Corriere della Sera, 20 marzo 2023
Intervista a Furio Bordon, l’uomo che scrisse l’ultimo spettacolo di Mastroianni
Una storiella praghese di più di un secolo fa racconta di due viaggiatori che si incontrano, per la prima volta, in treno. «Ah – dice uno – lei viene da Praga, e quali libri ha scritto?». Dunque è difficile immaginare che si possa nascere e crescere nella città sulla Vltava senza essere uno scrittore. Qualcosa di simile è accaduto con Trieste, la cui identità contraddittoria e sfuggente è stata a lungo affidata, nelle diverse generazioni, ad autori italiani e di lingua slovena e tedesca – quest’ultima meno nota ed esemplarmente studiata da Silvana de Lugnani – i cui nomi suonano come perle di un rosario, Slataper Saba Svevo Joyce Kosovel Bevk Kugy Pahor Michelstaedter Tomizza Rosso, vari autori di oggi e...
È curioso che accanto a tanti nomi manchi spesso, fra i contemporanei, quello di Furio Bordon, un autore che non solo ha scritto dei libri intensi e profondi, ma che a suo tempo, con Le ultime lune e grazie alla risonanza per l’eccezionale interpretazione di Marcello Mastroianni, ha riempito i teatri di mezzo mondo, e che ancora oggi, a trent’anni di distanza, con quel testo e altri continua ad essere rappresentato in Italia e soprattutto all’estero.
Come ricordi – chiedo a Bordon – quel trionfo e il ruolo di Mastroianni? Che rapporto hai avuto con il protagonista della tua opera, quando lo vedevi nascere e crescere nella scrittura e poi muoversi sulla scena, la stessa figura ma non la stessa? Come hai vissuto questa unità-pluralità?
FURIO BORDON – Marcello Mastroianni ha voluto fare Le ultime lune dopo che tutti i grandi vecchi attori interpellati le avevano rifiutate: un testo troppo malinconico, il lungo monologo del secondo tempo è improponibile e via dicendo. Lui invece se n’è innamorato e ha avuto ragione, perché la sua interpretazione è entrata nella leggenda teatrale e ha lanciato quel testo in tutto il mondo.
Lo avevo scritto in un tempo incredibilmente breve: trenta giorni. Mi pareva quasi che si scrivesse da solo, uno stato di grazia eccezionale. Una cosa però so con certezza, in quei trenta giorni io sono diventato il vecchio professore, ho pensato i suoi pensieri, mi sono espresso con il suo linguaggio. Un processo di immedesimazione, se vogliamo, non molto diverso da quello di un attore che entra nel proprio ruolo. Ed è un risultato che non dipende dalla tecnica né dall’esperienza, ma dalla capacità fantastica, che permette di uscire dalla propria realtà per entrare nella realtà di un altro e sentire il suo dolore come proprio. È un processo necessario per creare dei personaggi credibili, che alla fine possono anche staccarsi da te e portarti dove vogliono loro, spesso su strade e soluzioni che tu non prevedevi. E c’è da augurarsi che questo accada, perché allora significa che il tuo personaggio è vivo e tu non stai creando un’artificiosa finzione, ma una verità umana. Ancora oggi, ripensando a Le ultime lune, mi dico: «Ma chi le ha scritte? Non posso essere stato io. Io non sono così bravo».
CLAUDIO MAGRIS – C’è molta differenza fra il tuo teatro e la tua narrativa, spesso grottesca e carnalmente densa, attratta anche dal torbido, dallo scurrile, dal pasticcio primordiale, fangoso dell’esistenza. Penso a La città scura, ma anche ad altri testi narrativi, abitati da un’umanità carnale, sfacciata, dolorosa. Racconti da leggere e rileggere particolarmente oggi, in cui il tema della corporalità dell’uomo è così spesso affrontato in chiave retorica, ideologica.
FURIO BORDON – Alcuni miei lettori hanno spesso dichiarato il loro stupore, potrei dire lo spiazzamento, davanti alla differenza di temperatura fra un racconto e l’altro. Sembra impossibile – hanno detto e dicono – che chi ha scritto Le ultime lune abbia scritto anche A gentile richiesta. Tanto il primo è intriso di tenerezza e ironia, quanto il secondo di crudeltà e di sarcasmo. Ma anche fra i tuoi scritti ci sono grandi differenze fra l’uno e l’altro, sembra difficile che chi ha scritto Danubio abbia scritto anche Alla cieca oppure La mostra, Essere già stati, con la dissoluzione dell’Io, del linguaggio della ragione. Talvolta invecchiando ci si addolcisce, all’eccesso del grottesco si preferisce un senso classico della misura. A te è avvenuto credo il contrario, un’esplosione del pensiero, della ragione, del linguaggio, come in Non luogo a procedere. C’è poi da dire che ogni storia esige una sua temperatura e un suo linguaggio. Tuttavia credo che, in ognuno dei libri che ho scritto, sotto la nota dominante di uno dei miei due registri espressivi risuoni anche l’altro...
CLAUDIO MAGRIS – Sì, un discreto «basso continuo» che addolcisce la durezza in un caso e nell’altro impedisce alla tenerezza di cadere nello sdolcinato...
FURIO BORDON – Tempo fa la mia assistente, Gioia Battista – anche lei scrittrice e dunque preziosa interfaccia —, dopo avere letto un mio nuovo libro, aveva detto: «Anche questa volta la tua cifra è inconfondibile, un cocktail dolceamaro di tenerezza e cinismo». Mi auguro di cuore che avesse ragione.
CLAUDIO MAGRIS – Come senti la tua posizione oggi a Trieste? Il tuo ruolo nell’attuale letteratura e cultura triestina?
FURIO BORDON – Talvolta mi sento chiedere come spiego che a Trieste la mia figura professionale sia praticamente scomparsa. Non me lo spiego, anche se in parte può essere stata colpa mia, perché non ho mai fatto nulla per apparire e nemmeno mi piace. Posso solo registrare, con una punta di divertimento, alcuni fatti: negli ultimi trent’anni il Teatro Stabile con i suoi vari direttori ha prodotto di sua iniziativa un mio solo testo: La notte dell’angelo. Quasi tutti i miei copioni teatrali, compresi alcuni inediti di buon livello, si trovano nell’archivio del teatro, ma nessuno degli ultimi direttori ha mai pensato di metterci il naso. Quanto alle regie, negli ultimi trent’anni me ne sono state chieste due. Non una gran media direi. Ma non importa. Io ho scelto di vivere a Trieste per la sua luce di mare, e quella c’è sempre.
CLAUDIO MAGRIS – E i tuoi rapporti con il mondo del teatro, in generale?
FURIO BORDON – Ho avuto molti cari amici nel mondo del teatro. Non li posso citare tutti, ma qui voglio ricordare almeno Gastone Moschin, un grande attore per niente facile, ma che in me aveva una fiducia assoluta, e sicuramente Tino Schirinzi, al quale anche tu eri molto legato e che era stato, ti ricordi, il bravissimo interprete del tuo Stadelmann. Ricambiava la nostra amicizia con grande affetto ed era una persona geniale e dolcissima.
E poi, naturalmente Marcello, che nessuno che non l’abbia conosciuto può immaginare che meravigliosa persona fosse: ironico, garbato e soprattutto intelligente. La grande intelligenza quasi la mascherava con la sua abituale professione di understatement. Alla prima seduta di lettura che avevamo fatto, lui, Giulio Bosetti che era il produttore regista, ed io, si era scusato in anticipo per quella che sarebbe stata la sua inevitabile incertezza. Bene. È stato perfetto. Alla fine della lettura sia Bosetti che io avevamo le lacrime agli occhi. E anche lui, a dire il vero. «Certo, sarà difficile non piangere in scena», aveva detto.
Ogni sera, alla fine della recita, il pubblico scattava in piedi acclamandolo. Lui era felice di questa onda d’amore che lo stava accompagnando nell’ultima parte della sua vita e io sono felice di esserne stato il tramite. Ha recitato fino allo stremo, fino alle ultime repliche di Napoli, dove ha dovuto restare seduto perché non ce la faceva più a reggersi in piedi. Dopodiché si è arreso e ha telefonato a Bosetti e a me quasi scusandosi per dover interrompere la tournée. Qualche mese dopo sarebbe morto a Parigi. Grande, grandissimo Marcello. E tu? Il tuo rapporto con il teatro? Anche i tuoi testi hanno girato mezzo mondo.
CLAUDIO MAGRIS – Non posso certo paragonarmi a te, ma anche per me il teatro è stata un’esperienza molto ricca, che mi ha portato al di là delle mie frontiere. Ho una predilezione per il monologo, un monologo peraltro che contiene tante voci, botte e risposte e scontri e silenzi, e può sfociare nella dissoluzione linguistica. Tra l’altro, il teatro costringe a un confronto talora difficile, imprevisto e imprevedibile, con la tecnica e le trasformazioni tecnologiche della vita stessa. Nelle mie Voci un maniaco innamorato di alcune voci femminili – delle voci, non delle persone – cerca di telefonare a molte donne quando sa che non sono in casa, per ascoltare ogni volta non tanto la persona quanto lo stato d’animo di un attimo della registrazione: «Non sono in casa...». Quel testo è stato rappresentato più volte ma ora avrebbe bisogno di un allestimento diverso, perché la comunicazione digitale ha cambiato quel tipo di contatto. Allo stesso modo Montalbán, l’autore spagnolo, ha scritto anni fa un testo teatrale in cui due coniugi in lite dialogano e si scontrano, ognuno a casa propria, tramite il fax, ma oggi nessuno usa più il fax. Che fare? Rispettare il testo originale, come sarebbe doveroso o, come si fa quasi sempre in uno spettacolo, intervenire su di esso?
FURIO BORDON – Anche nei drammi di Shakespeare si uccidono con le spade e non con le pistole. È irrilevante. Ciò che conta è il fatto che si uccidono, non come lo fanno. In altre parole, è importante il concetto, non il modo. Volersi legare all’attuale è una sciocchezza, l’attuale diventa presto inattuale, il sentimento, la riflessione o l’urgenza che hanno dato vita a una storia rimangono.