il Giornale, 19 marzo 2023
Biografia di Renée Vivien
È vero che definiva gli uomini «nemici politici». Ed è vero che nel marzo 1906, quando lesse sul Figaro che due musulmane avevano rischiato il linciaggio per essere uscite di casa senza il velo, le rintracciò e offrì loro ospitalità e denaro (cosa che, se accadesse oggi, garantirebbe a tale esempio di «solidarietà di genere» le prime pagine dei giornali). Tuttavia, facendo i conti della serva, nella vita di Pauline Mary Tarn, ovvero Renée Vivien, ovvero «la Saffo della Belle Époque» (1877-1909), le persone alle quali fu più legata risultano quattro donne e quattro uomini. Le quattro donne: Violet Schillito, figlia di un industriale statunitense, compagna di scuola, di letture e di timide carezze; Natalie Clifford Barney, altra americana, il primo amore più che platonico, quello che non scordò mai; la baronessa Hélène de Zuylen de Nyevelt de Haar, con la quale formò a lungo una «coppia di fatto»; la turca Kérimé Turkhan-Pacha, una travolgente passione intellettuale, carnale e insieme sororale. I quattro uomini: il distinto e fascinoso cinquantenne Amédée Moullé, poeta, l’unico maschio che le entrò nel cuore, oltre che nella testa (dall’ultima lettera che gli inviò, diciassettenne: «Addio con amore e tenerezza. Io vi amo, caro, ecco le mie ultime parole. Addio, vi amo. La vostra bambina. Pauline»); Pierre Louÿs, l’autore di Le canzoni di Bilitis, quindi suo collega in materia di erotismo lesbico; il professore di versificazione Jean Charles-Brun, discreto, professionale, severo ma giusto nel valutare e aggiustare le creazioni che sistematicamente gli sottoponeva (lei nelle lettere lo chiamava «Suzanne»...); l’ultimo suo editore, Edward Sansot, tanto scaltro nel rilanciare e cavalcare il caso editoriale foriero di pruderie quanto paziente nel sopportare gli infiniti ripensamenti e giri di bozze che lei pretendeva. Sistemati i conti della serva, passiamo a qualcosa di più alto: la poesia. Per farlo dobbiamo attingere ancora, come prima, alla biografia di Renée Vivien scritta da Teresa Campi, edita da Odoya. Tecnicamente, la Nostra era quasi una tardo parnassiana: compostezza, bellezza, precisione. Però sul rifiuto degli atteggiamenti sentimentali non ci siamo. Al contrario: i suoi versi sono tutti sentimentali, e comprendono l’intera tavolozza, dall’odio all’amore. Diciamo allora che, inglese di nascita (nacque a Londra, che chiamava «città nera») e francese d’adozione (Parigi fu la sua vera patria, fra innumerevoli viaggi in tutto il mondo), Renée Vivien si sentiva un’antica greca, spiritualmente originaria dell’isola di Lesbo, come il suo riferimento culturale, la misteriosa, sublime e immortale Saffo. Così, studiò il greco antico per cogliere fior da fiore nel giardino incantato della Maestra ma, e qui risiede la sua importanza, non si limitò a studiare e imitare. Ci mise del suo, nelle numerose raccolte, ci mise la sensibilità di una donna moderna eppure immune alle mode della modaiola Paris-Lesbo: niente capelli corti, né abiti maschili, né scandaloso glamour. Severa con il mondo, lo era anche con sé stessa: «Sono la schiava, la prostituta,/ il fiore che si spoglia al festino del desiderio,/ la musica d’un’ora e il canto d’un piacere,/ ciò che seduce, ciò che si abbraccia e si dimentica./ (...) non credo che il mio odio sia meno del disprezzo,/ perché nel letto leggero delle false allegrezze,/ nell’amaro umidore delle false carezze/ ho preparato la trappola in cui soccomberai».