Corriere della Sera, 20 marzo 2023
Ritratto di Bjork
Mi capita, a volte, di vederla alle prese con la sua vita quotidiana a Reykjavik, pur non sapendo nulla, assolutamente nulla, io, della sua vita quotidiana a Reykjavik. La vedo che fa la spesa al supermercato, che cammina per strada parlando al telefono, oppure nel suo studio, mentre armeggia con strumenti a percussione che non saprei neppure nominare e poi s’interrompe per bere un tè (berrà davvero il tè?). «Vedere» è più preciso di «immaginare», perché si tratta di flash che mi capitano davanti agli occhi senza che sia io a cercarli. Björk, ogni tanto, appare. Negli anni in cui frequentavo la sua musica più assiduamente di oggi, faceva parte di un pantheon allargato di artiste femminili – insieme a PJ Harvey e Tori Amos, a Shirley Manson e Ani Di Franco —, ma era solo con Björk che mi accadevano, come mi accadono ancora, questi attimi di dislocazione. Sapere dove si trova e cosa fa, o sentirmi come se lo sapessi. Stranezza nella stranezza: nella mia fantasia, Björk non si allontana mai dall’Islanda.
Isadora
So ricostruire con precisione il momento in cui è iniziato questo esercizio di familiarità: lessi una sua intervista in cui accennava a quando il pomeriggio aspettava la figlia fuori dalla scuola materna (la prima figlia, Isadora, che adesso ha vent’anni e ha parlato pubblicamente della terapia per superare il divorzio dei genitori e viene fotografata sulle riviste di moda in outfit Miu Miu). Prendere la figlia a scuola, un’azione normale. Forse il punto fu quello: il contrasto fra una circostanza così normale e l’irraggiungibilità di Björk, che in quel momento produceva musica che sembrava arrivare dritta da Plutone, da paesaggi cosmici modificati digitalmente, ed era lei stessa una creatura ultraterrena, ibrida, mezza umana e mezza elettronica. Raffigurarmela in quell’attimo ripetuto delle sue giornate, mentre aspettava la figlia, vestita in abiti comodi e circondata da altre madri, a Reykjavik dove non ero mai stato ma che doveva essere poco più grande di un villaggio, ha aperto un canale di confidenza esclusivo fra di noi, seppure – me ne rendo conto – unidirezionale.
Quel libro su di lei
Alla fine delle superiori mia madre mi aveva regalato un libro di suoi ritratti, un libro che purtroppo ora non ho qui con me per consultarlo, e che online si trova in vendita soltanto usato. Doveva essere il periodo di Vespertine, perché il font usato nelle scritte era simile a quello dell’album. Comunque sia, è il solo libro musicale che mia madre mi abbia regalato, oltre a una biografia di Jeff Buckley (dopo la sua morte), a riprova di quanto la mia venerazione per Björk trascendesse quella consueta di un fan, di come fosse diversa dalle molti infatuazioni astratte di quel periodo, e di come tutto ciò dovesse trasparire anche all’esterno. Qualche mese prima di ricevere il libro avevo sofferto dentro una sala cinematografica, sofferto al punto di dover uscire e rientrare più volte nel corso della proiezione, non solo per il supplizio raccontato in Dancer in the Dark (che avrebbe valso a Björk il premio come miglior attrice a Cannes e un disturbo da stress post-traumatico), ma perché quel supplizio veniva inferto a qualcuno che io sentivo di conoscere personalmente.
Medulla
Con un pizzico di malizia retroattiva, oggi mi dico che il dettaglio dell’attesa della figlia fuori da scuola non era forse casuale in quell’intervista. Può darsi che anche la normalità di quell’azione fosse una normalità artefatta – con certi artisti non si può mai dire. Björk, d’altronde, aveva già iniziato la sua svolta creativa, dalle produzioni più pop degli anni novanta a una musica più solitaria e inafferrabile. L’album successivo alla nascita di Isadora, Medulla, era stato inciso quasi interamente in una capanna in riva al lago e sembrava cantato sottacqua da un coro di sirene. Lo trovavo ostico. Björk si stava adattando ai tempi che cambiavano, meno pop, più intimi e scuri, oppure si stava adattando semplicemente a sé stessa? Aveva occupato a lungo un avamposto, avuto tutto quel che si poteva avere: l’inventiva, il glamour, l’unicità nello stile, nel timbro vocale e perfino nella pronuncia dell’inglese; la notorietà massima e il pubblico selezionato, il plauso di Mtv e quello delle riviste di settore.
Artista-feticcio
Era stata un feticcio per la musica, per l’arte, per la moda e il cinema. Era stata sperimentale nel senso più proprio del termine e si era reincarnata una decina di volte. Ma in lei esisteva, fin dall’inizio, anche una dimensione più compresa, quieta e crepuscolare, una dimensione in cui i suoi vocalizzi disubbidivano alle esigenze del mainstream e diventavano ripetitivi, prendevano quasi a salmodiare, come connettendosi a un mondo nordico più antico. Quella tendenza emergeva già nelle prime canzoni accompagnate dall’arpa, ma negli anni ha preso il sopravvento. Ed è il tratto che fa dire a mia moglie che Björk è «respingente», che la fa implorare di «toglierla» alla seconda canzone che le infliggo in auto. Io ubbidisco, spesso con un segreto sollievo.
I miei 20 anni
Per la musica di oggi, Björk è una compositrice meditativa e difficile. Ammetto di frequentarla meno anch’io: i vecchi album, come Post e Homogenic, fatico a sentirli perché li ho spolpati emotivamente, al punto che non mi trasmettono più nulla, se non un po’ di nostalgia; gli ultimi lavori perché sono troppo radicali, troppo monocordi, troppo «björkiani» perfino per me. Per lo più, quindi, ascolto i remix: remix delle sue canzoni, remix dei miei vent’anni. In generale non so bene cosa farmene dell’invecchiamento degli artisti che ho conosciuto giovani, e da giovane. A volte ho l’impressione che invecchino al posto di una parte di me, trasparente, che rimane fedelmente intrappolata in quel tempo. Di Björk so, tuttavia, che è stata lei a lasciarmi indietro, non io a lasciare indietro lei.
La casa sul lago
Eppure continua, a dispetto di tutto, quell’abitudine singolare di vederla d’un tratto nella sua vita. Nei mesi statici del Covid mi succedeva ancora più spesso. La trovavo sempre nello stesso posto, in quella casa sul lago, tanto che la fantasia si è via via strutturata. La vedevo uscire e incamminarsi nella brughiera aperta, soprattutto di sera, in quelle giornate del 2020 che avvicinandosi all’estate diventavano sempre più lunghe e a quella latitudine avrebbero finito per mangiarsi completamente la notte.
L’importanza dei funghi
Quando è uscito Fossora, il settembre scorso, ho scoperto che non mi ero sbagliato di molto. Durante la pandemia Björk non si è mossa per quasi due anni dalla sua casa in Islanda, ne ha approfittato – così ha detto – per piantare le proprie radici più a fondo nel terreno. Anche per questo il disco ha come elemento guida i funghi, organismi che vivono nel suolo e del suolo. Ma non soltanto: anche perché spuntano ovunque e assumono forme inaspettate, perché sono divertenti, psichedelici. Al disco non mi sono ancora abituato e forse non ci riuscirò. Fossora è tosto. Comunque non demordo, so che serve pazienza, serve tornarci, e ogni tanto ne esploro un altro pezzetto. Nel frattempo mi sorprendo di aver pensato anch’io molto ai funghi negli ultimi tre anni, per ragioni un po’ diverse: perché i funghi sanno crescere fra le rovine e inaugurare cicli di vita nuovi, là dove la vita è scomparsa. Se solo questo canale di comunicazione funzionasse in entrambi i sensi, un giorno o l’altro mi piacerebbe dirglielo.