Corriere della Sera, 19 marzo 2023
Iraq, 20 anni dopo
Bagdad è radiosa in questi giorni, l’aria ripulita dagli acquazzoni non troppo calda. Nel venerdì di festa è bello attraversare il Tigri su barchette a motore, andare nella città vecchia, bere succo di melograno, curiosare tra i libri di via Al Mutanabbi. Certo, ristoranti e negozi pagano il pizzo, per arrivare al fiume bisogna attraversare un dedalo urbano dove tutti passano col rosso e più l’auto è potente, maggiore è la paura che dentro possa esserci qualcuno in grado di sparare senza essere arrestato. Alla cassa dello Shabandar Caffè pisola il proprietario e i ragazzini che fumano le sue pipe ad acqua non fanno caso a tre foto appese dietro di lui. Sono i figli morti per un’autobomba di Al Qaeda davanti al locale. Due terzi degli iracheni hanno meno di 25 anni e faticano a ricordare il 20 marzo di 20 anni fa quando cominciò l’invasione americana, ma conoscono benissimo la disoccupazione, la violenza e la corruzione che ne sono seguite. «La guerra stupida» secondo Barack Obama. «La peggior decisione mai presa» secondo Donald Trump. Un’invasione che ammaccò il prestigio Usa, una tragedia in cinque atti da cui l’Iraq non riesce a riprendersi: invasione, resistenza sunnita, guerra civile sciiti-sunniti, crescita dell’Isis e, infine, la corruzione che si è mangiata il resto.
Nel 2003, il Pentagono sapeva della clemenza delle temperature primaverili e ne approfittò. L’ordine era di sbarazzarsi di Saddam Hussein, il dittatore che, assicuravano i leader americani e britannici, aveva armi di distruzioni di massa capaci di colpire Londra e minacciare il mondo libero con le sue ramificazioni terroristiche. Alla Casa Bianca comandava il repubblicano George W. Bush, ma il senatore democratico Joe Biden approvò la scelta: «Saddam è un estremo pericolo» sentenziò il futuro presidente. Quella era l’America che aveva vinto la Guerra Fredda. Davanti aveva una Russia che non minacciava nessuno e una Cina che pensava solo a svilupparsi. In quel mondo unipolare il pericolo era solo l’islamismo che aveva colpito le Torri Gemelle appena due anni prima. In nome della «guerra globale al terrorismo» Washington invase l’Afghanistan nel 2001 e, nel marzo del 2003, era pronta a fare lo stesso con l’Iraq. Col senno di poi, furono due guerre parallele in cui il Pentagono fece in fretta il suo lavoro, mentre i politici non seppero vincere la pace. Gli iracheni accolsero gli americani sperando di diventare una nuova California, ma già in estate la guerriglia cominciò a mordere e il ritiro nel 2011 fu, come per l’Afghanistan nel 2021, disastroso per il Paese occupato e umiliante per il prestigio occidentale.
Vent’anni fa era normale leggere saggi su come cambiare i regimi di altri Paesi e articoli come questo di Max Boot, ideologo neoconservatore: «L’invasione dell’Iraq darebbe la possibilità di installare la prima democrazia araba e mostrare al Medio Oriente che l’America è impegnata per loro come lo è stata per gli ex comunisti dell’Europa dell’Est». L’Occidente si divise. La Francia non partecipò, l’Italia sì. C’era chi criticava il progetto bollandolo come neocoloniale, ma dagli Usa si insisteva sul lato morale del disarmare un pazzo pericoloso, liberare i suoi cittadini ed esportare la democrazia.
Gli ispettori Onu non trovavano mai le armi di cui parlavano i servizi segreti. Gli Usa schierarono 225 mila soldati, più o meno lo stesso numero dei russi in Ucraina nel 2022. La differenza la fecero l’aviazione e la scarsa resistenza irachena. I marines entrarono a Bagdad in dieci giorni. Il primo maggio 2003 Bush proclamò: «Missione compiuta». Mai frase fu più falsa.
«Penso che la strategia americana fosse di istituire un governo fantoccio come avevano fatto in Afghanistan con Karzai. Qui la scelta era Ahmed Chalabi, un oppositore di Saddam in esilio con tanti amici a Washington. Hanno commesso così tanti errori che è difficile individuare il più grave. Forse permettere che assieme a loro entrassero nel Paese 38 servizi segreti stranieri. L’Iraq è diventato terreno di scontro tra potenze rivali». Falah Al-Thahabi è stato per anni il giornalista più famoso di Bagdad, tanto da riuscire a dare per primo la notizia dell’impiccagione di Saddam Hussein. «Prima del 2003 – spiega – l’Iraq era uno Stato laico, almeno il 20% delle famiglie erano miste tra sciiti, sunniti, curdi e arabi. Poi la costituzione frutto degli americani ci ha obbligati a identificarci in una religione o un’etnia. In arabo chiamiamo questa spartizione muhasasa. Sono cominciati i divorzi, poi gli scontri e la guerra civile. Gli sciiti, da sempre discriminati, si sono presi la rivincita e, grazie all’Iran, il potere. Quando invitavo in tv un analista sunnita, dopo qualche settimana veniva ucciso. A quel punto sono intervenuti Paesi come Arabia Saudita, Qatar ed Emirati che hanno aiutato i sunniti e in ultima analisi l’Isis».
Il Paese costruito dagli Usa è condannato ad avere un premier sciita, un presidente curdo e un capo del Parlamento sunnita, qualunque sia la competenza o la volontà degli elettori. Un Iraq che malgrado l’enorme ricchezza petrolifera ha il 50% degli abitanti sotto la soglia di povertà e 12 milioni di analfabeti su 40.
«Dagli Anni 60 il regime è stato socialista grazie allo scambio tra obbedienza e un certo benessere. Con gli americani è arrivato un capitalismo che produce lo stesso petrolio di prima, ma in compenso ha creato il 3% di ultraricchi legati alla politica, il 12% di dipendenti pubblici e il resto lavoratori poveri da 300 dollari al mese. Nessuno amava Saddam, ma questi vent’anni sono riusciti a farlo rimpiangere». Mazin al-Eshaiker è un economista in corsa per diventare primo ministro in quota al leader sciita Muqtada Al Sadr. «Oggi il problema sono le milizie armate che sfuggono al controllo dello Stato. Ci sono oltre 70 Ump, «Unità di mobilitazione popolare» che ricevono finanziamenti pubblici, ma ognuno dei 67 canali tv e delle 80 banche ha i suoi paramilitari. La proprietà? Le Ump legate ai partiti».
Subito dopo l’invasione, l’unico Iraq che funzionava rispondeva al telefono dal prefisso 001, quello degli Usa. Ora i cellulari sono tornati allo 0096 iracheno, ma per pagare con una carta di credito si continua a passare da New York. Così a Bagdad si accettano solo contanti. Washington ha il controllo formale della finanza, ma il resto, sicurezza, politica, economia reale, è dominato dall’Iran. Il costo della democrazia da esportazione.