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 2023  marzo 20 Lunedì calendario

Intervista a Francesco Moser

A 35 anni dal ritiro, Francesco Moser detiene ancora il record italiano di vittorie su strada: 273. Nella storia del ciclismo, solo Eddy Merckx e Rik Van Looy hanno vinto di più.
Oggi, a 71 anni, quanto va in bici?
«Tutte le settimane. In salita, attivo la pedalata elettrica».
Lei usa la bici elettrica?
«Non sono un ciclista scatenato: far fatica è inutile, dato che non devo fare le gare».
La vittoria che non dimenticherà mai?
«Il Giro d’Italia 1984: anche se il Campionato del mondo e le tre Parigi-Roubaix sono altrettanto importanti, il Giro è molto di più. È una corsa di tre settimane, è più sofferta: avevo preso la maglia rosa in partenza, poi, l’ho persa con la cronometro a squadre; poi, l’ho ripresa fra Pavia e Milano... Laurent Fignon l’ha presa alle Dolomiti, poi, io l’ho ripresa alla fine... È stato tutto uno scambio di maglia».
Com’è possibile che il suo record di vittorie sia imbattuto?
«Perché il ciclismo è in declino. Mancano gli sponsor: noi facevamo più corse e avevamo più squadre. E tutti correvano per il capitano, ora, invece le squadre hanno il velocista, l’uomo della corsa a tappe, l’uomo cronometro...».
C’è un italiano sul quale possiamo sperare?
«In Italia, ora che ha smesso Vincenzo Nibali, non vedo grandi speranze».
Lei come s’innamorò del ciclismo?
«Eravamo dodici fratelli, tre correvano. Aldo ha iniziato l’anno il cui sono nato io, nel 1951, a 17 anni, io ho cominciato a 18. Avevo smesso di andare a scuola, lavoravo in campagna, lui ha detto: prova. Pensavo di non poter essere forte, ho tentato per curiosità, poi ho visto che andavo e ho fatto tutto il necessario per arrivare al successo: uno può avere il fisico e l’attitudine, ma arrivare fino in fondo o fare le cose a metà dipende dalla testa. Io volevo sempre migliorare ed essere fra i primi, anche se ho avuto avversari importanti come Felice Gimondi, Eddy Merckx e Roger De Vlaeminck, un belga che ha corso in Italia: tante volte ho vinto contro di lui, ma tante volte sono arrivato secondo dopo di lui. E la competizione è diventata più forte dopo che il ciclismo è uscito dai confini europei. I primi mondiali fuori Europa furono a Montreal nel 1974. Dopo, hanno cominciato ad arrivare i corridori americani e, con la caduta del Muro di Berlino, quelli dell’Est».
Che altro serve per vincere, oltre a talento, condizione fisica e testa?
«Fortuna: alle Olimpiadi di Monaco del 1972 ero nella fuga giusta, poi, all’ultimo chilometro, ho bucato e sono arrivato settimo. Potevo essere bronzo o argento. Qualche anno dopo, facciamo il prologo del Giro di Germania e, nello stesso punto, avevo già vinto, ma ho bucato e sono arrivato secondo».
Che cosa si ricorda del massacro degli atleti israeliani a quei giochi?
«La notte, quando i terroristi palestinesi entrarono nella casa degli israeliani nel villaggio olimpico, non ho sentito niente. La mattina, c’era polizia dappertutto in assetto di guerra, non capivamo, tant’è che non riuscendo a raggiungere la nostra mensa, scavalcammo per fare colazione in quella femminile. Ma quando abbiamo capito, quando abbiamo saputo degli undici colleghi morti, è stato uno shock».
Com’era il tifo a quei tempi?
«Nei bar, c’erano discussioni enormi tra le fazioni. Il sistema era stato esasperato più che oggi nel calcio. La gente si appassionava, si creavano rivalità. Ora, la rivalità non è più di moda. Oggi, il corridore chiede scusa a quello che ha battuto. C’è il fair play, noi eravamo più ruspanti».
La rivalità alla Coppi e Bartali con Giuseppe Saronni era vera e c’era anche nella vita?
«Era vera. Era difficile andare d’accordo con lui. Era sempre scontro aperto. Correvamo e, chiaramente, uno cercava di arrivare davanti all’altro o cercava di farlo perdere».
Perché era difficile andarci d’accordo?
«Io venivo dalla campagna, lui dalla città: si sentiva superiore».
Litigavate in gara e anche fuori?
«Pure sugli aerei quando andavamo a correre all’estero».
Siete mai arrivati alle mani?
«Era più una sfida continua. Per esempio, a un campionato in provincia di Parma nell’81, quelli davanti a me si sono fermati, io ho frenato, Saronni mi ha preso la ruota, si è arrabbiato, mi fa: non sei capace di andare in bici. E io: vediamo stasera chi è capace. La sera, avevo vinto io. Lui era più giovane di sei anni, dal ’79 ha avuto tre o quattro anni forti, forse troppo per il suo fisico. Infatti, d’un tratto, ha smesso di essere forte. Mentre io, nell’84, a Città del Messico, feci il record dell’ora, e nello stesso anno vinsi la Milano-Sanremo e il Giro d’Italia».
Com’erano state infanzia e giovinezza in campagna, a Palù, nel trentino?
«Intanto, ho rischiato di chiamarmi Decimo. Poi, siccome prima di me c’erano due sorelle che si chiamavano Lucia e Giacinta, come le pastorelle di Fatima, mi misero il nome del terzo pastore. Papà aveva le vigne, si lavorava tutti nei campi. Poi, ha avuto un ictus ed è morto all’improvviso. Io avevo tredici anni, tre fratelli correvano, uno era frate, l’altro era piccolo ed è toccato a me portare avanti i campi. Ho lasciato la scuola e mi sono messo a lavorare la terra».
Manteneva la famiglia a soli tredici anni? Le piaceva o era solo dovere?
«Era l’unica cosa che sapevo fare, ed era la normalità. I muscoli me li sono fatti in campagna: portavamo i pesi, si faceva tutto a mano, non è che andavi in palestra o in discoteca».
L’infanzia tra le vigne
Papà aveva le vigne, si lavorava tutti. Poi ha avuto un ictus ed è morto. Io avevo 13 anni ed è toccato a me portare avanti i campi, andavo sul trattore senza patente
E quando anche lei ha iniziato a correre in bici, chi si occupava della terra?
«C’è stato un momento che era quasi abbandonata. Poi, Diego ha smesso di correre, se n’è occupato e ha pure modernizzato la cantina. Prima di lui, non imbottigliavamo, vendevamo a damigiane. Oggi, è tutto diverso: vendi la qualità, devi sceglier dove collocarti sul mercato... Per me, è più facile vincere le corse che fare il vino».
Però il vino lo fa: il brut 51,151 si chiama come il suo record dell’ora.
«All’inizio, sulle bottiglie c’era la mia foto con la maglia rosa, poi con le foto delle varie gare vinte. C’è gente che ha tutte le collezioni. Quando ho smesso di correre, nel 1988, ho comprato una campagna e il maso dove vivo, sulle colline di Trento, ci ho fatto vicino il museo con le mie bici, le mie maglie, i trofei. La gente arriva. E oltre a occuparmi della cantina, produco bici con Fantic: bici tradizionali che si trasformano in elettriche, le FMoser».
Come sono fatte le sue giornate?
«Cerco di tenere in ordine la campagna, gli operai fanno i lavori più pesanti, mentre io mi occupo dell’orto, delle galline, dei cani, e poi ricevo i clienti che vogliono le foto, i selfie».
Quattro anni fa, si è separato da sua moglie dopo quasi 40 anni di matrimonio. L’anno scorso, è arrivato il divorzio. Come è ritrovarsi single alla sua età?
«Bisogna adattarsi, stare da soli non è mica una roba semplice. Però, ora, non sono più solo: ho una nuova compagna che sta spesso da me, una ragazza che più o meno è come me».
In che senso è come lei?
«Ha corso in bici, è stata campionessa d’Italia. È più giovane, del ’68. Si chiama Mara Mosole».
Come l’ha conosciuta?
«La trovavo in giro in bici, o alle Eroiche, le gare vintage: anche lei ha ancora la passione e andiamo spesso in giro insieme. Poi, più o meno con la pandemia, ci siamo avvicinati. Ma lei non vive qui perché lavora con il padre che ha un’azienda nel trevigiano».
Com’è innamorarsi a 70 anni?
«Diverso da quando sei giovane. Ma non sono bravo a parlare d’amore. Posso dirle che si può vivere anche soli, ma che in due si sta meglio».
Ha tre figli, che padre è stato?
«Ho sempre girato molto. Due li ho avuti mentre correvo, mentre Ignazio è nato che avevo appena smesso. Era più mia moglie che stava dietro ai figli. Io ho insegnato a tutti ad andare in bici e a stare nei campi. Francesca, la più grande, prima dirigeva la cantina, ma ora lavora col marito e ha tre figli fra i 9 e i 12 anni e il maggiore, Pietro, vince le prime garette in bici. Della cantina adesso si occupa il mio secondogenito, Carlo, mentre Ignazio vive a Milano».
Anche Ignazio correva, poi è andato al Grande Fratello. Le è spiaciuto che abbia lasciato?
«È chiaro che, se avesse continuato con la bici, sarei stato contento».
Ora, Ignazio è fidanzato con Cecilia Rodriguez e, così, lei si ritrova imparentato con Belén. Vi frequentate?
«Certo, è stata anche qua. Abbiamo fatto Natale insieme. Poi, i giovani sono andati in montagna per conto loro, io sono rimasto a casa, non è che m’intrometto».
Che effetto le fa la famiglia in cronaca rosa?
«Non lo trovo strano: pure io da giovane ci stavo sulle copertine».
Ma non per i pettegolezzi.
«Quelle sono cose a cui non sto dietro: non guardo Internet, non ho i social, il telefono lo uso solo per telefonare».
Al Grande Fratello, Cecilia era fidanzata, ma si è messa con suo figlio. Lei tifava affinché ci restasse o perché tornasse dall’altro?
«Ognuno sceglie la sua vita. Io ho le mie idee, ma non sempre si avverano e mi adatto».
Ignazio e Cecilia si sposeranno?
«Non lo so, non mi pronuncio».
Su Instagram, si è vista la proposta di matrimonio con l’anello di fidanzamento.
«Hanno detto che si sposano quest’anno, ma ci credo quando lo vedo. Avevano detto agosto, ma da agosto a ottobre c’è la vendemmia».
Sa che i geriatri vogliono far cominciare la terza età non a 65 ma a 75 anni? Che ne pensa?
«Mi ricordo di mio padre a 67 anni, quando è morto: lo vedevo molto vecchio. Io ne ho 71 e penso che potrò pedalare in giro per il mondo ancora per un sacco di tempo».