Corriere della Sera, 19 marzo 2023
Su il «Bestiario selvatico» di Massimo Zamboni
Questo libro andrebbe letto lontano da altri esseri umani. Sì, andrebbe letto immersi in un silenzio che predispone il pensiero alle fantasticherie, sebbene tutto ciò che vi si racconta è reale. Sfugge alla maggior parte di noi, ma esiste, «sfugge all’occhio collettivo, disponibile ad accorgersene soltanto quando diventa evidenza o nocività conclamata». È un libro che spiazza per il suo sguardo. In sospeso tra un piccolo trattato poetico di etologia ed entomologia e una narrazione letteraria di qualcosa che ci circonda, e di cui noi, esseri urbanizzati, non ci accorgiamo quasi mai. Ma che l’autore invece, attraverso un linguaggio asciutto e luminoso, è capace di rendere vivissimo ai nostri occhi. Persino palpabile. Risvegliando una consapevolezza perduta per una parte di mondo, quello animale, che ci osserva, ci scruta, cambia le sue abitudini di vita per colpa nostra.
L’autore sa guardare (vedere, si sa, è solo un atto automatico e involontario), sa osservare e cogliere un universo animale in movimento, che si adegua. Compare e scompare. Massimo Zamboni, musicista – è stato chitarrista e compositore nei gruppi Cccp e Csi – e autore di diversi libri, fra cui La trionferà (Einaudi, 2021), pubblica ora il Bestiario selvatico. Appunti sui ritorni e sugli intrusi (La nave di Teseo), con il quale ci immerge nel regno animale che vive vicino a noi, nelle campagne, nei boschi, nei laghi, nei fiumi, nel fango...
L’autore narra di diversi animali – ad ognuno dei quali dedica un breve capitolo —, alcuni arrivati «clandestinamente» nel nostro Paese in fuga da altri, «in marcia, in volo, strisciando, nuotando», come il parrocchetto, la rana toro, il pesce siluro, l’ostrica portoghese, altri invece «di ritorno», dopo una lunga assenza in zone e territori che sono sempre stati loro. È il caso del lupo, della cicogna, del castoro. Proprio da quest’ultimo, l’animale che manca dai territori italiani da cinquecento anni e che ora è riapparso, parte il libro. «Quando l’ultimo castoro era appena stato ucciso, la Cappella Sistina era stata da poco inaugurata», scrive l’autore che è andato con un ricercatore a osservarlo in acqua: «Scivola in totale morbidezza in un elemento che per lui è casa, affiora, scompare, pinneggia, si pavoneggia perfino per quella confidenza che ha con l’ambiente liquido». Lo seguono nel racconto la tartaruga palustre americana – «prigioniera di una libertà di cui non sa cosa fare» – le larve, le lumache, le cimici, gli anfibi, i crostacei, gli istrici, le nutrie, le cicogne del Gavasseto che da una «trentina d’anni hanno inserito questo fazzoletto di campagna reggiana nelle loro rotte migratorie», i gamberi di fiume, l’anodonta che alcuni chiamano cozza d’acqua dolce, altri vongola cinese e che «dimora nelle acque lente».
Zamboni regala al lettore immagini intense, spalanca l’orecchio della fantasia, mostra un uomo che galleggiava su un barcone appoggiato in riva al Po. «Era stato uno degli ultimi a incontrare l’airone rosso», che per tanto tempo «è rimasto presente unicamente negli occhi chiusi di quell’uomo anziano». Sembra l’inizio di una favola misteriosa. O di una sceneggiatura. La scrittura trascina il lettore in un andirivieni di animali e si illumina di quel realismo magico, capace di aprire porte sull’ignoto. «Forse non dovremmo umanizzare così gli animali – si legge – eppure questa è l’unica difesa che abbiamo nei confronti della loro alterità e bellezza, che segretamente sentiamo superiori alla nostra».
C’è delicatezza nel suo pensiero, che riavvolge il tempo fino alle etimologie dei nomi degli animali. Un esempio: l’ibis eremita (che si era estinto in Europa per motivi sconosciuti nel XVII secolo), ovvero il Geronticus eremita, deriva il proprio nome dal greco geron, che significa vecchio nell’aspetto. «Per la sua testa calva e l’occhio ingiallito; per quel ciuffo di piume nere scompigliate sulla nuca, per l’abbondante rugosità che circonda le occhiaie, è un uccello che sembra aver avuto giornate migliori e che in qualche modo ora le stia piangendo». Sono loro dunque, gli animali (umanizzati), i protagonisti di questo libro fuori dalle rotte. Ci si sente osservati e giudicati da loro, anche se non accusano nessuno. La lettura mette in moto un senso di colpa atavico nei loro confronti. Anche quando si parla di animali come il cinipide galligeno, un imenottero infestante per i castagneti e di provenienza asiatica – noto anche come vespa cinese (Drycosmus kuriphilus) —, che nonostante i tre millimetri della sua taglia da adulto è stato inserito nell’elenco delle sette specie più pericolose. E che un altro imenottero (questa volta di origine giapponese), il Torymus, può arginare, perché si ciba unicamente delle larve di vespa cinese. Sono battaglie nel nome dell’ecosistema che non avvengono in steppe lontane migliaia di chilometri, ma dietro casa nostra, vostra.
Il sesto senso degli animali: i bruchi della piralide asiatica «non vengono predati dagli uccelli che riconoscono la loro tossicità senza doverla sperimentare, come fosse scritta loro addosso». La mostruosità di certi animali: quel «sommergibile carnoso che può superare il quintale di peso e i due metri di lunghezza» noto con il nome di pesce siluro. Raccontano gli uomini del Po che non si devono lasciare nuotare i bambini nei canali per evitare «di vederli sparire in quelle fauci cavernose».
Zamboni evoca la saggezza contadina del futuro, dice che dovremo iniziare a guardare gli insetti, per la loro facoltà di ribaltare in un attimo le nostre condizioni di vita. Perché nulla è più invisibile di un’evidenza.