il Giornale, 19 marzo 2023
Intervista a Rick Rubin
Chiama da Malibu, in una giornata di pioggia: «Sono Rick». Il suo nome è così leggendario, nella storia della musica dalla metà degli anni ’80, che nel suo libro – L’atto creativo: un modo di essere (Mondadori, pagg. 372, euro 24) – non c’è nemmeno una biografia striminzita. Qui Rick Rubin, l’uomo che ha inventato il rap e l’hip hop producendo Beastie Boys, Public Enemy e RunDmc, ha reso delle stelle i Red Hot Chili Peppers, ha fatto rinascere Johnny Cash e, nel frattempo, ha prodotto dagli Ac/Dc a Adele, dai Black Sabbath a Ed Sheeran, dagli Slayer a Eminem, mette nero su bianco qualche «consiglio per gli artisti». È straordinariamente gentile ed entusiasta del suo lavoro, dopo quasi quattro decenni di attività (ha compiuto 60 anni il 10 marzo scorso). Rick Rubin, che cos’è l’arte? «È tutto, tutto quello che facciamo, ogni decisione che prendiamo. In un certo senso è la ragione per cui siamo qui: produrre qualcosa, e condividere come ci sentiamo, perché tutti ci sentiamo in modo diverso». Sostiene che il talento creativo non sia cosa rara. Davvero? «È di tutti. Tutti creiamo, ogni giorno. Il grande artista è colui che continua questa pratica, fino a che sente che ciò che ha fatto è così buono da poter essere condiviso. Anche per questo amo tanto l’Italia: si percepisce un senso di bellezza fuori dal tempo, di eleganza e di maestria che è una grande fonte di ispirazione». Viene spesso in Italia? «Sì, ho una casa a Siena, dove trascorro tre mesi in estate. E sto costruendo uno studio in campagna, dove abbiamo registrato alcune delle cose di Jovanotti degli ultimi due anni». Perché uno studio lì? «L’ambiente è creativo, stimolante. Io sono nato a New York e ho iniziato a fare musica lì, in certi piccoli studi che erano degli scantinati bui e senza finestre in palazzi giganteschi...». E come andava? «Facevamo quello che serviva, ma ho trascorso così tanto tempo in quelle stanzette buie e puzzolenti... Invece in Toscana l’edificio è una ex scuola, con grandi finestre, belle piante, cibo spettacolare, il bosco dove camminare: è un luogo che espande la mente. Sono appena stato in Costa Rica, dove ho registrato con gli Strokes sulla cima di una montagna e questa esperienza ha cambiato tutto: il luogo entra in quello che facciamo». Perché ha scritto questo libro? «Qualche anno fa un mio amico stava scrivendo una biografia di Johnny Cash e, siccome abbiamo lavorato insieme negli ultimi dieci anni della sua vita, mi ha fatto molte domande su di lui, sulla sua musica, sulle scelte che abbiamo fatto... E ho capito che, in questo modo, avevo imparato molto sulla mia relazione con Johnny Cash e che mi era piaciuto farlo: ho pensato che un libro potesse essere così. Volevo fare qualcosa di utile per altri artisti». Come ha lavorato? «Ho iniziato otto anni fa, analizzando ogni cosa che accadeva in studio: se andasse bene o no, perché, e se ci fosse un principio applicabile anche in altre situazioni. Perciò non c’è alcun riferimento specifico a delle storie, come Questo è quello che hanno fatto gli Slayer o Così è andata con Adele, perché altrimenti un lettore potrebbe dire: io non sono gli Slayer, non sono Adele. Invece volevo togliere ogni distanza per il lettore: è di lui che si parla». Uno dei suggerimenti è: provare a scrivere per qualcun altro. «L’ispirazione mi è venuta da una storia che ho sentito: la prima hit dei Bee Gees, To Love Somebody, che è una grande canzone, ed è la quintessenza di un pezzo dei Bee Gees, i Bee Gees l’avevano scritta per Otis Redding...». Quindi funziona? «Per molti, scrivere è una battaglia. Allora chiedo: qual è il tuo cantante preferito? E tanti dicono: David Bowie. E io: ok, allora immagina di avere l’occasione di scrivere una canzone per lui, come sarebbe? Detto così suona come un sogno: toglie tutta la responsabilità, il peso del fare una dichiarazione personale al mondo e diventa solo un processo divertente e creativo. Ti liberi». Poi c’è la sperimentazione. È andata così con Johnny Cash? «Non c’era niente di programmato. Era venuto da me e volevamo conoscere i nostri gusti musicali, così si è messo a suonare le canzoni che amava, quelle che sentiva da bambino, quelle che ascoltava in chiesa, quelle che gli cantava la mamma, quelle degli anni ’50... Molte le abbiamo registrate nel mio salotto, come demo da portare in studio e registrarle con la band. Ma abbiamo provato una band dopo l’altra, e non funzionava, mentre le canzoni registrate in salotto erano più interessanti: la svolta è stata accettare che quello che ci piaceva davvero fosse quello che poteva essere pubblicato, anche se non era stato registrato per quello». Scrive che il successo non è la popolarità. Che cos’è? «Sentire che hai fatto una cosa vera, nel modo in cui la vedi. Per me, è quando dico: ok, possiamo produrla, possiamo pubblicarla. È difficile lavorare a un pezzo e dire: sono pronto a condividerlo col mondo. È una cosa che fa sempre paura». E dopo? «E dopo, se alle persone piace, è fantastico; altrimenti, va bene lo stesso, perché così è la cosa migliore che possa essere». Da musicista, come è diventato produttore? «Non ero proprio un musicista: suonavo la chitarra in una band, ma in modo amatoriale. E poi andavo nei club, a Manhattan, dove si suonava l’hip hop: amavo l’energia e il feeling della musica, ma nessuno, all’epoca, pubblicava album di hip hop. C’erano solo dei singoli, ed erano diversi da quello che sentivo nei club». In che senso? «Quei singoli erano registrati da professionisti della musica, mentre quelli che facevano hip hop erano ragazzini... Così ho creato la Def Jam, per documentare quell’esperienza». E così ha portato il rap nella realtà musicale? «Sì, ma non era la mia intenzione. Era la musica più underground a quel tempo, la ascoltava qualche centinaio di persone: ero un fan, nessuno l’avrebbe considerata una mossa buona per fare carriera». Che cosa rende bravo un produttore? «Posso dire quello che faccio io. La gran parte del lavoro è ascoltare l’artista, sentire chi sia, come si senta, sostenerlo nelle cose interessanti che può fare. E questo è diverso per ogni artista». Il più difficile con cui abbia lavorato? «Una volta ho fatto una jam session con Joe Cocker. Io amo Joe Cocker, ma non siamo riusciti a fare niente insieme. Il fatto è che lui non voleva essere Joe Cocker, era ossessionato da Sting...». Un album che avrebbe desiderato produrre? «Voodoo di D’Angelo: non ho mai sentito niente del genere. E poi Forever Changes dei Love: avrei voluto essere in quella stanza e vedere come sia potuto accadere, perché è così insolito...». A proposito di stanze, è vero che la svolta per i Red Hot Chili Peppers è stata cambiare luogo di registrazione? «Abbiamo registrato Blood Sugar Sex Magik in una villa meravigliosa, nel Laurel Canyon. Appena arrivato in California amavo girare in macchina per le colline e le montagne, e avevo visto questa villa, in questo luogo magico, e sognavo di mettervi piede». E poi? «E poi i Red Hot Chili Peppers avevano fatto quattro album e tutti e quattro erano stati una brutta esperienza. Così ho provato a creare un ambiente diverso, per una esperienza totalmente nuova: e, alla fine, sono entrato in quella casa... Bisogna solo aiutare gli artisti a liberarsi, a essere liberi di creare il loro mondo». Nient’altro? «Non concentrarsi troppo sull’album: non cerchiamo la perfezione, è più qualcosa che ha a che fare col divertimento e il sorprendersi nel processo di ciò che è possibile. E tutto questo crea dipendenza, perché è così divertente, e eccitante, e non sai mai che cosa succederà». Il libro è una sorta di meditazione. La consiglia ai suoi artisti? «Dipende dall’artista. Con molti di loro ho meditato: ho la fortuna di farlo da quando ho 14 anni. Per un artista, una delle cose più difficili è sentire certe voci autocritiche nella testa: ho conosciuto i cantanti migliori del mondo, e non erano in grado di riascoltare la propria voce... Ecco, uno dei benefici della meditazione è che ci aiuta a capire che quelle voci non sono noi, che possiamo lasciarle andare e avvicinarci alla possibilità di condividere ciò che è vero di noi». La sua canzone preferita? «Across the Universe dei Beatles. L’ho ascoltata milioni di volte, e mi fa sempre piangere».