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 2023  marzo 20 Lunedì calendario

Ritratto al veleno di Carlo De Benedetti

Siamo un Paese di vecchi e malato di continuismo, per cambiare il quale occorre una nuova Radicalità, come da titolo del nuovo libro di Carlo De Benedetti, uno che va per i 90 ed è dagli anni ’70 il faccione bofonchiante di quella classe padronale dell’Italia capitalista che con il suo dilettantismo politico e l’avidità di ricchezza ha falcidiato l’Italia, facendo dell’intreccio malato tra finanza e informazione – ieri come oggi e Domani – la ricetta di un potere che ha scavalcato il secolo e due Repubbliche. Però dice che «Elly Schlein è giovane e ha tutte le doti per fare bene». Che è il bacio della morte offerto da un seducente Mefistofele – per la sinistra che sogna una grande Ztl eco-socialista, città 30 all’ora e turbo-liberismo, diritti individuali e doveri collettivi, pubbliche rivendicazioni e poi tutti nel board della banca privata dei Rothschild. Ah: il libro (giusto per dire gli attorcigliati sentieri politico-editoriali di quest’Italia di affari&consorterie) è pubblicato dalla Solferino di Urbano Cairo, uno che De Benedetti reputa un amico ma considera un coglione, e intanto però, per smarkettarlo in tv, fa il giro delLa7 chiese: Lilli, Giletti, Piazzapulita e la coscienza sporca di chi dice: «Pago le tasse in Svizzera ma faccio beneficenza in Italia». Italiano con due passaporti, residenza civile a Dogliani (Cuneo, perché siamo tutti uomini di mondo) e domicilio fiscale tra Lugano e Sankt Moritz (perché chi non ha uno chalet in Engadina?), case fra il Piemonte, Roma, buen retiro a Marbella e quartierino a Montecarlo, propaganda arcobaleno ma maggiordomi di colore, una sontuosa collezione di orologi, «soprattutto Patek Philippe e vecchi Rolex», come tutti i veri comunisti, Carlo De Benedetti è il vero showrunner della dynasty del capitalismo italiano colpito dalla sindrome di Buddenbrook, un infinito gioco d’azzardo, saltando dall’industria alla finanza e viceversa, senza mai un finale all’altezza del prologo. Sempre però difendendo la sacralità del lavoro, degli altri, e del profitto, il proprio. Partiti politici portati al guinzaglio, anche se la tessera Numero Uno del Pd è solo una boutade, stampa scritto minuscolo – compiacente, e poi scalate, vendite, acquisizioni, investimenti, giochi spregiudicati in Borsa quando l’uso di informazioni privilegiate non era neppure reato, e a dire il vero anche quando poi lo è diventato (si dice «amico di Renzi», si scrive «Insider trading»), Carlo De Benedetti – che a un certo punto ha preferito staccare il cognome originario, Debenedetti, così da sfoggiare un de nobiliare minuscolo, come un de Bortoli qualunque – è la quintessenza dell’Azionariato di Riferimento: Opa, contro-Opa e galoppate selvagge sui listini degli anni Ottanta, Novanta e oltre, senza mai avere paura di niente. Tra i bot people e i barconi di immigrati, sempre meglio i primi. Fiuto negli affari, gusto dell’azzardo, doppiogiochismi finanziari, anguillismo giudiziario e un debole per i poteri forti. Come dice chi lo conosce bene: quando «Attila» vede un affare lascia da parte qualsiasi forma di galateo e diventa un predatore. Carlito’s way, alla maniera di De Benedetti. Domanda. Perché si danno alla politica tutte le colpe di questo debenedetto Bel Paese ma sulle responsabilità dei moschettieri del nostro capitalismo persevera invece una ruffiana reticenza? Reticente a parlare di sé, intelligente, furbissimo, arrogante, coraggioso al limite del temerario fino al rischio di lasciarci penne e bretelle, imprenditore pragmatico e finanziere flamboyant, CDB per acronimo e «Ingegnere» eponimo, Carlo De Benedetti ha sempre avuto un’ossessione: costruire – e distruggere – in una generazione quello che altri hanno creato in due, tre, quattro... Ritenendosi successore di Adriano Olivetti senza esserlo. Con l’ambizione di apparire il contraltare di Agnelli credendoci. E finendo con l’assomigliare a Berlusconi soldi, politica, donne e giornali, solo meno simpatico e più di sinistra. Comunista in dialogo con Berlinguer e poi con D’Alema, un padre ebreo (askenazita ormai non si può più dire, ma sefardita?), torinese ma juventino – azionismo, spirito di Comunità, la villa in collina, pensiero laico e culto dei Bobbio e dei Galante Garrone Carlo De Benedetti parte da una boita, la fabbrichetta di famiglia, pochi operai ma molte ambizioni, e ne fa una holding di successo. Da lì nel 1976 arriva come amministratore delegato in Fiat, dove lo chiamavano «Tigre» per l’aggressività e il licenziamento facile, ma resta cento giorni. Lui, a posteriori, si giustificò: «Non si può costruire auto con dei coglioni». E Umberto Agnelli rispose: «L’unico suo lascito è il ristorante per i manager, che abbiamo chiamato Il resto del Carlino». Il resto, è Storia. Arriva in Olivetti nel ’78 trasformandola da azienda meccanica in elettronica, evolvendola in Omnitel e uscendone nel ’97. Après nous, le déluge. La abbandona moribonda, e dietro di sé le macerie. Poi trionfi e cadute. Lo schianto contro la Société Générale de Belgique. Il coinvolgimento nella bancarotta del Banco Ambrosiano. L’epica ed edipica guerra di Segrate per il controllo della Mondadori, persa. Lo scandalo di Poste italiane e la carcerazione-lampo per Mani Pulite. I giorni neri di Sorgenia e poi quelli rossi di Repubblica, il giornale-partito che guida la ventennale crociata antiberlusconiana; l’amore-odio con Eugenio Scalfari (del quale poi disse «Gli ho dato un pacco di miliardi, è un ingrato»), il gruppo Gedi regalato dai figli a John Elkann («Come editore è pessimo. Repubblica ormai è un giornale distrutto»), però poi fonda Domani, un Foglio per principianti, quando per l’intellighenzia cambiare Ezio Mauro con Stefano Feltri sarebbe stato più umiliante che passare da Draghi alla Meloni. Cose che Carlo De Benedetti detesta: la Meloni; i sindacati; la Consob; Mps; il ricordo di Cuccia, ma anche quello di Craxi; l’amianto (ma oggi adora il green); Prodi; il ragionier Colaninno; Marco Tronchetti Provera; le diseguaglianze sociali (no, dài: questa è una cazzata). Di sicuro, i tre figli. Cose che Carlo De Benedetti adora: le privatizzazioni; le plusvalenze; giocare a Risiko, ma con le aziende invece che con i carri armatini; la pasta al dente Buitoni; i Baci Perugina («Buoniiii!»); la patrimoniale (stiamo scherzando, dài...); battere bandiera delle Cayman; la Sardegna, la fig*; raccontare barzellette sugli ebrei («Te l’ho detto che è un Berlusconi di sinistra»); la serie tv Succession; il Corviglia Ski Club di Sankt Moritz; la frase «Le élite hanno fallito»; i vigneti, da cui lo slogan «falce&Brunello»; farsi intervistare da Lilli. Marinaio (sullo yacht con cui ha fatto il giro del mondo due volte con la moglie, i Lerner, i Rampini, le Gruber, i lecchini e le madame milanesi), ex alpino (soldato semplice), scalatore (finanziario)... le auto, l’informatica, l’energia, i telefonini, il business immobiliare... quante cose, e come passa il tempo... L’Olivetti è sparita, Repubblica non è più sua, coi figli ha litigato, Scalfari se n’è andato (dopo che fece in tempo a dire che preferiva Berlusconi a Di Maio) e De Benedetti si è ridotto a tifare Elly Schlein. E potremmo continuare... «Ah, no! Navuma basta».