrale (al Piccolo), pilota alla Millemiglia (prima con Bergonzoni, poi con Oliviero Toscani), compositore. Dopo la rivisitazione della Tosca, le musiche per una fiction Rai sulla Contessa di Castiglione. I suoi discorsi sono coerentemente frenetici e sfuggenti. Ha lavorato con Pavarotti e con Califano, è amico di Claudio Abbado e di Max Gazzé. È incredibilmente umile per un artista» (Aldo Cazzullo).
Tosca «Quando finisco qualcosa per me è come morta. Anche Tosca, mentre ci lavoravo l’ho amata moltissimo, ma via via che si allontanava, mi è sembrato di non averla mai fatta. Lo giuro, mi dimentico. Forse è un processo di disistima, ma quello che già ho fatto non mi piace più. Solo ogni tanto mi ricredo. Per caso riascolto una canzone e lo faccio dall’esterno, quasi fosse di un altro, e mi viene da pensare che non era niente male e magari perfino mi commuovo. È capitato di recente; ero in macchina e per caso alla radio ho ascoltato Mille Miglia, che avevo fatto nel ’76 con Roberto Roversi. Ho pianto» (Assante e Castaldo, cit.)
Bastardi «I veri poeti sono come i bastardi, tutti li accarezzano, ma nessuno li vuole in casa».
Cantante «Oggi non si può pensare di essere solo un cantante, nella vita il fatto che si canti è saltuario, è un fenomeno isolato, sono le allodole che cantano sempre. Così ogni mio progetto va oltre la musica».
Fegato «Alla base di tutto ci sta una timidezza che la vita, la maturità, i calci nei denti che ho preso da una lotta continua con me stesso hanno tramutato in incoscienza. Incoscienza, ulcera, insonnia e mal di fegato» [Lina Coletti, L’Europeo, 1971]
Musica «Se dovessi fare l’analisi chimica dell’esistenza, sarebbe la musica a scorrere sopra ogni altra cosa. Per me la musica è tutto, da trent’anni dormo ascoltandola. In tutte le mie case ho uno stereo, un iPod o un lettore che rimangono accesi tutta la notte e, se qualcuno li spegne, io mi sveglio. È la musica che mi fa entrare nel resto della vita».
Attila «Ho una manualità catastrofica, ho imparato ad allacciarmi le scarpe a ventun anni. Non ho mai dato valore ai gesti che mi riguardano, eppure ho imparato da subito a usare gli occhi, le mani e le orecchie come componenti essenziali dell’assimilazione del vivere. E ho affinato l’udito. Non conosco la musica; da ragazzo non trovavo logico seguire i segni scritti, ma la musica mi è sempre entrata dentro con facilità strabiliante. Ecco, diciamo che non c’è dubbio che io sia vittima di un handicap, ma anche che l’ho risolto con allegria. La memoria per me è solo un fatto creativo, a scuola mi piaceva leggere le poesie, eppure non ne ho mai imparata una, mi sembrava troppo stupido. Invece ricordo tutto ciò che m’interessa o che m’intriga, per esempio so tutto di Attila, anche quello che mangiava a colazione».
Tuttologo «Era una sorta di tuttologo, capiva di tutto, quando vedeva i miei film scopriva cose che io stesso non sapevo di averci messo» (Pupi Avati) [Fulvia Caprara, Sta].
Morte «Non credo nella morte, agli amici dico sempre che è solo la fine del primo tempo».
Parolacce «Io ero un ragazzo che veniva da un paese del nord, abbastanza chiuso, con una grande passione per la musica, molto educato, e mi sono trovato di fronte una persona che era il mio opposto. Basta pensare che mi ha costretto a dire le parolacce, cosa che non avrei mai fatto per educazione, io mi rifiutavo e lui me lo chiedeva a tavola con tante altre persone, “di’ stronzo, di’ pezzo di merda”, cercava di non essere mai troppo serio, e anche quando faceva dei discorsi che avevano un peso riusciva sempre a trovare un modo per dire le cose con leggerezza» (Ron) [Assante, Rep].
Riproducibilità «Ho sentito sempre una distanza ogni volta che lavoravo insieme a un giovane cantante. Cosa che, del resto, è capitata molto spesso. Quanto alla possibilità di considerare qualcuno il mio successore, no, non trovo nessuno. E poi io non sono di facile riproducibilità. Cambio continuamente, cambio troppo spesso».
Tifo Grande appassionato di basket, tifoso della Virtus Bologna. Non ha mai mancato una partita, addirittura secondo la leggenda alle volte incastrava le date dei tour in modo da non perdere gli incontri in casa o in trasferta e tutte le volte che suonava in un palasport, prima dei concerti, si concedeva il tempo di tirare la palla nel canestro. Si considerava molto più di un esperto di pallacanestro, arrivò a dire in un’intervista a Dario Colombo sui “Giganti del basket” (Asssantee Castaldo, cit).
Allenatore Mi ritengo un grande allenatore e non è escluso che per sfizio, se me lo posso permettere, prima o poi lo faccia. Capisco sempre in anticipo le cose che stanno per succedere in campo. Ho inventato uno schema che ho chiamato “Rollerball” che non esito a definire rivoluzionario, comunque non posso anticipare niente perché sarà la grande rivelazione della mia squadra di amici nelle prossime partite (assante e Castaldo, cit.)
Sosia Lucio raccontava pure di avere un sosia, che ogni tanto lo sostituiva ai concerti, cantando in playback, mentre lui andava a vedere la Virtus, la squadra di basket di cui era tifoso. Ero sicuro che fosse una frottola, fino a quando sotto casa in via Massimo D’Azeglio mi presentò un omino identico a lui, persino nel pelo: era il sosia. Nella vita faceva l’imbianchino, e Lucio raccontava – ma quella era quasi certamente una frottola – che in cambio un giorno era andato a lavorare in cantiere al posto suo. (Aldo Cazzullo) [CdS].
Sosia 2 «Intendiamoci, non è che cantassi e mi spacciassi per il Dalla vero ma durante le prove salivo sul palco e simulavo la sua presenza mentre lui arrivava solo il giorno dell’esibizione. Oppure se non poteva proprio andare partivo io. Il pubblico andava in visibilio, poi veniva avvisato che ero solo il sosia. Si divertivano lo stesso. Bastava una gag per buttarla in ridere. Allo Stadio Olimpico di Roma, Gigi D’Alessio ha fatto finta di essere sorpreso: tu bolognese tiri un pacco a me napoletano? Non esiste!» (Vito D’Eri, il sosia) [Rep].
Calcio «Ero un ragazzo, quando aspettavo Pascutti sotto casa per ore. Io tifo Bologna, ma subito dopo Napoli, o Roma. Ammiro il Piacenza, che vada in A la Reggiana mi diverte. Ma è la A del Bologna a esaltarmi. Queste due promozioni in due anni, questo cocktail così strambo. Gazzoni e i suoi amici, le “volpi argentate”, gli aristocratici che danno stile, e non solo sostanze, allo sport della città. Il Montezemolo che domenica spegne la tv, e non ha vinto la corsa dei sacchi, e viene lì, nel nostro club di amici del pallone. Quei giocatori strani. Non fenomeni, ma pensanti, capaci di parlare sottovoce, di capire. Nessun gigante, nessuno adottato come figlio, così li abbiamo adottati tutti: io scelgo Cornacchini, centravanti impopolare perché non fa mai gol, ma era quello che iniziava la distruzione del gioco altrui, e che dava forza a tutti» (Assante e Castaldo, cit.).
Miti «Nella mia vita ho avuto solamente due miti, un po’ diversi tra di loro. Uno è stato Ezio Pascutti, ala sinistra del Bologna, l’unico – insieme a Sean Connery – al quale ho chiesto un autografo nella mia vita. L’altro, un po’ più da adulto, è stato Gino Paoli» (Assante e Castaldo, cit.).
Famiglia «Non ho mai programmato una famiglia. Le mie storie d’amore non sono raffinate, neanche violente, spesso casuali».
Etichetta Non intendeva dichiararsi, attribuirsi un’etichetta, sposare una causa (Aldo Cazzullo) [CdS].
Vale Nel cd Il contrario di me, la canzone Due dita sotto il cielo dedicata a Valentino Rossi. • «Valentino Rossi mi ricorda Alessandro Magno. Il mio immaginario è stato colpito in passato da altri personaggi veloci come Baggio, Senna, Caruso, Nuvolari. Ma Valentino Rossi li supera tutti perché lui ha il gusto dell’eterna giovinezza e quello della scoperta».
Coni Ha composto e cantato l’inno olimpico del Coni.
Stadio Morandi racconta che per l’ultima volta lui invece lo vide allo Stadio Dall’Ara. Il Bologna perse per 3-1 con l’Udinese ma Lucio andò via prima della conclusione della partita (Assante e Castaldo, cit.).
Genio Torna a Sanremo nel 2012: «Mi fece questo regalo, ma litigammo anche in quell’occasione. Voleva mandare Pierdavide Carone, io lo obbligai a venire. Da genio si inventò il direttore d’orchestra che cantava, è stata l’ultima cosa che ha fatto in Italia. Ci siamo visti due giorni prima che partisse per il tour, era un po’ stanco, eravamo d’accordo che l’avrei raggiunto a Francoforte o a Berlino. Poi lui è partito per Montreux. Nella vita ci sono cose che sembrano scritte» (Gianni Morandi) [Silvia Fumarola, Fatto].
Curioso «Mi piace invecchiare. Più vado avanti e più sono curioso».
Morte «La sera del 29 febbraio suonarono a Montreux, e il concerto andò bene, era soddisfatto, tornò in albergo tranquillamente e la mattina dopo, il 1° marzo, si svegliò di buon umore. Si era alzato presto, come al solito dormiva poco, fece colazione con alcuni musicisti e poi tornò in camera e si mise a chiacchierare con Marco Alemanno di qualche nuova idea, di un blog con Marco Travaglio, di un progetto fotografico su Patti Smith e Robert Mapplethorpe, poi andò a sedersi sul divano». Alemanno racconta così i momenti seguenti, drammatici: «Dopo pochi istanti gli chiesi se preferisse mangiare a Montreux oppure a Basilea, dove saremmo dovuti andare dopo qualche ora. Lui non mi rispose. Pensai subito che si fosse appisolato come capitava spesso. Poi però sentii uno strano e insistente rumore; allora uscii immediatamente dal bagno e lo guardai, era sempre sul divano con la testa reclinata all’indietro, esattamente come quando si addormentava davanti a un film, eppure quella specie di rantolo mi sembrava troppo forte per essere uno dei suoi soliti e rumorosi respiri da sonno. Pensai a uno stupido scherzo. Mi avvicinai al divano e appena gli misi una mano sulla spalla chiamandolo per nome, vidi la sua testa cadere di lato». Chiamò subito soccorso, cercò di rianimarlo con l’aiuto di Luca Gnudi, i medici arrivarono immediatamente e per venti minuti fecero tutti i tentativi possibili, ma non ci fu niente da fare. Lucio Dalla era morto, tre giorni prima del suo sessantanovesimo compleanno, per un attacco cardiaco» (Assante e Castaldo, cit.).
Lupo Ultima canzone cantata da Lucio Dalla ieri sera a Montreux: Attenti al lupo [Cerruti, Sta]
Frati A comunicare al mondo che Dalla era morto furono i frati della basilica di San Francesco d’Assisi: “È morto Lucio Dalla, dolore e sgomento della comunità francescana per l’improvvisa scomparsa del Cantautore di Dio. I frati del sacro convento sono sicuri e certi che san Francesco lo accoglierà per portarlo alla presenza del Signore”. La mattina del 2 marzo il rientro della salma in Italia, mentre la gente di Bologna, senza nessun appuntamento, comincia a ritrovarsi nelle vie del centro e tutti, anche solo facendo finta che sia un caso, passano davanti al portone di via D’Azeglio.
Marco Il 4, il giorno del compleanno e del funerale, tutto accadde tra la basilica di San Petronio e Piazza Maggiore, colma di gente all’inverosimile. Quando il feretro arriva in piazza c’è un lunghissimo applauso e le campane dell’Arengo iniziano a suonare. Dietro la bara ci sono Marco Alemanno, Ron, gli amici e i familiari più stretti. Dentro la basilica tanti colleghi, tutta la musica italiana ad aspettarlo, le autorità, e ancora tanta gente, ovunque. Bologna si stringe per l’ultima volta attorno a Lucio, mentre monsignor Gabriele Cavina celebra la messa. Quindi parla padre Boschi, suo confessore, suo amico: «Lucio trasmetteva serenità e gioia, ci ha lasciati più soli e più tristi. Ma l’eredità che ci lascia è proprio questa, l’insostenibile leggerezza dell’essere» dice, durante l’omelia. «Tutta Bologna ti vuole bene, tu hai amato tutti, questo popolo ti capisce, dalle autorità agli ultimi. Bologna ha perso un figlio vero che ne rappresentava la sottile ironia, la profondità, aveva un’immensa sete di Dio, dell’assoluto. Mi viene in mente quando dicevi “la terra finisce, comincia il cielo”. Tu sarai con la mamma a celebrare questo compleanno, noi qui siamo tristi ma tu non vorresti che lo fossimo. Caro Lucio, ti salutiamo, saremo sempre con te perché tu sei con noi, in mezzo a noi.» E poi aggiunge: «Certo, Lucio ci ha lasciato in un modo impensato, inedito, e questo è Lucio. Un tonfo, quasi crudele… vero Marco?».
Testamento Per Lucio Dalla nessun testamento, cinque eredi e un grande escluso. Gli eredi sono i cinque cugini (con i figli sono in 10 ad avere voce in capitolo), il grande escluso è quel Marco Alemanno che ha convissuto con il cantante fino alla sua morte. Quindici anni insieme, ma per la legge sono nulla [Renato Franco, CdS]• «Una forma di censura, di Marco Alemanno non c’è un ricordo, una foto, qualcosa, e, invece, per Lucio, era stato importantissimo. (Pupi Avati) [Fulvia Caprara, Sta].
Santino «Rido quando lo vogliono far passare come un santino, mentre era tremendo ed era il suo bello: era un dissacratore, un imprevedibile; ci ho lavorato due anni: mi spiazzava continuamente» (Tosca) [Ferrucci, Fatto]
Santo San Lucio Dalla, ormai susciti pellegrinaggi e devozioni di tono chiaramente religioso, sei il santo laico della Bologna delle osterie e delle nostalgie, in via Santa Caterina un mendicante mi ferma, ti invoca, ricorda di quando ti fermavi a chiacchierare con lui e si fa il segno della croce e per ottenere qualche spicciolo comincia a cantare “Caro amico ti scrivo” e non la finisce più, la conosce tutta, poi in piazza dei Celestini, sotto il tuo balcone, davanti alla chiesa che frequentavi, vedo la statua che ti hanno dedicato e ci sono tuoi ammiratori anzi tuoi devoti che fanno foto, e mi viene in mente quando ci salutammo alla Manifattura Tabacchi dov’eri andato per una mostra di arte nuova perché a te interessava supremamente il nuovo, non ho mai conosciuto un classe 1943 così attratto dal presente, mentre qui ogni volta che muore un cantante degli anni passati sembra che sia morto Beethoven e tutti a piangere sulla fine della musica. Tu eri troppo cristiano per non sapere che i morti devono essere seppelliti dai morti: sono certissimo che in questo aprile 2016 avresti ascoltato anche tu “Me la godo” di Bugo e l’esordio di Motta e che ti sarebbero piaciuti moltissimo e che ne avresti tratto presagi radiosi. [Camillo Langone, Il Foglio]
Religione
Messa «Va a messa, rifiuta l’aborto (“La vita va difesa sempre e comunque”), cerca Dio (“La ricerca del divino e della trascendenza fanno parte della natura umana”).
Dio «Sento Dio in me, anche se a dirlo così ti pigliano per folle. Il destino lo sento come una specie di marketing celeste. Penso Dio come Ingmar Bergman nella sceneggiatura di Conversazioni private».
Sacro «Lucio era molto legato alla spiritualità, all’idea religiosa del dopo, dell’aldilà, un’attitudine rara. Perfino per chi, come me, vuole essere credente, è difficile essere convinto che arriverà un momento in cui potrò rivedere mia madre. La mia ragione mi censura, vorrei crederci, ma non ci riesco. In Lucio questa fiducia c’era. Quando morì sua madre, cui era affezionatissimo, fece fare al carro funebre l’intero giro dei colli bolognesi in modo, mi disse, che potesse vedere Bologna da tutti gli angoli. Lucio andava sempre a messa, era un praticante assiduo, aveva il senso del sacro e lo si avverte in tante sue canzoni. Per essere poeti bisogna avere quel senso, bisogna riuscire ad andare oltre l’area del pensabile. Un’area che è in ognuno di noi, ma che in Lucio formava un tutt’uno» (Pupi Avati) [Fulvia Caprara, Sta].
Rosario Al collo portava un piccolo rosario, aveva la casa piena di crocefissi e porte che davano sui tetti, dove usciva a sentire «le parole della gente e l’odore dei mangiari»: era profondamente cattolico, sicuro che la vita terrena fosse soltanto il primo tempo della partita. Cantò per Giovanni Paolo II e alla fine si sussurrarono qualche parola all’orecchio; «ma quello che mi ha detto il Papa lo racconterò solo a mia mamma», morta da anni (Aldo Cazzullo) [CdS].
Padre Pio Devoto di Padre Pio, come la madre Iole. Lucio lo incontra per la prima volta nel 1950, quando la madre lo porta nel convento di San Giovanni Rotondo. Allora Pio ingiunse al piccolo Lucio di non mettere più piede su un palcoscenico, pena «la dannazione eterna». Il secondo incontro con Padre Pio, il giorno prima della sua morte, il 23 settembre 1968. «Padre Pio mi fissò con un’intensità che mi si è stampata nella memoria. Due occhi così luminosi non ne ho visti più» ricorderà poi (Assante e Castaldo, cit.).
Ratzinger «Ama papa Ratzinger, “un grande e fine intellettuale”, di cui ha apprezzato l’enciclica sulla Speranza, “il livello della sua catechesi è così elevato da sfuggire a quelle menti che ricercano, nel mondo attuale, solo l’insulto”» (Claudia Voltattorni).
Opus Dei Ha fatto sapere di essersi avvicinato all’Opus Dei: «Sono sempre stato di sinistra e credente».
Opus Dei 2 Non sono dell’Opus Dei, non so cosa sia. Tutto è nato da un malinteso con un intervistatore. Sono cattolico ma ho sempre votato a sinistra.
Politica
Craxi Politica Ammiratore di Prodi («è caduto in piedi, lo stimo per questo»), nostalgico di Craxi: «In una cena a Hammamet, una sera dell’82 dopo la vittoria ai Mondiali di calcio, si lanciò in una appassionata perorazione. “Lucio”, mi disse, “dobbiamo riunire tutti i migliori artisti, medici, ingegneri, industriali e fondare un nuovo partito. Lo chiameremo Forza Italia!”. Ohi come ha sgranato gli occhi Berlusconi quando gliel’ho raccontato!» • La volta che Bettino Craxi fu invitato a cena nella casa di Trastevere di Lucio Dalla, e si trovò a tavola con Francesco De Gregori. Era il 1980 (Assante e Castaldo, cit.)
D’Alema Nel 1997 disse che gli piaceva D’Alema ma era amico di Berlusconi: «Essere per la gente, per il popolo, per la democrazia. Questi sono valori di sinistra che però possono essere realizzati benissimo anche dalla destra. Se c’è un idraulico bravo ma di destra non è che non lo chiamo perché non la pensa come me».
Berlusconi Conobbe Berlusconi nell’87: «Mi invitò ad Arcore l’antivigilia di Natale. Mi accompagnava il mio produttore, ma fu lasciato fuori dalla porta. Berlusconi preferiva vedermi da solo. Pensai a una proposta di lavoro. Voleva solo conoscermi. Parlammo per ore, di musica, di me, del mondo dello spettacolo. Ha assorbito un poco della mia forza. Mi ha chiesto di insegnare alla scuola dei suoi manager, come poi ho fatto. E devo riconoscere che qualche anno prima il mio mito, l’unico politico di cui tengo la foto a casa, Enrico Berlinguer, non mi aveva fatto la stessa impressione. Mi portò da lui Walter Veltroni, insieme con Francesco De Gregori. Un gelo terribile. Qualche parola di tanto in tanto, qualche sguardo. Per spezzare il silenzio gli dissi che trovavo simpatico Cossiga. Sapevo che erano cugini alla lontana, pensavo di fargli piacere. Credo però che avessero litigato, perché Enrico ci rimase malissimo. Siccome non poteva finire così, Veltroni ci riprovò. Ci invitò a cena, e quella volta parlammo. Berlinguer si era preparato»
Berlinguer Uno dei suoi racconti preferiti era quando Veltroni aveva invitato a cena lui, De Gregori e Berlinguer: «Eravamo uno più imbarazzato dell’altro. Berlinguer chiese a De Gregori che differenza ci fosse tra una chitarra elettrica e una acustica. De Gregori rispose: una è elettrica, l’altra è acustica» (Aldo Cazzullo) [CdS] • A me domandò chi avrebbe vinto il campionato di basket. E comunque un mito è un mito. Non deve essere simpatico».
Cofferati Appoggio incondizionato al sindaco Cofferati: «Io abito in una via del centro, ed è pe-ri-co-lo-sa. Bologna è una città con una stabilità sociale apparente, ma in realtà di equilibrio, come tutte le città di oggi, ne ha poco. I sindaci precedenti non hanno voluto mettere il dito nella piaga delle dinamiche complicate di questa scissione cittadina, l’apparente opulenza e il senso di disagio sottostante. Cofferati è l’unico che ha avuto il coraggio di farlo. Gli altri, anche Zangheri, o Vitali, sono stati dei semplici gestori del problema. Cofferati è l’unico che ha avuto il coraggio di entrarci dentro. E guardi, lo dico io che non sono suo amico, lo conosco appena, quando ci incontriamo “ciao Sergio, ciao Lucio” e finisce lì» (a Jacopo Iacoboni).
Guazzaloca A Bologna vota Guazzaloca, per la prima volta vota qualcuno sostenuto dal centrodestra: «Fa bene a tutti. Sono andato in Piazza Maggiore la sera della vittoria di Guazzaloca e in quella piazza mi sono sentito vincitore anch’io. C’è una frase di Senna che mi piace molto: “Un vincitore è uguale a un vinto”. Non si tratta di cambiare le proprie idee, ma di trovare le ragioni per festeggiare, anche perché i veri eroi sono quelli che ogni tanto perdono»
Carolina Suonava a casa di Craxi, e votava comunista. Era stato a cena a casa di Agnelli e di Berlusconi, ma il suo ristorante preferito era da Carolina, una prosperosa matrona pugliese che definiva «la donna più bella del Mediterraneo» (Aldo Cazzullo) [CdS].
Curiosità
Stronzetto «Lo “Stronzetto dell’Etna”, un vino fatto vicino alla mia casa di Milo e che consumo esclusivamente alla mia tavola o sulla mia barca».
Telefono «Sono stato un pioniere del telefono da portarsi appresso, avevo una centralina montata su un gippone, tanti anni fa, con la quale potevi comunicare ma solo con certe grandi città, Roma, Bologna, Milano, Firenze, Torino; era un oggetto come un meteorite».
Tecnologia Era fissato con gli ultimi ritrovati tecnologici, sia che fosse l’iPhone o lo schermo ad alta definizione che continuava a sostituire nella sua sala di proiezione privata. Vedeva i film con l’adorato compagno Marco, o con pochi amici fidati, come Stefano Bonaga: Cara è ispirata a una sua storia d’amore. Gli ultimi tempi aveva cominciato a scrivere opere liriche ma non tradiva le canzoni, sapendo che la vera arte è indipendente persino dal suo creatore. Quando cantava Anna e Marco si emozionava come se fosse stato qualcun altro a creare la stella di periferia che avrebbe voluto morire e il suo lupo che voleva andarsene lontano. Ma era lui, Lucio, che li aveva visti tornare tenendosi per mano (Antonio Monda, Sta).
Lucio Dalla ha appena cambiato la suoneria del cellulare: da quella che fischia e che poi urla «Taxiii!» è passato a quella del cane che abbaia. Dalla sostiene di essere «un campione come pochi» alla Playstation.
Padrone Ha avuto molti cani «tra cui uno di nome Piero che in quindici anni non l’aveva mai riconosciuto come padrone» (Aldo Cazzullo) [CdS].
Pigiama Lucio Dalla, barba lunga e incolta, durante le prove indossa i pantaloni del pigiama: «I pantaloni sono comodi, e la barba ha per me un significato profondo che non sto a spiegarvi. Forse sono nato così. Certo che mi crea qualche problema con i rapporti sentimentali». [Vesigna 2010]
Melanzane Non beveva, non si drogava, mangiava poco, quasi solo melanzane (Aldo Cazzullo) [CdS]. Fumava (unico vizio il fumo (Bolognini, Rep).
Moto La Ducati Scrambler 250, la prima moto di Dalla, abbassata appositamente per permettergli di toccare terra: ammortizzatori più corti, sul cavalletto la ruota posteriore rimaneva più alta da terra, aveva una forcella diversa dall’originale e la sella assottigliata (Assante e Castaldo, cit.).
Auto «La prima auto l’ho comprata e guidata per sei anni senza neanche avere la patente, era una Citroën DS 19. Sulla Fiat 1100 nera avevo fatto mettere le mie iniziali dorate, sembrava un carro funebre! E in un’altra Dyane avevo montato un frigo dove c’erano sempre vino e salame. Ho avuto una lunga storia con le Porsche, la prima era una 912 comprata nel 1968, ma ne ho cambiate tante fino alla Carrera 4» (Assante e Castaldo, cit.).
Sky Dopo il successo della trasmissione su RaiUno con la Ferilli, «La bella e la besthia» (non si è mai capito perché besthia con l’acca), lo chiamò Sky, per uno show chiamato «L’angolo nel Cielo». Lui accettò ma volle molti set per installare Sky, per poter dire alle persone care: «Ti regalo Sky». Ma Lucio cos’è questa scatola? «È Sky» (Aldo Cazzullo) [CdS].
Svuotato «Lucio si dava dieci volte di più di tutti gli altri. Alla fine era svuotato» (Pupi Avati) [Fulvia Caprara, Sta].
Dialetti Lucio parlava il bolognese, il napoletano e il pugliese (Aldo Cazzullo) [CdS]
Greco Un lirico greco che amava: «Vivono per sempre i suoi Usignoli. Su loro Ade, che tutto rapina, non metterà le mani» (Aldo Cazzullo) [CdS].
Bugiardo Un’altra cosa che si dice di lui è che fosse un gran bugiardo. In realtà, Lucio non mentiva. Costruiva mondi, inventava situazioni e personaggi. Ingentiliva la vita (Aldo Cazzullo) [CdS]
Frottole Altri testi glieli scrisse Roberto Roversi, il poeta, che aveva fatto lo stesso liceo di Pasolini, e Lucio raccontava che l’insegnante d’italiano per poter dare i voti ai temi aveva inventato l’11 e il 12; anche questa era quasi sicuramente una frottola, ma gentile. Come quando presentò a David Zard, che esitava a operarsi al fegato, un amico che lo tranquillizzò: «Io mi sono operato un mese fa, e ora guardami, sto benissimo». Al funerale di Dalla, Zard ritrovò il tizio e gli chiese: come stai? «Bene, perché?». Il fegato... «Quale fegato? Non sono mai stato operato. Era un trucco di Lucio, perché ti operassi tu» (Aldo Cazzullo) [CdS].
Natale «A Natale invitava “i rottami”, come li chiamava scherzosamente con affetto, riuniva personaggi disperati, chi aveva bisogno. Faceva tre o quattro presepi, tre o quattro alberi di Natale, amava talmente il Natale che cominciava a settembre ad addobbarli. Musicalmente era unico, risentire le sue canzoni oggi fa impressione» (Gianni Morandi) [Silvia Fumarola, Fatto].
Buco La casa romana di Dalla, a Trastevere, in vicolo del Buco numero 7 (Assante e Castaldo, cit.)
Canzone La canzone preferita di Lucio Dalla («in assoluto, anche tra le mie») è Santa Lucia di Francesco De Gregori: «Ricordo perfettamente la prima volta che l’ascoltai. Stavo tornando dalle Tremiti, mi fermai in un autogrill e comprai la cassetta di Bufalo Bill. Quando arrivò Santa Lucia mi prese un colpo: di invidia, poi di commozione, perché mi spostò. Dovetti fermarmi e riascoltarla due o tre volte, poi ho detto: vaffanculo, è più bella di quella che poteva essere».
Finestre «Ho cambiato tante case, ma non ce n’è stata una che non avesse una finestra, uno straccio di cielo qualunque che si affacciasse sui tetti delle città dove ho abitato e da dove ascoltavo, controllavo, cercavo i battiti dei vostri cuori, i vostri respiri, le vostre bestemmie, il rumore dei vostri sogni, i misteriosi piccoli delitti quotidiani e le miracolose nascite che tutti i giorni Dio ci manda e che avvengono sotto i cieli di tutti i paesi e delle città nelle notti coperte di stelle» (parole finali di un testo scritto da Lucio Dalla con lo stesso titolo della canzone Agnese Dellecocomere) (Assante e Castaldo, cit.)
I due Luci di Massimo Zamboni su la Lettura
Il medesimo nome di battesimo. Lucio. Un solo giorno di distanza all’anagrafe: 4 marzo 1943-5 marzo 1943. Poco altro parrebbero avere in comune Dalla e Battisti, se si esclude la capacità di penetrare a fondo nella vita quotidiana di milioni di ascoltatori. A ognuno di noi – volente o nolente – una loro canzone ha attraversato la vita, cambiandola in qualche modo, amplificandola, evidenziando una voglia o un guaio.
Ho conosciuto Dalla nel medesimo istante in cui lo hanno conosciuto gli italiani. Era il 25 febbraio 1971, il luogo era il Festival di Sanremo; dal palco dell’Ariston alle case del Paese scorrevano le canzoni che hanno definito quell’epoca, presentate ancora in bianco e nero per un buon numero di anni. C’erano tutti: Nada e Nicola di Bari – tra un paio di giorni vincitori di quell’edizione con Il cuore è uno zingaro – Al Bano, Caterina Caselli, Antoine, Adriano Celentano. Assieme a loro tutti i grandi del periodo, e quando entra in scena Dalla pochi sarebbero stati disponibili a scommettere su di lui. C’era stata una sua dimenticata apparizione al precedente Sanremo 1966 con una canzone dal titolo bizzarro – Pafff... Bum! – cantata con una grinta da urlatore che non lo aveva salvato dallo scivolare nella lista indifferenziata dei non ammessi alla finale; nonostante l’abbinamento, secondo il costume dell’epoca, con il leggendario gruppo inglese degli Yardbirds.
Il Dalla che si presenta ora sul palco sembra più composto, in un elegante maglione bianco, un basco, barba non proprio coltivata, le mani dietro la schiena. Al suo fianco il violinista Renzo Fontanella e il quartetto vocale dei Cantori moderni condotti da Alessandro Alessandroni, il più celebre fischiatore della musica italiana. Comincia Fontanella, alle prese con un riff insuperabile, e quando la telecamera inquadra Dalla che inizia a sciorinare il suo racconto cantato, l’Italia si innamora di quel personaggio così fuori posto e di quella canzone in qualche modo poco raccomandabile.
«Dice che era un bell’uomo e veniva/ veniva dal mare» l’incipit che tutti imparano, la storia di quella ragazza che si lascia conquistare da un marinaio senza nome da cui aspetterà un figlio. Uno scandaloso padre ignoto mai più ritrovato, poiché verrà presto ammazzato; peggio ancora – secondo scandalo – nessun senso di colpa da parte della giovanissima madre, anzi un’accettazione gioiosa di quella gravidanza da cui nascerà un figlio che porta inciso un terzo scandalo nel nome con cui la gente del porto lo conosce: Gesù Bambino.
Nell’Italia di allora era una combinazione deflagrante, tanto che i dirigenti del festival imporranno alla canzone – pena la non ammissione – il titolo con cui ancora oggi la conosciamo: 4 marzo 1943. Data di nascita di Dalla, metaforico Gesù Bambino barbuto e trasandato, che confesserà nelle mille apparizioni che accompagnano il Festival il suo essere ingovernabile. Mi sembra ancora di ricordare un testuale «Sto a tavola come una bestia» pronunciato nel corso di una intervista; sciocchezze, se si vuole, per un’Italia squassata dalle rivolte, ma capaci di turbare nel profondo un Paese che preferiva ritenersi educato e perbene.
Parte di quel turbamento arriva anche a noi, ragazzini in cerca di qualcosa che non si sapeva dire, qualcosa che sarebbe arrivato a breve e d’oltreoceano o d’oltre Manica e ci avrebbe sconvolti portandoci lontano da quella canzone italiana che poi il tempo futuro ci avrebbe insegnato a non sottovalutare; anzi, a recuperare come memoria collettiva.
Niente più Dalla per noi per un numero considerevole di anni, fino a che un’iniziativa di solidarietà lo porta a presentare il suo nuovo album Automobili all’interno di una fabbrica reggiana, il calzificio Bloch, protagonista di una delle più lunghe occupazioni che la storia operaia ricordi, dal maggio 1976 all’aprile 1978. È in mezzo a quella folla di operaie coraggiose, di studenti e di militanti, che ci sembra di ritrovarlo vicino come qualcosa di nostro, capace di svincolarsi dal mondo dorato delle televisioni.
A tutto il resto della sua carriera occorre arrendersi: la popolarità – anche la grandezza – di Piazza grande, Come è profondo il mare, Disperato erotico stomp, L’anno che verrà, Attenti al lupo – poco sopportabile, ma tutti la cantano – proiettano Dalla su scenari multiformi e sempre alti; fino a Caruso, davanti alla quale ci si può solo inchinare per la maestria espressa nell’incorniciare il Mediterraneo. Se tutto questo non bastasse, la bolognesità incisa sul suo volto ce lo farebbe amare in ogni caso, per quella sua aria da capoluogo emiliano capace di attrarre tutta una regione a sé, da Ron a Roberto Roversi, a Gianni Morandi, al fotografo Luigi Ghirri, a Samuele Bersani, ad Angela Baraldi, a Mauro Malavasi, agli Stadio e chissà a quanti altri che sto colpevolmente trascurando.
Quasi agli antipodi l’altro grande Lucio: Battisti. Nessuna identificazione geografica per lui, quasi apolide nella sua a-regionalità in un mondo musicale ancorato a stretti legami provinciali, dalla Genova dei cantautori alla Napoli delle tammuriate e della tradizione, al Meridione di Domenico Modugno, alla Milano di Giorgio Gaber e Nanni Svampa. L’Italia bigotta e soffocante che ossessiona schiere di cantautori da Gino Paoli a Luigi Tenco fino a Fabrizio De André non fa da sottotesto alle sue canzoni. Nessuna pantera di Goro, nessun usignolo di Cavriago, nessuna aquila di Ligonchio: Battisti sembra stare a sé, simile solo a sé, umbratile e sofferto anche quando sorride.
Non è di stoffa adatta alla pressione di Sanremo – un’unica partecipazione per lui nel 1966 con Un’avventura – piuttosto è artista da Canzonissima, da sabato sera in famiglia, da contatto intimo, qualcosa che scivola nei cassetti segreti di più di una generazione. Lo ritroviamo puntualmente ogni settimana nella classifica radiofonica della Hit Parade di Lelio Luttazzi, programma che da ragazzini seguivamo con quella fede quasi religiosa che eravamo disposti ad attribuire soltanto al 90° Minuto dedicato al calcio.
È su quelle frequenze che Battisti svetta, in particolare con Pensieri e parole, in classifica per 25 settimane. «Che ne sai di un ragazzo per bene/ che mostrava tutte quante le sue pene»; ecco qua Battisti, raccolto in un’unica frase di canzonetta. Quelle pene mostrate sono le stesse di una moltitudine di adolescenti non ancora toccati dagli accadimenti d’intorno, colonne sonore di uno sgomento prepolitico che ognuno poteva adattare a sé. Un’introversione che in lui mai si estinguerà e che farà da propulsore a una reazione di segno opposto, incarnata in canzoni che – fuori dalle tempeste di quegli anni di tumulto – restano ancora oggi memorabili per la penetrazione melodica, gli arrangiamenti, il gusto musicale, l’unicità canora.
E poi l’incastro con i testi di Giulio Rapetti, cioè Mogol, capace di infilare parole in schemi metrici tutt’altro che semplici con una facilità disarmante. Sembra pescarle ovunque e con disinvoltura assoluta, una collezione di istantanee rilasciate in pura funzione di rima, senza preoccuparsi di un senso definito; e alla fine paradossalmente il loro suono diventa il loro senso. «Tu lo chiami solo un vecchio sporco imbroglio/ ma è un abbaglio/ è petrolio»: frasi sibilline che tutti cantano, poiché si cantano da sé. E in questo si condannano.
Già, perché c’è tutto un mondo che trova non tollerabile l’ascolto di quelle canzoni che minacciano di insinuare uno slittamento sentimentale nella rigidità delle convinzioni militanti di allora: Battisti e Mogol vengono giudicati obiettivamente reazionari da tanti tribunali del popolo. L’istanza femminista ridicolizzata da Dieci ragazze per me, il fastidio cantato per quella emancipazione – che in loro prende nomi di comodo, Linda, Francesca – e che pretende eguaglianza, parità; quelle loro bambine dalle gote arrossate che vogliono farsi donna, quel passaggio dall’innocenza pre-sessuata al mare nero dell’esperienza: tutte immagini che non si possano accettare, vestali di un’Italia arcaica da dimenticare. Oppure accade il contrario esatto, la Lucia di Luci-ah che pretende di provare tutti gli uomini del paese prima di scegliere quello adatto a lei, caricatura scanzonata dell’ansia di soggettività in circolo in quegli anni.
Neppure l’immagine grafica lascia indifferenti. Prendiamo la copertina di Il mio canto libero, il suo album del 1972. Potrebbe essere un titolo da impegno civile; invece no, la fotografia propone tante braccia nude che si sollevano a mano spalancate verso il cielo, quasi un oltraggio per tutti quelli che – e siamo in tanti – inneggiano alla libertà vera con la mano destra racchiusa a pugno. Più le radio impazziscono per quelle canzoni, più le scansiamo, eppure ci troviamo nostro malgrado a fischiettarle soprappensiero, in un rilassamento involontario alle ragioni del nemico. Chiamiamolo mistero, e accettiamolo come tale.
Oggi infine, che liberamente ascoltiamo Battisti senza pastoie ideologiche, ci sembra di dover ammettere che qualcosa in quegli anni poco sorridenti ci siamo persi.
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