La Lettura, 19 marzo 2023
Intervista a Jocelyn Nicole Johnson - su "La mia Monticello e altre storie" (Bompiani)
«Il mio racconto è direttamente ispirato alla marcia di Unite the Right (“Unisci la destra”) a Charlottesville nell’agosto del 2017», ci racconta oggi da quella stessa città della Virginia la scrittrice Jocelyn Nicole Johnson, autrice di La mia Monticello e altre storie, edito in Italia da Bompiani. «Accadde prima dell’assalto al Congresso da parte dei sostenitori di Trump e dell’omicidio di George Floyd. È stato una sorta di evento precursore. C’erano uomini venuti da ogni parte del Paese, con torce, slogan nazisti e fucili d’assalto; una donna è stata uccisa e altri sono rimasti feriti. Vivo a mezzo miglio dal centro di Charlottesville, dove si svolgeva la marcia. Sono rimasta a casa con mio figlio di 10 anni quel giorno, il mio partner era andato in ufficio, ha attraversato la violenza ed è tornato a casa. Ho seguito gli eventi su Facebook e sui notiziari e parlando al telefono con amici che chiamavano per sapere se stessimo bene. C’erano elicotteri che volavano sulla nostra testa, sembrava di essere in una zona di guerra. Le strade erano bloccate da gente che girava distribuendo volantini di propaganda nei quartieri neri, proprio come nel racconto. Prima, durante e dopo ho pensato a come avrei dovuto reagire a quella vergognosa manifestazione razzista. Ho risposto così: scrivendo».
Nella raccolta di racconti di Johnson, la novella principale, intitolata La mia Monticello, narra la fuga di un gruppo di persone dal loro quartiere di Charlottesville preso d’assedio da una banda di suprematisti bianchi. Trovano rifugio nella vicina Monticello, che fu la residenza di Thomas Jefferson, terzo presidente degli Stati Uniti, uno dei padri della nazione, autore della Dichiarazione d’indipendenza, che possedeva schiavi nella sua tenuta e da una di loro, Sally Hemings, ebbe dei figli. Da’Naisha Love, la giovane che prende in qualche modo la guida del manipolo di fuggiaschi nella novella, è una discendente di Hemings e Jefferson.
Com’è nata la connessione tra la marcia razzista e Monticello?
«Prima di tutto i manifestanti dell’agosto 2017 andarono all’università della Virginia, fondata da Thomas Jefferson nella nostra città, e marciarono con le torce intorno alla sua statua, per rivendicare un legame con lui. Un anno dopo, nell’anniversario di quella marcia, conobbi una discendente di Jefferson ed Hemings, a un evento pubblico. Viveva ancora qui a Charlottesville. Questo mi ha fatto riflettere sulla lunga storia che ha nascosto ciò che è l’America e la violenza contro le persone nere in questo Paese».
La sua protagonista è discendente di Jefferson ed Hemings ma non ne parla in pubblico, tiene la cosa per sé. Quanto è grande dal suo punto di vista la differenza tra la storia pubblica e la storia privata?
«La storia privilegia sempre qualche punto di vista rispetto a un altro. Monticello, che ora è un luogo turistico, ha cercato di espandere i punti di vista per includere quelli degli schiavi. Quando mi trasferii qui nel 2000 raccontavano una storia, che è vera, ma adesso la raccontano insieme ad altre storie che sono anch’esse vere. Se racconti la storia dal punto di vista di Jefferson, un uomo che dava valore alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità, che ha introdotto i diritti umani nel modo in cui li concepiamo oggi, tutto questo è assolutamente vero; ma devi anche dire che aveva 600 persone ridotte in schiavitù e che vendeva in modo da mantenere la sua piantagione: anche questo è vero. Monticello, nel tempo, ha ampliato il suo rapporto con la comunità che discende dagli schiavi».
Che cos’è che manca nel riconoscimento del passato in America?
«Nel nostro sistema di istruzione pubblica in questo momento c’è un enorme movimento nelle scuole degli Stati conservatori per cancellare qualunque cosa possa essere problematica in termini di razzismo — e non importa se sia fattuale e se possa riguardare il nostro presente».
Chi sta vincendo in questa battaglia per la storia?
«Difficile dirlo. La vita politica è molto divisa, la situazione cambia a seconda dello Stato e della contea in cui vivi».
Se in base alla contea in cui vivi impari la storia in modo diverso, questo diventerà un Paese ancora più diviso.
«Assolutamente. Per vent’anni ho insegnato nelle scuole pubbliche e questa è una cosa preoccupante, che mi spezza il cuore».
Il tema conduttore che attraversa i racconti del libro è il senso «complicato» di appartenenza alla Virginia e all’idea di casa. È un tema universale ma per lei anche personale?
«L’idea di un senso complicato di appartenenza a una casa è personale per me, perché sono nata e cresciuta in Virginia, unica del mio nucleo familiare: i miei genitori e i miei fratelli maggiori sono nati in South Carolina. Quando i miei genitori si sono spostati qui, per ragioni economiche, ogni fine settimana andavamo in South Carolina, dieci ore di auto per andare a trovare la nonna e i cugini. Ho ereditato questo senso complicato di casa. E ora che in America abbiamo questo movimento conservatore di supremazia del maschio bianco, di violenza e intolleranza nei confronti di chiunque sia diverso, ciò mi ha portata a ripensare e rinegoziare questa idea di casa».
Nella novella l’erede di Jefferson vive una relazione interraziale, ma è molto diversa da quella dei suoi avi.
«Volevo riflettere sulla impossibilità e possibilità di questi rapporti in epoca contemporanea. Con Sally Hemings e Thomas Jefferson ti chiedi come sia possibile amare una persona che ha così tanto potere su di te, letteralmente il potere di vita e di morte. Invece, nel mio racconto, è la protagonista nera ad avere maggiore potere. Eppure si trova su una collina sotto assedio da parte di suprematisti bianchi che hanno potere di vita e di morte su di lei. Allo stesso tempo, in quanto insegnante, credo negli spazi comunitari che trascendono la razza o la religione: è quello che succede nelle classi delle scuole pubbliche. Volevo offrire un’utopia di qualcosa che secondo me è in realtà possibile, anzi necessario».