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 2023  marzo 20 Lunedì calendario

Solo un detenuto su tre ha un lavoro

 Chi lavora, non delinque. O almeno, ha molte meno probabilità di tornare a farlo, una volta rimesso in libertà. A dirlo sono i numeri: secondo le statistiche in mano al ministero della Giustizia, soltanto due detenuti su cento tra quelli che in carcere hanno beneficiato di un contratto di lavoro (quasi sempre siglato con la stessa amministrazione penitenziaria) tornano a commettere crimini, dopo aver finito di scontare la loro pena. Una percentuale che schizza intorno al 60% per chi invece non ha goduto di questa possibilità.COMPETENZE SPECIFICHEIl motivo, secondo molte delle associazioni che si occupano di diritti dei detenuti, è banale: chi torna libero senza aver imparato un mestiere, spesso non ha altra alternativa se non quella di riprendere le vecchie abitudini. Un po’ perché in anni di inattività non ha acquisito nessuna competenza o interesse specifico, un po’ perché sono poche le aziende possono permettersi il rischio di assumere qualcuno senza un curriculum adeguato. Chi invece in carcere ha imparato un mestiere (dalla calzoleria al tessile, dall’idraulica alla dematerializzazione dei documenti fino alla panificazione, per citare quelli più diffusi) riesce a spendere quelle capacità sul mercato del lavoro. Tanto più se ad assumerlo è stata fin da subito un’impresa privata, che al termine della pena può essere interessata a proseguire il rapporto lavorativo nato in carcere.Ma nonostante dal 2000 esista una legge (la legge Smuraglia, dal nome dell’ex senatore e presidente Anpi Carlo Smuraglia) che già prevede una serie di benefici per le imprese che scelgono di arruolare carcerati tra i propri dipendenti dentro o fuori le mura dei penitenziari, attualmente sono in pochi a sfruttarla. I dati parlano chiaro: su oltre 56mila persone attualmente detenute nelle carceri italiane, la quota di chi ha firmato un contratto di lavoro si ferma intorno ai 17mila. Meno di un terzo, insomma. E quasi tutti, circa 16mila, risultano alle dipendenze della stessa amministrazione penitenziaria. Soltanto 719 detenuti, al 31 gennaio di quest’anno, erano impiegati da una società cooperativa. Ancora meno quelli che avevano un contratto con un’azienda privata: 250.I motivi di un così debole “appeal” possono essere vari, secondo gli addetti ai lavori. Scarsa conoscenza da parte delle imprese di questa possibilità, scarso interesse a investire tempo e risorse in formazione a fronte di vantaggi non sempre chiari. E poi c’è il capitolo burocrazia: la legge, infatti, prevede che sia la singola azienda interessata a portare attività lavorative nel penitenziario a stipulare un’apposita convenzione con la direzione dell’istituto. Presentando una dichiarazione di interesse e poi siglando un accordo. Una strada tortuosa, insomma, che il governo intende semplificare.CAMPANELLO D’ALLARMEI numeri sulle detenzioni, del resto, hanno fatto scattare il campanello d’allarme a via Arenula. Dove si è deciso di correre ai ripari. A preoccupare, però non sono solo i dati della popolazione carceraria (comunque in sovrannumero rispetto alla capienza delle carceri italiane, con 109,2 detenuti ogni 100 posti disponibili sulla carta). Quanto piuttosto una tendenza: nel 2021, le condanne superiori ai tre anni di detenzione sono state il 4% in più rispetto alla media del periodo 2008-2020. E a crescere sono state anche le condanne per i reati più gravi, quelli che prevedono pene detentive dai dieci ai venti anni di reclusione. Intervenire, insomma, è una priorità. E se la strada scelta è quella del lavoro, l’obiettivo, ora, è riuscirci davvero.