Corriere della Sera, 18 marzo 2023
Intervista a Gaia Tortora - su "Testa alta, e avanti. In cerca di giustizia, storia della mia famiglia" (Mondadori)
«Ironico ma tagliente, riservato, mai mondano, fumantino. E poi dolce, comprensivo, attento. Ma questo era prima. Il dopo era uguale tranne che negli occhi. Ecco, gli occhi poi sono diventati diversi». C’è un prima e un dopo nella vita di Gaia Tortora. Il dopo comincia un giorno che non potrà mai dimenticare: 17 giugno 1983.
Quel giorno suo padre viene arrestato con l’accusa di traffico di stupefacenti per la Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo. Lei aveva 14 anni. Che cosa ricorda?
«Avevo l’esame di terza media e quindi ero andata a scuola a piedi. In casa c’era grande agitazione ma io non ci ho fatto caso. Dovevo essere la sesta e invece mi hanno interrogata per prima. Non capivo, non volevo. E invece ho dovuto farlo. Quando ho finito e mi sono girata ho visto che c’era mia sorella Silvia. Andiamo a casa. Me l’hanno detto quando siamo arrivate: papà è stato arrestato. Non riuscivo a crederci, pensavo a uno scherzo».
Lei ha scritto un libro che uscirà il 21 marzo per Mondadori, «Testa alta, e avanti». Perché proprio adesso?
«Ho sempre tenuto tutto per me. Un giorno sono andata in tv e ho parlato del sistema dell’informazione. Dopo poco mi hanno fatto questa proposta. Mentre ero nello studio televisivo mi sono sentita una marziana. Anche un po’ rompicoglioni e matta. Ho avuto la sensazione di essere fuoriposto o sopportata. E allora ho deciso di accettare».
Lei scrive che per suo padre c’è stata malagiustizia, ma anche malainformazione. Che vuol dire?
«Quando mio padre è uscito dalla caserma dei carabinieri con le manette ai polsi erano tutti accaniti. Urlavano, qualcuno l’ha insultato. Ma io mi riferisco soprattutto a quello che è successo dopo. Era chiaro fin dall’inizio che l’inchiesta fosse piena di incongruenze e nessuno ha voluto vedere. Nessuno si è mai posto domande. E allora chiedo adesso: come mai soltanto Vittorio Feltri si prese la briga di leggere gli atti e scrivere che forse la realtà non era come la stavano raccontando?».
Lei che risposta si è data?
«Mio padre in quel momento era l’uomo più popolare d’Italia. La sua trasmissione aveva ascolti che oscillavano tra i 28 e i 30 milioni di telespettatori. Un risultato mostruoso, ora vedo persone esultare quando arrivano a un milione di spettatori. Dava fastidio, ma nello stesso tempo parlare di Tortora faceva fare un salto di qualità ai pentiti e all’inchiesta. Per questo dico che c’è stato dolo».
Occuparsi di cronaca giudiziaria vuol dire anche riscontrare le accuse. Non lo hanno fatto i magistrati, non lo hanno fatto i giornalisti.
«E invece sarebbero bastate quattro verifiche sulle cose che raccontavano i pentiti e in 48 ore tutto si sarebbe chiarito. Ne cito soltanto due così si comprende bene. Nell’agendina di Giuseppe Puca, uomo di Cutolo, erano riportati due numeri di tale “Enzo Tortona”, che nei verbali diventò “Enzo Tortora”. Eppure nessuno si prese la briga di controllare, di provare a chiamare. Il giorno in cui Gianni Melluso raccontò di aver consegnato a mio padre una scatola di scarpe piena di droga in realtà era rinchiuso nel carcere di Campobasso. Ma questo fu Feltri a scoprirlo, non i magistrati».
Volevano fargliela pagare?
«Mio padre non aveva peli sulla lingua, non faceva la vita della tv. Aveva solo tre amici — Piero Angela, Mario Pogliotti e Gigi Marsico — e soprattutto era molto deluso dalla Rai, lo disse pubblicamente. Ma era comunque un soldato e la Rai rimaneva la sua casa, tanto che dopo essere andato via dall’azienda aveva deciso di tornare».
A Melluso che chiese scusa e disse mi inginocchio davanti alla famiglia, lei ha risposto: rimanga pure in piedi. Dopo tanti anni c’è spazio per il perdono?
«Lo ripeto a lui e a tutti gli altri come lui: rimangano in piedi».
Com’era suo padre con voi?
«I miei genitori si sono separati quando io avevo pochi mesi, però lui c’è sempre stato. Era severo, esigente, ma anche molto tenero. Ricordo che amava andare a letto presto. Non era mondano. Quando facevamo cene con amici alle 21.30 salutava tutti e andava via. Dopo è cambiato tutto. Anche per me. Esci di casa e hai una vita. Torni a casa e tutto è finito. Io ho smesso di parlare, ho ricominciato a respirare dopo ore grazie a Piero Angela».
Andavate a trovarlo in carcere?
«Ci scrivevamo lunghe lettere. Soltanto dopo ho capito che in questo modo cercava un dialogo con me, di tenere il filo con una 14enne e non era facile. Lui aveva dato un compito a ognuna di noi e questo ci ha consentito di riorganizzarci nel dolore. A me aveva chiesto di controllare che tutto andasse bene, era gravoso ma mi inorgogliva».
Anni di calvario, poi l’assoluzione.
«Purtroppo l’assoluzione non è servita a cancellare il dolore. Anzi, se possibile ha acuito la sensazione di ingiustizia. Del resto nulla avrebbe mai potuto ripagarlo per ciò che aveva subito. Mio padre non è mai più stato lo stesso uomo. È tornato in tv, ha fatto ripartire Portobello con la frase ormai famosa “dove eravamo rimasti”. Ma i suoi occhi velati mostravano bene quel che era accaduto».
Perché decise di tornare a Portobello?
«Quello era il suo posto. Berlusconi lo aveva chiamato, gli aveva offerto tantissimi soldi, ma lui voleva ricominciare da dove aveva lasciato».
Come era cambiato?
«Nulla era uguale a prima, nonostante tutti provassimo a fingere. Ricordo un viaggio in Africa tutti insieme. Una sera eravamo in un ristorante e mio padre scoprì casualmente che il proprietario era un italiano in fuga dalla giustizia. Chiese il conto e andammo via mentre stavamo mangiando la pizza. Lo avrebbe fatto anche prima, lui era rigoroso, ma la fretta di quella sera mi fece capire quanto fosse diventato importante per lui mettere la distanza da tutto quello che poteva diventare un problema».
Chi vi è stato più vicino?
«Piero Angela che poi per me è diventato come un secondo padre. Ancora adesso sua moglie Margherita è presente nella nostra vita. Quando lui e Silvia sono mancati si è aperto un baratro. E poi voglio ricordare quei giornalisti, pochi, che lo hanno difeso. Montanelli, Biagi, Bocca hanno avuto il coraggio di denunciare che cosa avevano fatto i magistrati. Oltre a Feltri che, come ho detto, lo ha fatto quando tutti erano allineati».
Poi è arrivata la malattia.
«È durata un anno e poi è morto. Dentro di lui era esplosa una bomba. Tutti noi abbiamo pagato un prezzo altissimo. Mia sorella Silvia ci ha lasciati a 59 anni, proprio come papà».
Nel libro lei racconta per la prima volta i suoi attacchi di panico.
«Per anni ho subito in silenzio, ho accumulato. Finché il mio corpo non mi ha dato un segnale e ho capito che dovevo affrontare il trauma. È successo quando avevo 40 anni. Soltanto allora ho cominciato a volermi bene».
La sua decisione di diventare giornalista è stata una rivalsa?
«No, una scelta per dimostrare che l’unico modo per fare questo mestiere è porre, ma soprattutto porsi, domande. E seguire l’insegnamento di mio padre che trattava tutti con lo stesso rispetto, al di là dei ruoli e degli incarichi. Mi piacerebbe credere che chi incappa in questo tipo di incubo non si senta solo. Perché la solitudine della battaglia e dell’ingiustizia è un tatuaggio indelebile».