il Fatto Quotidiano, 19 marzo 2023
Biografia di Edoardo Leo raccontata da lui stesso
Questione di tempo. “Quando nelle scuole i ragazzi mi parlano del successo, ogni volta domando loro i titoli dei miei film e ogni volta citano pellicole uscite negli ultimi otto anni”. Quindi? “A quel punto gli spiego che se vogliono valutare la mia carriera da attore non devono concentrarsi sugli ultimi otto anni, ma domandarsi cosa io abbia combinato negli altri venti”.
Edoardo Leo negli altri venti ha affrontato molte risalite e meno discese, è stato determinato, cocciuto, curioso, si è sentito più lavoratore dello spettacolo che artista (“oggi è diverso”); ha sbagliato provini (“in certi casi sono stati un disastro”), ha visto alcuni amici ottenere quel riflettore precluso a lui (“un po’ rosicavo”); ha pensato di smettere (“varie volte”); fino a quando ha deciso di diventare Maometto, superare la montagna-collina e trovare il sole (“la svolta è arrivata con il mio primo film da regista”).
Oggi è uno degli attori più cercati ed è il protagonista di Era ora, bel film diretto da Alessandro Aronadio, dal 16 marzo in onda su Netflix e già diventato un successo non solo italiano. “La prima volta che l’ho visto ho pianto per cinque minuti”.
Le è capitato in altri casi?
Raramente e l’ho guardato come se non ci fossi io, mi sono goduto la storia; (pausa) lo strano è che tra me e Dante (il suo personaggio, ndr) ci sono grandi differenze: lui non ama il suo lavoro, io sì, però è anche vero che negli ultimi dieci anni ho dedicato molto al set.
E già torniamo agli incontri coi ragazzi.
A loro spiego quanto è stato faticoso, quanto in alcune fasi avevo il problema di pagare l’affitto, con mesi in cui il telefono non squillava; racconto le delusioni, alcune forti, di quando sono stato cacciato da una serie televisiva.
Quale serie?
Non l’ho mai raccontato e quel produttore ancora mi scrive; sono stati anni tosti.
A cosa si è aggrappato?
Alla una passione folle per questo mestiere.
Passione od ossessione?
Ossessione, la passione è per gli hobby; e siccome sono stato bocciato in tante scuole di recitazione, ho studiato tanto da solo.
Da romanista si ritrova più nel genio irregolare di Cassano o nella metodicità di Tommasi?
Io sono più De Rossi.
Tradotto?
Uno che sta in mezzo al campo, detta i tempi, ma con i suoi tempi; (sorride) certo è un paragone un po’ azzardato. Con Daniele siamo amici.
Non l’ha delusa conoscerlo.
È una persona che mi piace tanto, pondera le parole, sa sempre cosa dire e poi ho amato la sua dichiarazione quando ha smesso di giocare: “Ringrazio gli avversari”. Lui ha ringraziato quelli con i quali si è scontrato sul campo, non è bellissimo?
Chi sono i suoi avversari?
(Si ferma, poi inizia la risposta, quasi si inceppa) Adesso credo di non averne; quando un attore arriva nella posizione privilegiata di poter scegliere i propri lavori, il peggior avversario può essere solo se stesso.
Mai il pubblico.
Per il pubblico ho un rispetto maniacale; ho lavorato con Gigi Proietti e Gigi aveva una venerazione per chi veniva a teatro, tanto che una volta ha dedicato una giornata intera a insegnarci come ci si inchina, come si ringrazia a fine spettacolo.
Ecco, come?
L’attore non deve restare a braccia aperte con il sotto testo “guarda quanto so’ figo”, ma deve inchinarsi, abbracciare, trasmettere la fatica fatta per portare in scena lo pièce.
Crede ai complimenti dei colleghi nel post-spettacolo?
Con il tempo ho imparato a decifrarli, a capire quali sono quelli di circostanza. Perché pure a me è capitato di farli.
La cena dopo lo spettacolo…
È fondamentale, è come la doccia dopo il calcetto; tanto non vado mai a letto prima delle due.
Sempre.
All’università aprivo i libri dalle dieci di sera, quando mi sono laureato papà non ci voleva credere: “Dimmi la verità, è una messa in scena? Non ti ho mai visto studiare”.
E invece?
Diplomato con 37 e laureato nel 1999 in Lettere con 110 e lode. Gli ultimi anni studiavo in tournée.
Perché ha continuato?
Era il piano B: se fosse andata male come attore, avrei insegnato Lettere; (sorride) gli ultimi esami non sono stati semplici da chiudere.
Non ha mollato…
Un po’ sono così, e un po’ c’era l’orgoglio: provengo da una famiglia di contadini da una parte, mia nonna pescivendola dall’altra, nessun laureato: volevo dimostrare di poterci riuscire.
Sabrina Impacciatore, rispetto al gruppo di artisti nati ne Il Locale, sostiene che lei è quello che l’ha stupita di più in quanto a costanza e tenacia.
Sabrina la ringrazierò sempre: ha partecipato al mio esordio alla regia quando non ero né l’attore del momento tanto meno il regista, mentre lei era già affermata; e ha accettato con un cachet basso.
Detto questo…
È vero, sono cresciuto in mezzo a un gruppo di amici talentuosi: penso a Daniele Silvestri, Valerio Mastandrea, Rocco Papaleo e tanti altri, tutti già riconoscibili, mentre a me offrivano piccoli ruoli.
E come si sentiva?
In alcuni momenti ho pensato se fosse il caso di andare avanti; però quella situazione mi ha forgiato e a un certo punto mi sono detto: “Ok, non mi danno i ruoli che credo di meritare, allora me li scrivo”. Il mio esordio alla regia nasce per frustrazione; (sorride) Diciotto anni dopo è uscito il 4 giugno del 2010, c’erano i Mondiali di calcio.
Come uccidere un film.
Non ci è andato nessuno, neanche i miei parenti.
E poi?
Lo abbiamo iscritto ad alcuni festival internazionali e ha iniziato a vincere premi. Siamo arrivati a 51 totali; (sorride) interpretavo un balbuziente e un giorno mi chiama Daniele Luchetti: “Ma tu davvero lo sei?”. “No”. “Ammazza…”. E dopo un anno dall’uscita mi telefona Massimiliano Bruno: “Edo, sei stato candidato ai David”. “Scusa, per cosa?”.
Non ci pensava…
È mutato un po’ tutto.
Lei ai David.
Avevo la sensazione dell’imbucato che si è fatto prestare un vestito.
I colleghi come l’hanno trattata?
Mi ferma Martone: “Ho visto il film ed è bellissimo, mi sono commosso, mi ha ricordato molte situazioni della mia vita”. Io stupito, il suo Morte di un matematico napoletano lo sapevo a memoria, e con lui non avevo mai azzardato neanche un provino; poco dopo incontro Carlo Vanzina: “Il tuo film fa morire dal ridere”.
Chi aveva ragione?
Entrambi e ho pensato: questo è il cinema che voglio portare avanti, in cui si ride e ci sono grandi sentimenti.
Comunque, quella sera è entrato nel Gotha.
I David andrebbero celebrati di più, sono importanti; (sorride) sono stato candidato nell’anno del premio alla carriera a Ettore Scola; ricordo Scola che sale sul palco e racconta: “Mi sono entrati i ladri in casa e mi hanno rubato anche tutti i David. Il giorno dopo me li hanno restitui ‘che ce facciamo co’ questi?’”. È il cinismo di quella generazione e l’ho adorato.
Massimiliano Bruno…
(Ferma la domanda, quasi d’istinto) Lui è uno dei miei grandi amici, come Maro Bonini e Claudio Amendola, per me zio Claudio: in questi anni quando ho avuto bisogno di un consiglio ho chiamato lui ed è stato fondamentale.
Tipo?
Tempo fa mi hanno proposto una serie lunga, lui veniva dai Cesaroni: “Ora no, rinuncia”. Aveva ragione; l’ho conosciuto che avevo 26 anni, e con me è stato sempre protettivo, e sono felice che il suo primo Nastro lo ha vinto con Noi e la Giulia (suo terzo film da regista).
Quando ha capito di essere diventato famoso?
La celebrità è una giostra, pure quando ero nel cast di Un medico in famiglia mi fermavano, ma non sapevano chi fossi.
Cosa ha imparato dal Medico in famiglia?
(Cambia tono) Un aspetto fondamentale: prima, e per anni, il mio book da presentare ai registi era composto da foto dove volevo risultare figo, pensavo a ruoli da eroe, credevo di rientrare nei “Romeo”; e invece con Proietti prima e con il Medico dopo ho scoperto che funziono con i ruoli da antieroe e che per qualche misterioso motivo suscito ilarità.
Ci è rimasto male?
All’inizio sì; Proietti mi disse: “Perché ti presenti con queste foto da figo. Non lo sei. Arrenditi”.
Nel Medico c’era Lino Banfi.
Non è uno dei miei attori di riferimento, ma proprio da lui ho visto come si tira fuori la commedia pure da scene dove commedia non c’è: invenzione pura; stessa situazione tempo dopo sul set con Gigi.
Quando inserirà una scena di sesso nei suoi film?
Le trovo inutili e noiose sia nel partecipare che a girarle; ne ricordo una con Anna Foglietta, non so come ci siamo riusciti, perché lei è una delle mie migliori amiche e sono amico pure del marito.
Accetterebbe di posare per un calendario sexy?
Per nessuna cifra e come direbbe Proietti non ho la tempra del divo; (pausa) non è un problema di inibizione, ho partecipato a uno spettacolo teatrale dove entravo in scena totalmente nudo, ma lì non ero io. Mentre nudo come “Edoardo Leo”, no.
Il regista è uno psicologo, un amico, un generale…
Dipende, ad esempio Ferzan (Ozpetek) è abbastanza uno psicologo e da lui ho imparato tanto, mi ha lasciato libero e allo stesso tempo mi ha guidato su un personaggio difficile; ma diversi aspetti li ho fatti miei una volta diventato regista.
Da attore pensa a come avrebbe girato se fosse stato il regista?
Mai, perché spesso i film che scelgo da attore non li avrei presi in considerazione da regista.
Esempio?
Perfetti sconosciuti non lo avrei girato.
Perché?
Deve scattare una scintilla; la stessa cosa me la disse Paolo (Genovese, ndr) rispetto alla Giulia: “Non lo avrei preso in considerazione, invece hai realizzato un film bellissimo”.
Di Perfetti sconosciuti aveva colto le potenzialità?
No e come me nessuno; (pensa) quando Paolo mi ha dato la sceneggiatura ha aggiunto: “Non so se me lo producono”; (ci pensa) è facile giudicare il film finito, ma sulla carta erano solo degli amici seduti a tavola per un’ora e quaranta; in teoria due palle.
Da regista mostra la parte agli attori?
Dipende, con alcuni puoi, con altri no. E devi capirlo in maniera veloce.
Viene adulato da quando è regista?
Solo da qualche attore sfigato.
E lei com’era ai provini?
Non brillantissimo, li soffrivo e alcuni ruoli li cercavo solo per necessità economica.
Ha mai chiesto aiuto ai suoi genitori?
No, sono sempre arrivato al limite della sofferenza.
Uno dei peggiori provini?
Con Bernardo Bertolucci per Io ballo da sola: mi sono presentato come un fan, non da attore; ho passato il tempo a ringraziarlo.
E lui…
Mi ha guardato con distacco, come fossi un invasato. O almeno credo.
L’oroscopo lo legge?
No.
Scaramanzie?
No, ho solo qualche rito.
Tipo?
Quando interpreto un personaggio spesso porto via le scarpe di scena, le indosso nel quotidiano.
Film della vita.
C’eravamo tanto amati.
È mai stato scambiato per qualcun altro?
Non so perché ma alcuni credono sia il figlio di Venditti, con successivi dialoghi surreali: “Non lo sono”. “Dai, non ti vergognare”. “Non è per vergogna, non lo sono!”.
Ha più soddisfazione da attore o da regista?
Dirigere mi piace tanto, asseconda la parte di me che voleva diventare insegnante.
Lei chi è?
Un commediante.