Corriere della Sera, 20 marzo 2023
L’Italia e il problema del lavoro flessibile
Sono almeno 25 anni che l’Italia punta sui contratti di lavoro flessibili. Nel 1997 Tiziano Treu, ministro nel primo governo Prodi, introduce l’omonimo pacchetto che insieme alla successiva legge Biagi (2003) regolamenta i primi «lavori atipici». Da allora diverse riforme, tra cui il Jobs Act di Renzi, rendono le regole sempre più agili. Adesso tocca al governo Meloni, che oltre a ridisegnare il sistema dei voucher, è pronto a incentivare ulteriormente i contratti a termine. Non c’è dubbio che in un mercato molto variegato i contratti debbano permettere una certa flessibilità, ma di quanto si sta allungando questo elastico?
Il ritorno dei voucher
I voucher sono buoni a ore ideati nel 2003 dalla riforma Biagi per garantire i contributi e una copertura contro gli infortuni ai lavoratori occasionali di solito pagati in nero, come babysitter, colf, insegnanti privati, raccoglitori d’uva. L’utilizzo è limitato a studenti, pensionati, casalinghe e disoccupati. Dal 2009 la possibilità di pagare con i voucher viene estesa ad altre figure professionali e nel 2012 con la riforma Fornero si allarga a tutti i settori produttivi e a ogni tipo di lavoratore. La richiesta di voucher si impenna: se nel 2008 ne sono emessi poco più di mezzo milione, nel 2015 diventano 134 milioni. Si impenna anche l’abuso, soprattutto nell’edilizia, nel turismo e nel commercio: molte imprese coprono qualche ora con i voucher, e il resto pagano in nero. In pratica con questa modalità evitano di assumere lavoratori utilizzati a tempo pieno spacciandoli come occasionali. Nel 2017 il governo Gentiloni decide di abolirli e con il successivo decreto n.50 del 2017 fissa limiti stringenti (libretto famiglia e PrestO). La finanziaria 2023 ne allarga invece l’uso alle imprese che hanno fino a 10 dipendenti a tempo indeterminato (escluse quelle agricole ed edilizie). L’importo orario minimo netto è di 9 euro all’ora, quello giornaliero di 36 euro. La somma che ogni azienda può spendere in voucher è di 10 mila euro all’anno, con l’obbligo di comunicare preventivamente all’Inps l’utilizzo di lavoratori occasionali.
Il governo Meloni dichiara che l’estensione della misura servirà a ridurre il sommerso, ma la norma, come si è già visto, è facilmente aggirabile. E non si può dire che le sanzioni siano severe: da un minimo di 500 euro ad un massimo di 2.500.
Contratti a termine
Negli ultimi anni in Italia il contratto di lavoro più diffuso è stato quello a tempo determinato. Nel 2021 ne sono stati attivati 7,7 milioni (il 69% del totale) che sono diventati 8,5 milioni nel 2022. Nel terzo trimestre dell’anno scorso oltre il 31% dei contratti a termine sottoscritti aveva una durata massima di un mese e il 46,5% non superava i 90 giorni. Il decreto Dignità del 2018 prevede che dopo un anno di contratto a termine scatti l’assunzione, se invece l’imprenditore intende prolungarlo, il tempo massimo concesso è di dodici mesi, ma deve indicare una causale e pagare uno 0,5% di contribuzione in più.
In una recente audizione al Senato la ministra del Lavoro Marina Calderone ha sottolineato come «una rigida tipizzazione legale delle causali possa rappresentare un limite per il sistema imprenditoriale e lavorativo del Paese». Eppure siamo uno dei Paesi dell’Eurozona con più contratti a termine (16,4%) e restiamo molto sopra la media dell’Ocse (11,8%).
Occupati, precari e part-time
A gennaio gli occupati hanno superato i 23,3 milioni, ma a crescere sono soprattutto i contratti precari che hanno raggiunto quota 3 milioni (erano 2,3 milioni nel 2008). Allo stesso tempo sono diminuite le ore lavorate pro-capite: venti in meno a trimestre rispetto al 2008, che vuol dire in media anche una paga più bassa. Poi ci sono i contratti part-time indesiderati. Sempre nel 2008 coloro che hanno dovuto accettarli pur preferendo un lavoro a tempo pieno erano 1,3 milioni, nel 2022 sono saliti a 2,7 milioni. L’Italia ha anche il record del part-time involontario nella Ue: circa l’11,3% del totale dei lavoratori vorrebbe lavorare full time, ma deve accontentarsi di mezza giornata. La media Ocse è del 3,4%.
La trappola della precarietà
Se consideriamo le numerose forme contrattuali atipiche – spiega l’ultimo studio Censis – queste coinvolgono circa il 21,3% del totale degli occupati, ovvero circa 5 milioni di lavoratori. Un dato che incide su quel 24% di crescita complessiva dei contratti di lavoro degli ultimi dodici anni. Infatti quel dato include anche i contratti che non prevedono un impiego fisso e che sono aumentati del 33%. Nello stesso arco di tempo gli impieghi standard sono invece cresciuti solo del 4,8%. Alla fine – spiega il rapporto 2022 dell’Inapp (Istituto nazionale per le politiche pubbliche) – il lavoro atipico non è più quello strumento intermedio che serve poi ad ottenere un lavoro stabile, ma è diventato «una trappola» che ti mantiene precario a vita. Prendendo come riferimento tre trienni (2008-2010, 2016-2018 e 2018-2021) la ricerca dimostra che in linea di massima, solo il 35-40% dei lavoratori alla fine riesce a ottenere un contratto a tempo indeterminato. Se ci focalizziamo sull’ultimo periodo (2018-2021), il 30% resta inchiodato all’impiego precario, i lavoratori che cercano una nuova occupazione dopo aver perso il lavoro sono il 18%, mentre il 17% è stato completamente espulso dal mercato.
Salari, lavoro povero e dimissioni
L’unico Paese europeo dove gli stipendi sono diminuiti negli ultimi 30 anni è l’Italia (-2,9%). Il vero crollo però si è verificato nel decennio 2010-2020 quando il salario medio è calato dell’8,3%. E questo perché gli stipendi non sono legati alla produttività, che pur essendo più bassa rispetto al resto d’Europa, è comunque cresciuta del 21,9%. Le statistiche evidenziano che in media un lavoratore a tempo indeterminato nel 2021 ha ricevuto un salario di poco sopra i 26 mila euro all’anno, contro i 9.634 euro di un lavoratore a tempo determinato e i 6.425 di uno stagionale. Tra 2010 e 2020 circa l’11,3% dei lavoratori italiani ha avuto una retribuzione sotto i 14.460 euro lordi, mentre l’8,7% del totale vive con uno stipendio che non raggiunge i 10 mila euro l’anno. «Oggi c’è già tanta flessibilità che produce lavoro povero – spiega Franco Scarpelli, professore di Diritto del lavoro all’Università Bicocca di Milano – perché molte imprese ricorrono a contratti a termine cambiando continuamente i dipendenti di fascia medio-bassa alla scadenza dei contratti». Salari bassi sono spesso la causa numero uno del boom di dimissioni dell’ultimo triennio. La ricerca della «Fondazione Studi Consulenti del Lavoro» sui primi 9 mesi del 2021 mostra questo: chi si dimette è giovane e con un lavoro a bassa qualificazione. Il 52,9% ha un contratto a termine e il 37,9% un contratto part-time.
La decisione spagnola
La Spagna è il Paese europeo che da anni ha il più alto tasso di disoccupazione giovanile. Per uscirne, a inizio 2022, ha varato una riforma del lavoro, in accordo con sindacati e imprese, che va nella direzione opposta a quella italiana: forte riduzione dei contratti a termine e limitazione a tutte le forme di esternalizzazione del lavoro. Risultato: 2,5 milioni di nuovi posti di lavoro a tempo indeterminato, crollo del tasso di precarietà di 12 punti (dal 26,1% al 14%) con enorme crescita di posti fissi per donne e under 30. A febbraio 2023 il governo di Pedro Sánchez, per contrastare l’inflazione, ha alzato anche il salario minimo di 93,3 euro al mese per 14 mensilità. È il caso di evidenziare che per rilanciare l’economia non è necessario comprimere i salari e le garanzie dei lavoratori: nel 2022 l’economia spagnola è cresciuta del 5,5%.