Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  marzo 20 Lunedì calendario

Intervista a Manuela Mennea

Domani sono dieci anni dalla morte di Pietro Mennea (21 marzo 2013). Manuela come verrà ricordato a Roma suo marito?
«Con un tributo voluto dal ministro Abodi. Iniziamo alle 10,01, il tempo di Pietro sui 100, allo Stadio dei Marmi. Ci sarà anche un video inedito, uscito dall’archivio di Gianni Minà: l’incontro tra Mennea e Tommie Smith alla Casa del Cinema, credo fosse il 2008. Aspetto gli amici e le persone comuni, che dieci anni dopo la sua morte ricordano ancora Pietro con affetto».
L’affetto da dove origina?
«Ancor prima che dai risultati e dalle medaglie, dal modo di Pietro di vivere la vita, dal suo messaggio (se ce l’ho fatta io, può riuscirci chiunque), dalla sua disponibilità. Gli insegnanti mi mandano i temi dei ragazzi: mio marito è stato d’esempio».
Dietro la maschera di serietà, sapeva scherzare.
«La leggerezza l’aveva dentro, ma non la mostrava per paura che fosse scambiata per debolezza. Con me se la permetteva. La cosa che mi manca di più è la condivisione. Leggeva cinque quotidiani al giorno, più tutto il resto, incluso Cicerone. Stava su di notte, con la luce accesa, tenendomi sveglia. E quando si addormentava, al buio, cominciava il tonfo di libri e giornali che, girandosi, cadevano dal letto».
L’ossessione per la conoscenza: si è mai placata?
«Mai, era curioso di tutto. Aveva due passioni: l’attualità e la storia latina e greca. La quarta laurea, l’ultima, la prese in lettere a 50 anni. Perché Pietro, gli chiesi. Perché amo la materia, rispose. Era pazzo di mio cugino, che insegna storia greca alla Sapienza».
Che fine hanno fatto titoli, coppe, medaglie e libri?
«Abbiamo dovuto comprare un appartamento apposta. Quando Pietro è mancato, sono scesa a chiudere la casa di Barletta con nove amici: siamo tornati a Roma con 60 scatoloni di roba».
È vero che, quando vi conosceste tramite amici comuni avvocati, lei non sapeva chi fosse Mennea?
«A malapena. Mio fratello, che era un suo tifoso, mi mise una certa agitazione: vedrai che viene a prenderti con un macchinone... Arrivò con una Panda bianca, guadagnando subito punti! All’inizio ero refrattaria: lo vedevo così lontano da me. Siamo stati insieme sette anni, senza convivere. Poi ci sposammo in un mese, il giorno del suo compleanno. Tempo dopo disse: se avessi saputo che sarebbe stato così bello, l’avrei fatto prima».
In un mondo troppo social in cui si condivide tutto, ancora oggi colpisce la riservatezza con cui Mennea visse la malattia che lo portò via a 61 anni da compiere.
«Dovetti forzarlo perché lo confidasse alla sorella... Dopo, glielo diremo dopo, insisteva. Per Pietro l’unico modo possibile di combattere il tumore era credere che lo avrebbe sconfitto. Il male l’ha vissuto come ha voluto lui».
Jacobs, Tortu, la staffetta 4x100 oro ai Giochi di Tokyo. Sarebbe piaciuta a Mennea questa straordinaria generazione di velocisti che ha riscritto la storia del suo sport?
Fame di conoscenza
Una casa solo per libri e coppe. Ha rifiutato i soldi de La Fattoria: «Ho un convegno di avvocati...»
«Con Filippo siamo amici di famiglia, Pietro lo incontrò bambino in Sardegna; Jacobs lo avrebbe bersagliato di domande: come ti alleni? Quante volte? In che modo? Nulla si improvvisa nell’atletica. Quelli dell’Italia a Tokyo sono ori che arrivano da lontano. Pietro vinse la prima medaglia alla terza Olimpiade: dietro c’era l’impressionante mole di lavoro con Vittori, resta tutto scritto nelle sue agende. Avessi avuto io le leve lunghe di Bolt, scherzava, altro che 19”72 avrei fatto nei 200!».
Crede nel destino Manuela? È casuale che il record di Mennea sui 100 (10”01) sia stato battuto la prima volta proprio da Tortu (9”99)?
«Pietro lo stimava e apprezzava. Tutto ha un senso».
Wells, Borzov, Williams: qualcuno degli ex rivali si è fatto vivo in questi giorni?
«Il rapporto ce l’avevano con Pietro, non con me. Lui era amico anche delle persone comuni, il ruolo non gli interessava».
Le dispiace che Mennea non avesse un incarico nell’atletica italiana?
«Appena eletto presidente della Fidal, Alfio Giomi chiamò Pietro. Non puoi restare fuori, gli disse. Ma mio marito era già malato, impegnato nelle cure. Poi Giomi mi disse che avrebbe voluto dargli in mano il settore legale della Federatletica. Troppo tardi, purtroppo: Pietro avrebbe accettato. Poter offrire le sue competenze legali e in materia di sport lo emozionava. Quando assunse l’incarico di dg della Salernitana, per l’agitazione non dormì la notte».
Sfatiamo qualche leggenda. È vero che rifiutò molti soldi per partecipare a un reality televisivo?
«La Fattoria gli offriva quanto non aveva guadagnato in vent’anni di atletica. Si divertì a rilanciare, contrattò per qualche giorno, ben sapendo che non avrebbe mai detto sì. Poi chiamò il responsabile della trasmissione: la ringrazio ma domani ho un convegno di avvocati europei in Cassazione, non mi sembra il caso. La dignità non ha prezzo».
È vero che faceva una vita da asceta?
«Non beveva alcol né acqua gassata né bevande fredde ma mangiava come un lupo. Pasta al forno prima di un record italiano allievi: me lo raccontò ridendo».
Per strada, se riconosciuto, si scherniva: non sono Pietro Mennea, sono solo uno che gli somiglia.
«Le gag erano varie. Lei si chiama come il campione? E Pietro: beato lui, che pensava a correre e basta».
Un figlio: ci avete mai pensato?
«Pietro si sarebbe sciolto: adorava i bambini. Di certo non avrebbe fatto il velocista: troppo peso addosso, con quel cognome. Ma una laurea, come minimo una, avrebbe dovuto prenderla».