Domenicale, 19 marzo 2023
Lo scartafaccio antiebraico del fascismo
Uno scartafaccio di portata storica. Le riproduzioni a colori, in fondo al bel volume di Giorgio Fabre sul Gran Consiglio contro gli ebrei, ci mostrano un dattiloscritto ingiallito, punteggiato da correzioni a matita blu e da altre in rosso. A prima vista, viene da pensare a una bozza burocratica, giustamente dimenticata in qualche archivio di ministero. E invece, è un pezzo di storia d’Italia. Di una brutta storia.
La sera del 6 ottobre 1938, Mussolini apre con questo documento la riunione del Gran Consiglio. L’elenco dei presenti raccoglie una schiera di potenti e d’influenti, accuratamente trascelti. Gerarchi, ministri, universitari, accademici, industriali. A ragione, Fabre sottolinea che la rosa dei partecipanti è uno spaccato del Paese, di un certo Paese, naturalmente, ovvero dell’Italia che s’identifica col fascismo e che abbraccia «i vertici di tutti i settori della società e dell’economia italiana: agricoltura, industria, commercio, finanze, istruzione, giustizia, il partito, i giornali… mancavano solo i rappresentanti delle forze armate».
Il carattere corale, e trasversale, del Consiglio è indubbio, ed è adatto alla scelta che dev’essere compiuta. Mussolini vuole sancire una nuova «Carta della razza». Desidera un documento ambizioso, che valga per tutti i settori. Per questo ha preparato una bozza che dovrà essere discussa punto per punto. La seduta comincia, a Palazzo Venezia, alle 22 del 6 ottobre e termina alle 2:45 del 7, quasi cinque ore. Ciascun partecipante ha ricevuto una copia ciclostilata. Quello riprodotto nel libro, su cui si fonda l’analisi di Fabre, è l’esemplare di Italo Balbo, con le sue annotazioni autografe. Tutto lascia pensare che le aggiunte in rosso siano osservazioni dello stesso gerarca ferrarese, o proposte da altri, ma non da Mussolini, mentre i passi in blu vanno riferiti direttamente al duce, o comunque furono da questi presi in seria considerazione.
È la prima volta che la minuta già in mano a Balbo può essere esaminata approfonditamente da uno storico. Valutare varianti e trasformazioni sembrerebbe un esercizio minore. Ma la “Carta del razzismo” non è “minore”. E ogni particolare sulla sua genesi, e sulla catena decisionale che la adottò, merita di essere incluso nella nostra memoria nazionale. O, meglio, nella nostra smemoratezza, giacché serve a confutare il mito di un razzismo che in Italia sarebbe stato improvvisato, aggiunto alla bell’e meglio quando ormai la guerra stava avvicinandosi, tanto per accontentare i nazisti.
La preparazione e il dibattito minuzioso parlano tutt’altra lingua. Secondo Fabre, Mussolini si mostrò in quest’occasione «non proprio (o non solo) autoritario, ma cercò in tutti i modi di ottenere il consenso sul suo documento finale». Nel suo diario, Giuseppe Bottai annota a questo proposito: «Lungo dibattito. Mussolini ondeggia, desideroso di mollare un poco». Il risultato forse più eclatante di questa disponibilità alla mediazione è la rinuncia alle prime tre righe con cui si apriva la bozza, omesse nella redazione finale: «Il Gran Consiglio fa sue le dieci proposizioni elaborate dagli Universitari fascisti, sotto l’egida del Ministero della Cultura Popolare e approvato successivamente dal Segretario del Partito».
Perché fu tralasciata una simile premessa, che richiamava direttamente il “Manifesto della razza”, pubblicato nel luglio 1938? E chi ottenne il cambiamento? Fabre ipotizza due nomi, quello di Italo Balbo e l’altro, meno noto ma assai influente, di Giacomo Acerbo, già ministro dell’Agricoltura. Acerbo avrebbe avanzato seri dubbi sull’impostazione biologica del “Manifesto”, convinto com’era della specificità culturale e storica, ma non di sangue, della “razza italiana”, da distinguersi, secondo lui, dalla “razza ariana”, a cui Mussolini si omologava sulla scorta dei teorici tedeschi.
Il risultato fu un testo che prescriveva un tragico razzismo normativo, di discriminazione e di esclusione degli ebrei, senza riuscire a specificarne le ragioni, per quanto ovviamente infondate, su di una qualche linea di pensiero teorico. E su tale pasticciata soluzione furono tutti d’accordo, si direbbe senza porsi troppe domande e senza considerare il gravissimo tradimento di duemila anni di storia ebraica italiana, compreso l’apporto decisivo che gli ebrei avevano fornito allo Stato unitario.
Gli altri mutamenti rispetto al canovaccio mussoliniano furono motivati da amicizie personali, come quella che legava Balbo a Renzo Ravenna, a lungo podestà fascista di Ferrara, oppure da considerazioni circa le benemerenze di guerra. Si stabilì anche l’allargamento della scolarizzazione per gli ebrei, in istituti separati, fino alle medie, probabilmente su intervento dello stesso Balbo.
A notte fonda, l’impalcatura razzista ideata da Mussolini fu comunque avvallata dal Gran Consiglio nei suoi effetti devastanti. Perché? Per ignavia, per menefreghismo, per animosità antiebraica? Oppure per una miscela di tutti questi elementi, tenuti assieme da una fatale tendenza a conformarsi? Da quella notte uscì un’Italia ancora peggiore, in cui il razzismo era stato precisato, calibrato, “messo a punto”, pur in una rimarchevole confusione circa i suoi presunti fondamenti teorici. Come ricorda Fabre, la “Dichiarazione sulla razza”, discussa e approvata tra il 6 e il 7 ottobre, è «uno snodo essenziale per capire gli inasprimenti introdotti con le leggi razziste successive, fino alla persecuzione vera e propria che condusse a migliaia di morti». Che se ne parli in maniera approfondita solo oggi, a quasi 85 anni dalla sua approvazione, è un segno eloquente della lentezza e dell’incompletezza della riflessione pubblica italiana sul razzismo di Stato.
La storia si fa anche con gli scartafacci, sottolineati in rosso e in blu. Ancor prima, si fa scavando nelle coscienze. In quelle di allora, e nelle nostre di oggi, in cui i tratti, a matita e all’inchiostro, tendono irrimediabilmente a impallidire.