La Stampa, 19 marzo 2023
Intervista a Domenico Starnone
Roma, Prati, undici e mezzo del mattino. Domenico Starnone ordina un chinotto. Fa molte domande. È alto, è serio, ha gli occhi allegri. Dice: «Non possiamo fare questa intervista». Sul tavolo c’è un pacco di sigarette che non è suo, lui non fuma più da anni, da quando viveva in una casa che era soltanto una stanza e faceva l’insegnante. Di scuola parliamo a lungo: le riforme che non l’aggiustano mai, i ragazzi che ne escono avviliti, i ministri sempre bizzarri e l’ultimo, Valditara, che crede che l’umiliazione faccia crescere – «e io nemmeno so se si cresca». Niente di tutto questo lo preoccupa quanto il guaio principale, il guasto strutturale che per lui sta nel considerare la scuola come un mezzo per trovare lavoro. Lì inizia la stortura. Lo dice con rassegnazione intenerita, quella pigrizia buona che altrove sarebbe cinismo ma a Napoli è clemenza. A Napoli è nato, nel febbraio del ’43, è cresciuto, ha lavorato, ha ambientato molte delle sue storie. Il premio Strega, nel 2001, lo ha vinto con un romanzo che si chiama Via Gemito, che è una strada del Vomero. A Roma vive bene, da tanto.
Beve il suo chinotto con parsimonia, lo fa sembrare prezioso. Quando era un bambino, conservava i tappi, ci giocava: «È su questo che si fa letteratura: non sulla bottiglia in sé, ma sull’impatto tra me e la bottiglia, l’urto tra me e la parola chinotto, l’emozione che mi dà». Una signora si avvicina, dice «Ma lei è il Professor Starnone!», e si presenta come ci si presenta alle rimpatriate di compagni di scuola: prima la classe, poi l’istituto, poi l’anno del diploma, e alla fine il nome. Ha 58 anni, si è appena iscritta all’università, ai suoi figli dice sempre che della scuola non sanno niente, perché non hanno avuto Starnone. Interviene il marito, conferma: «Parla di lei continuamente». Fanno una foto, lo abbracciano, dicono: grazie. Prima di andare via, lei chiede: «Chi è Elena Ferrante?». Risposta: «Non lo so». Da molti anni si dice che Starnone e sua moglie, la scrittrice Anita Raja, siano Elena Ferrante.
Insegnare gli è piaciuto moltissimo. Lo colpivano gli errori: era quando uno studente sbagliava che accendeva il suo interesse. «La soddisfazione che provi quando ti dicono la data giusta della scoperta dell’America è soltanto vanità: ti hanno obbedito, hanno studiato. L’adolescenza, però, è un addestramento alla disobbedienza».
Cioè alla dissennatezza?
«No. In linea di massima, disobbedire è il lato sperimentale, inventivo, di ogni apprendistato. È chi ti vuole sempre obbediente che ritiene la disobbedienza una dissennatezza».
Nel suo ultimo libro, L’umanità è un tirocinio (Einaudi), scrive che la vecchiaia è il periodo meno assennato dell’esistenza. La saggezza della vecchiaia che fine fa?
«Forse è sempre stata una maschera. Il bel tempo si esauriva, si tiravano le somme, si cercava di non esagerare con la smania di vivere come se si fosse giovani. Oggi le cose si sono ulteriormente complicate. Grazie alla medicina del ringiovanimento, i vecchi sono sempre meno rassegnati all’indebolirsi del piacere di vivere, e quindi sempre più tristemente folli».
La rivoluzione si fa da vecchi o sempre? Da soli o tutti insieme?
«La vera rivoluzione è un "noi". È giovane anche in vecchiaia, e permanente».
Crede nell’anarchia?
«A partire dai vent’anni, e fino a oggi, mi sono immaginato, anticapitalista, antistalinista e antistatalista, un marxista riveduto e corretto di continuo dalla buona letteratura, che per sua natura non dà nessun peso agli "ismi" come agli "anti" e fa sempre e soltanto quello che le pare».
Perché agli italiani piacciono tanto i proclami di linea dura, se poi non sanno neanche rispettare una fila alle Poste?
«Perché proclamare che bisogna rispettare la fila alle Poste è più facile che pretendere uffici postali, ed altro, organizzati in modo da non fare file».
Il futuro la interessa?
«Quello degli altri sì, moltissimo. Il mio, a ottant’anni, mi lascia indifferente».
Qual è la prima cosa che vuole sapere degli altri?
«Se sono disposti a raccontare i fatti loro. Diffido delle persone che sostengono di non avere niente da raccontare».
E la prima cosa che guarda in uno sconosciuto che le siede davanti?
«Le orecchie».
Scrive che le piacciono gli errori perché sono bugie inconsapevoli e dicono molto della verità. Le interessa la verità?
«Mi piace lo sforzo sincero di approssimazione a ciò che chiamiamo l’altro da noi, gli altri. Ce ne facciamo rappresentazioni, che spesso però si rivelano fantasiose cantonate. Le cantonate piccole e grandi, specie quando sono generose e persino utili, secondo me dicono della condizione umana molto più di quelle che per un lasso di tempo, in genere breve, consideriamo scientifiche certezze».
Flaubert ha detto che uno scrittore deve comportarsi in modo che i posteri credano che non abbia vissuto. Che ne pensa?
«L’essenziale è che dai libri risulti il contrario».
Per scrivere è necessario aver capito?
«No, piuttosto si scrive per capire. E a volte, mentre si scrive, pare di aver capito davvero qualcosa di essenziale. È un momento esaltante che però a lavoro finito si indebolisce subito. Allora si torna a scrivere».
E ci si deve assumere una responsabilità?
«Non una sola. Tutte. Di ogni parola bisogna poter dire: io sono l’unico responsabile».
C’è qualcosa che non è riuscito a scrivere, qualcosa per cui le parole le sono risultate insufficienti?
«Il dolore che causiamo agli altri è la cosa più difficile da raccontare. Si intrufolano di continuo parole che di fatto ci giustificano. Quelle ce le abbiamo sempre sulla punta della lingua».
Cosa la condiziona?
«Gli affetti».
Com’è fare il padre?
«Difficile. Ora mi impiccio troppo, ora troppo poco».
Chi è il suo migliore amico?
«Un colto ironico signore che frequento da sessantacinque anni».
Si è pentito di qualcosa?
«Sì, di aver fatto soffrire».
L’egoismo fa parte dell’amore?
«Forse ne è la sostanza. Raggiunge il culmine quando mi amo al punto da volermi insediare e annullare in chi amo».
Cosa rovina l’amore?
«La distrazione».
Qual è la cosa più importante per lei?
«L’attenzione alle donne, che mi pare l’attenzione all’altro per eccellenza».
Il femminismo l’ha messa in discussione?
«Da cima a fondo, nella teoria. Nella pratica, mah».
In cosa ha riconosciuto la pressione del patriarcato su di lei e in cosa, invece, ha riconosciuto il modo in cui lei ha perpetrato il patriarcato?
«Sono cresciuto in un mondo che considerava le donne graziosi esseri inferiori, fragili e insieme infide, quindi da tenere sotto tutela. Poi mi sono messo a soqquadro, ho buttato via gran parte di ciò che mi era stato insegnato dalla nascita. Ma m’è rimasta da qualche parte l’idea che le donne non possano cavarsela da sole e che, sebbene vecchio e malconcio, sia mio compito sostenerle e slanciarmi a proteggerle».
Che ne pensa di Elly Schlein e del proclamato nuovo corso del Pd?
«Un corso è nuovo quando è l’effetto di un agire politico. Se l’agire di Schlein sarà la sintesi di novità politiche di rilievo, diremo che il Pd ha finalmente un nuovo corso. Se no, è costruzione mediatica, è propaganda».
E di Giorgia Meloni? Siamo un Paese irrimediabilmente di destra?
«Giorgia Meloni mi pare parte del neofascismo postbellico, quello che si è collocato sempre più a pieno titolo tra i vincitori della Guerra fredda e che oggi è in prova al governo. Ha il sostegno di quell’ampia fetta d’Italia tradizionalmente di scarsa cultura politica, raccolta in consorterie piccole e grandi, legali e illegali, sempre alla ricerca di un duce che tuteli il suo particolare spacciandolo per interesse generale».
Lei riesce ancora a soffrire, ma soffrire davvero, quando vede le immagini della guerra?
«Mi fanno arrabbiare, mi disgustano, mi spingono caso mai a distogliere lo sguardo. Ma senza trasferirci nell’altro non c’è vera sofferenza, al massimo scatta la commozione momentanea dello spettatore (o del lettore). E quel tipo di commozione si usura facilmente. Comunque anche l’immedesimazione serve a poco. Soffro, e poi? C’è bisogno di azione politica che obblighi a finirla con le guerre e un mucchio di altre porcherie».
Se Dio esistesse, ne sarebbe più o meno sollevato?
«È un’ipotesi che non prendo più in considerazione dalla fine dell’adolescenza. Ma il cervello con la vecchiaia si indebolisce e non si può mai sapere. Oggi come oggi, se a cose fatte dovessi scoprire che Dio esiste, chiedo scusa ai credenti ma sarei soprattutto indignato. Coi guai terribili che siamo in grado di causare a noi stessi, al nostro prossimo e al resto del creato, cosa fa il creatore, gioca a nascondino?»
Le piacerebbe vivere in un mondo dove l’umanità fosse libera dal lavoro?
«Lei parla del lavoro da cui uno cava salario e un altro profitto? Il lavoro che assicura l’indispensabile per vivere e toglie il piacere di vivere? Se è così, ben venga un’umanità libera dal lavoro. La cui alternativa, però, non può che essere un ozio molto operoso. O, perché no, anche l’ozio e basta, se lo si tollera».
Ha lavorato nei giornali a lungo. Cos’avevano, di più, di meglio, rispetto a ora?
«Be’, erano letti. Ed erano scritti per essere letti. Ci si sentiva ancora i primi a dare ogni giorno una forma al mondo. Ma era già un orgoglio residuale. Quel primato era da tempo al tramonto e non ce ne accorgevamo».
La satira è scomparsa?
«La satira si inabissa quando le dittature mettono in galera chi la fa. Ma non muore. Muore solo se il suo esercizio diventa un annacquato siparietto di regime».
Mi descrive il quotidiano dei suoi sogni?
«Non ho mai sognato quotidiani».
E la scuola dei suoi sogni?
«Una scuola che non sperperi intelligenze».
Ha avuto studenti che le hanno fatto pensare che la scuola andasse abolita?
«No. Ma mi è sembrato spesso che la scuola, per sua comodità, avrebbe volentieri abolito gli studenti».
Finga di avere 19 anni. Deve portare un argomento a piacere all’esame di Stato: quale sceglie?
«La ricreazione, a scuola e fuori della scuola. È un argomento interessante e complesso».
Cos’è il talento?
«Un’attitudine che ha bisogno di essere faticosamente, appassionatamente coltivata».
L’intelligenza artificiale la affascina?
«Sì, ma resto un ammiratore di quella naturale».
Che cos’è l’identità? È importante?
«No, non lo è. L’identità è una trovata dell’anagrafe e delle polizie, utile solo per avere il passaporto e varcare ogni possibile confine».
La prima cosa che fa al mattino, quando si sveglia?
«Resto a letto per una buona mezzora a pensare ai fatti miei».
Una sua vanità?
«Sono stupidamente contento di essere alto».
Quand’è stata l’ultima volta che ha pianto?
«Al culmine di una lite con mio padre. Avevo diciassette anni. È stato così umiliante che mi sono giurato che non avrei pianto mai più. Pessimo giuramento, sono diventato incapace di piangere. Le lacrime, se devono scorrere, scorrono dentro. Sono diventate persino loro una mia rappresentazione psichica».
La prima cosa bella che ha avuto dalla vita?
«La risata del tutto inventata di mia madre».
La morte la spaventa?
«No, non più. Ma mi ha spaventato molto fino a una ventina d’anni fa. Poi di colpo mi sono sentito sazio di giorni - espressione che amo - e lo spavento se n’è andato».
Qual è stato il suo più grande sacrificio?
«Rinunciare, intorno ai vent’anni, alle mie spropositate ambizioni letterarie. E tornarci su, dopo i quaranta, consentendomi di ridimensionarle».
Che succederà quando l’uomo non avrà più bisogno della scrittura?
«Niente. Vorrà dire che avrà inventato qualcosa di ancora più prodigioso. Però mi pare difficile».