La Stampa, 20 marzo 2023
Il battaglione dei cappellani
Alle 9 meno venti la riunione è già cominciata. «Don Coccodrillo» benedice gli ultimi arrivati nel covo dei cappellani. Siamo nel retro del retro di un capannone di Zaporizhzia che cade a pezzi. Oltre file di bancali di derrate alimentari, trovi il Battaglione pronto per partire. Una piccola riunione, poi si va al fronte. Pastori ortodossi che sembrano soldati, mogli, figli piccoli, gatti e ospiti stranieri: noi, un giapponese e un ex ministro britannico del governo Cameron, benefattore che porta soldi per evacuare migliaia di ucraini. Sediamo tutti insieme, sui divanetti consumati, tesi e muti attorno a lui, il “mastino di Dio”, Gennady Mokhnenko, il capo del Battaglione cappellano di Mariupol. Una preghiera dalla Bibbia e la parola passa agli altri religiosi, per organizzare la giornata di guerra e raccogliere le richieste dei soldati: «Vogliono che ci fermiamo di più con loro, almeno una settimana, hanno bisogno di conforto», dice sommessamente uno dei sacerdoti, in mimetica. Nessuno indossa abiti talari ortodossi, non ci sono croci esibite.
Gennady, prete-eroe fuggito dalla città martoriata del Donbass, prende nota. La sua voce è un tuono. Il carisma del leader riempie la stanzina riscaldata. «Fa che non ci accada nulla, ieri ci hai protetti, Dio, aiutaci anche oggi. Rimanda il nemico nella sua terra», recita, per dare la carica. Saluti, pirozhki caldi (pane fritto con la carne) in tasca e il gruppo si divide su tre pick up carichi di aiuti umanitari, coperte, vestiti, cibo, generatori: oggi si va verso il fronte Sud, a Orechiv, una tappa dai tanti civili rimasti sotto le bombe, a tre chilometri dalla linea nemica, poi dritto dai militari. «Ci muoviamo dove hanno bisogno di noi», commenta Yevgen Yakushev, cappellano ucraino che vive a Londra e porta un peso enorme sul cuore, dall’invasione di Mariupol: sua madre è rimasta uccisa in un incendio, il suo corpo è stato ritrovato a fatica, martoriato. Anche Gennady ha perso l’amore a Mariupol, la sua figlia adottiva, Vika. Aveva 26 anni e un bimbo piccolo. Le hanno sparato i russi da un tank, macelleria criminale andata in scena nelle prime settimane dell’occupazione: «Io sono certo che abbiano ammazzato 100 mila civili nella mia città», dice don Coccodrillo con voce straziata. Lui si è scelto questo soprannome, il regista Usa Terrence Malick l’ha reso famoso, con un film su di lui “Almost holy” (quasi santo). È ispirato a un cartone animato dell’era sovietica, il muppet Kermit, supereroe che rimette a posto il mondo. È stato anche sul red carpet di Hollywood Gennady, otto anni fa: «Venivo dalla prima linea, non facevo la doccia da tre giorni», scherza quest’uomo, che ha la stazza di Schwarzenegger e la generosità come missione. A Mariupol aveva aperto un orfanotrofio per bimbi strappati alla strada e alla droga, dopo il crollo dell’Urss. Tra loro, ne aveva adottati 36, che si aggiungono ai suoi tre figli biologici. «Alla fine di quest’anno ci riprendiamo il Donbass», giura Yevgen. E il leader: «Quando ritornerò a casa, mi inginocchierò per ringraziare Dio. In questa guerra è così chiaro dove sta, sta con noi, con gli aggrediti innocenti. Prego per i nemici, che si pentano per sempre per quello che stanno facendo».
Il Dio della guerra, il Dio nella guerra. Ma nonostante l’orrore e il dolore vissuto nell’ultimo anno, gli angeli del Battaglione cappellano, 80 persone di cui 15 preti, non si stancano di dare soccorso. Alla nostra destra c’è la linea nemica, sulla strada che da Zaporizhzia va al Donbass. Il Toyota Hilux corre velocissimo tra le buche, ha un passaggio privilegiato ai check point. Quando i pastori arrivano a Orechiv, è festa tra gli anziani che li attendono. Restano 1900 civili, molti sono invalidi, non vogliono lasciare la casa, è tutto ciò che hanno. Alcune donne si sono truccate, gli uomini abbracciano don Coccodrillo e il figlio Artiom. «Sono venuta a prendere le medicine: tranquillanti per dormire, non ci riesco più. E pastiglie per il cuore», dice Irina, mentre ci mostra la casa del vicino, bombardata, e confessa: «Ho imparato a riconoscere i Grad, le bombe a grappolo, gli spari della nostra artiglieria dal suono, tutto da sola». Il marito Olexyi aggiunge: «Ogni giorno raccolgo pezzi di missili per la strada. Non ho un bunker. Spero che i russi non tornino a casa vivi». Sono una delle atroci eredità del conflitto, le malattie cardiache. La notte ad aspettare di essere vivi il giorno dopo è un destino che alla lunga spezza i nervi e il cuore, non solo dei vecchi.
Nel villaggio resta il tempo per un’invocazione a Dio: «State vivi, resistete». Poi Gennady raduna le truppe del bene e ripartiamo. Un giro nel centro della città, deserto, ridotto a un cimitero di macerie. Destinazione trincee, dagli amici della 23ª Brigata della guardia nazionale, a cui il cappellano porta acqua, dolci e sughi, generatori e due Ipad per pilotare i droni. Ci invitano a pranzo giù nel blindaggio. Il comandante Konstantin illustra il loro compito: «Sorvegliamo gli arrivi del nemico e diamo le coordinate. Dopo 35 e 60 secondi, le bombe saranno su Zaporizhizia. Se riusciamo a intercettare le posizioni russe, possiamo attivare il sistema di difesa». Qualche tempo fa, la sua Brigata ha scoperto delle spie: «Al via, apriamo il fuoco. O scappano, o muoiono», spiega il comandante.
Sottoterra, la tavola è apparecchiata con tovaglie di plastica, alle pareti la tv accesa e i disegni dei bimbi recapitati al fronte per Natale: «Non vedo la mia famiglia dal 28 febbraio 2022 – rivela Konstantin –. È in Italia, a Savona. Sa ben poco di quel che faccio qui. Prima della guerra non ero militare, ero un imprenditore di frutta e verdura, si viveva bene». Il cuoco serve borscht per tutti e purea col lardo. Sono concessi solo pochi minuti di ristoro. Sulla via del ritorno, Gennady racconta di quante volte un missile gli è piovuto a pochi metri di distanza. Sembra un dio greco che incute reverenza, ha il cinismo esorcizzante di chi ne ha viste troppe. Ma quando gli chiediamo dei figli, gli occhi si illuminano: sette sono a combattere, cinque lo aiutano nella charité. Ha paura per loro? Di colpo, silenzia la voce potente e ammette: «Ho paurissima. Ho proibito di chiamarmi di notte, mi preoccupo troppo». Uno di loro è ferito, ha perso una mano e ha schegge di metallo sul volto e negli occhi: «Io li avevo educati per viaggiare, non per fare la guerra». —