la Repubblica, 20 marzo 2023
Intervista a David Petraeus
NEW YORK – «Non c’è paragone». Sobbalza l’ex direttore della Cia David Petraeus, quando gli ricordi la versione dei putiniani, secondo cui la Russia sta facendo in Ucraina quanto gli Usa fecero in Iraq: «Io c’ero, fummo accolti da liberatori. Errori massicci furono commessi dopo e sono pronto a riconoscerli, ma la maggior parte degli iracheni voleva rovesciare il brutale regime di Saddam, mentre la maggioranza degli ucraini combatte Putin».
Lei era il comandante della forza multinazionale in Iraq durante la “Surge”. Perché la ordinò?
«LaSurge (l’aumento di truppe contro la guerriglia irachena, ndr )ha funzionato, facendo scendere la violenza di oltre l’85% in 18 mesi, perché abbiamo cambiato strategia, puntando sulla sicurezza delle persone, vivendo con loro, presidiando e riedificando le aree.
Abbiamo ricostruito le forze di sicurezza irachene, dopo aver rimosso i leader settari violenti; promosso la riconciliazione tra la manodopera dei gruppi ribelli e della milizia sciita; perseguito senza sosta i leader di Al Qaeda, i rivoltosi e i miliziani estremisti; riformato le nostre operazioni con i detenuti; integrato gli aspetti civili e militari della campagna. La continuazione della strategia dopo laSurge ha portato a un’ulteriore riduzione della violenza nei successivi 3 anni e mezzo, fino a quando gli ultimi soldati americani hanno lasciato l’Iraq a dicembre 2011».
Cosa pensa del modo in cui si ritirò la Forza Multinazionale?
«I risultati raggiunti durante laSurgesono stati mantenuti e persino migliorati nei successivi 3 anni e mezzo. Dopo i miei quattro anni in Iraq come generale a due stelle, tre stelle e quattro stelle, ho avuto il privilegio di osservare gli ulteriori progressi come capo del Comando centrale Usa, e poi comandante in Afghanistan e direttore della Cia».
La fine della missione ha aperto la strada all’Isis?
«Avrei preferito una presenza duratura delle forze combattenti, come gli addestratori rimasti in Iraq, ma si è rivelato impossibile.
Indipendentemente da ciò, a invertire i progressi e innescare una nuova spirale di violenza settaria non è stata la partenza delle forze Usa. Piuttosto sono state le azioni intraprese alla fine del dicembre 2011 dal premier sciita Nouri al-Maliki a infiammare la popolazione sunnita, quando ha seguito la strada delle accuse legali contro la più importante figura politica sunnita, il vicepresidente Tariq al Hashemi, il principale membro sunnita del gabinetto, il ministro delle Finanze, e un alto leader del Parlamento. Ciò ha scatenato enormi manifestazioni sunnite, represse violentemente dalle forze di sicurezza in gran parte sciite, infiammando ulteriormente la situazione. Così il tessuto della società, che avevamo faticato a ricostruire, è stato nuovamente lacerato. Nel mezzo di tutto ciò, quando le forze di sicurezza irachene hanno distolto lo sguardo dallo Stato islamico, l’Isis è stato in grado di ricostituirsi, ottenere potere e risorse in Siria, e quindi stabilire il califfato. Ciò ha richiesto il nostro ritorno, ovviamente, per consentire alle forze irachene e siriane di eliminare il califfato e distruggere l’Isis come esercito, sebbene elementi ribelli e terroristici siano ancora presenti in piccolo numero».
Due argomenti erano stati usati per l’operazione in Iraq: le armi didistruzione di massa e il fatto che la strada per la pace e la democrazia in Medio Oriente passava attraverso Baghdad. Le armi non sono state trovate, e anche dopo la Primavera araba la democrazia nonè fiorita in Medio Oriente. Pensa ancora che l’invasione fosse giustificata?
«È facile porsi simili domande col senno di poi, ma tale chiarezza non c’era nel 2002/03. Ho scritto troppelettere di condoglianze alle madri e ai padri dei nostri soldati per rispondere a questa domanda.
Riconosco i massicci errori commessi lungo la strada. Il più significativo è stato licenziarel’esercito iracheno, senza dire come avremmo consentito di provvedere alle loro famiglie, e la de-ba’athificazione senza una politica concordata di riconciliazione. Queste due decisioni dell’ambasciatore Bremer, nel maggio 2003, sono state disastrose e ci hanno riportato indietro di molti anni, fino a quando non abbiamo condotto la riconciliazione nazionale come parte della Surge.
Lungo il percorso sono state apprese dure lezioni, fino a quando non abbiamo sviluppato il manuale sul campo per la controinsurrezione; migliorato la preparazione delle nostre unità, i leader e l’organizzazione per il dispiegamento delle forze; implementato la giusta strategia con laSurge.Spero che non dimenticheremo queste lezioni, perché anche se ora stiamo spostando l’attenzione su Indopacifico ed Europa orientale, continuiamo ad assistere i partner locali che combattono ribelli e terroristi, in Iraq e nel nord-est della Siria. Infine, non dimentichiamo che ci sono state cinque transizioni pacifiche in Iraq dal governo ad interim del 2004. Sebbene ci sia stata ripetutamente una governance inadeguata, corruzione, nepotismo, servizi insufficienti e periodiche sfide alla sicurezza, ci sono anche la libertà e una vivace società civile, rare in quella regione».
Non teme che l’Iraq diventi un satellite dell’Iran?
«Sono moderatamente ottimista sul fatto che sotto il nuovo premier ci saranno miglioramenti e azioni intraprese per colmare le carenze che ho appena notato. L’ho incontrato a febbraio alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco e ne sono rimasto colpito.
Ha scelto di mantenere le forze americane in Iraq e ha descritto gli Usa come partner strategico. Deve avere una relazione con l’Iran, ma non vuole che Teheran raggiunga l’obiettivo di “libanizzare” l’Iraq, cioè stabilire una forza molto potente nelle strade tipo Hezbollah, e ottenere un veto per bloccare il Parlamento».
Da Abu Ghraib alle elezioni presidenziali del 2008, quale effetto ha avuto la guerra in Iraq sulla società americana?
«È stata un ammonimento per gli Usa e i politici. Chiaramente gli ambiziosi obiettivi in Iraq non sono stati tutti raggiunti, come in Afghanistan o Libia. Quindi queste esperienze temperano le ambizioni di Washington. Detto ciò, l’impressionante risposta degli Usa all’invasione dell’Ucraina ha dimostrato che siamo ancora la nazione indispensabile».
Alcuni affermano che non c’è differenza tra l’Iraq e l’Ucraina.
«Non c’è paragone. Gli iracheni hanno applaudito e festeggiato quando abbiamo rovesciato il regime brutale, omicida e cleptocratico di Saddam Hussein.
Ero lì e l’ho visto. Ero parte dell’invasione, come generale al comando della 101ma Divisione aviotrasportata, e siamo stati accolti molto calorosamente dal popolo.
Questo non è stato il caso della brutale e ingiustificata invasione dell’Ucraina. In effetti, nessuno ha fatto di più per la causa del nazionalismo ucraino di Vladimir Putin. La grande ironia è che proponendosi di rendere la Russia di nuovo grande, ha effettivamente reso di nuovo grande la Nato».