Corriere della Sera, 18 marzo 2023
La cancellazione dei sudtirolesi nel 1923
«La polizia venne a chiederci: “Papà in casa parla italiano o tedesco?”. Mio padre ci raccomandò: “Se tornano rispondete che col papà parlate in italiano e con la mamma in tedesco”. Erano piccole e grandi angherie quotidiane. Incancellabili». Tanto più, spiegò anni fa il «patriarca» dell’autonomia sudtirolese Silvius Magnago, che l’omonimo padre magistrato laureato a Innsbruck era nato sì a Rovereto e portava sì quel cognome «italico», ma «era trentino. E per noi storicamente il Trentino è il Tirolo di lingua italiana. Io stesso sono un cittadino italiano, rispetto le leggi dello Stato italiano ma la mia patria è l’Austria e resto un tirolese di cultura e educazione tedesca». Anche se, ammiccava, «posso capire certe cose degli italiani meglio di qualcuno che si chiami Mayer».
Per questo, spiegò, manteneva un rancore insanabile per Hitler e Mussolini. Perché con le loro «Opzioni» nel 1939 avevano costretto la sua stessa famiglia a scegliere tra lo stare di qua o di là di quel confine al Brennero che confine non era dai tempi più remoti. Tornato dalla guerra con una gamba mozzata, che gli serviva per bloccare ogni brusio nei torrenziali comizi («Insomma! Se so stare un’ora io su una gamba sola, potete ben stare voi mezz’ora a bocca chiusa!») chiamò i sudtirolesi alla riscossa picchiando duro proprio contro l’italianizzazione forzata.
Italianizzazione pretesa da Mussolini fin dal famigerato discorso di Trieste del luglio 1920, quando aveva teorizzato che la nazione italiana era un «blocco unico e compatto» tranne «180 mila tedeschi nell’Alto Adige, immigrati in casa nostra» (testuale), e avviata proprio cento anni fa, nel 1923. Quando il decreto reale del 29 marzo firmato da Vittorio Emanuele III, nella scia della nomina a senatore di Ettore Tolomei, lui pure di Rovereto, fascista della prima ora, massimo teorico dell’idea di spazzare via il tedesco dalle valli tirolesi, sancì l’adozione dell’italiano come unica lingua del Regno da imporre ovunque: dalle caserme alle scuole, dalle ferrovie agli uffici comunali, dagli ospedali alle osterie. Non c’era muro dove non troneggiasse un cartello: «Qui si parla solo italiano». Via i libri, i quaderni, i manuali in tedesco o in ladino, le lingue parlate fino ad allora da nove sudtirolesi su dieci. Via gli impiegati, gli ufficiali, i geometri, i bidelli, le segretarie e i maestri incapaci di «riciclarsi» nella nuova lingua. Via i cartelli stradali coi nomi di paesi, contrade, piazzette, viottoli da tempi immemorabili tedeschi.
C’era da ribattezzare un villaggio, un ruscello o un sentiero di montagna? «Signori, il catalogo è questo!», tuonava Ettore Tolomei aprendo il suo volumone di 8 mila nomi (destinati a salire a 10 mila circa) pronti all’uso. Alcuni si rifacevano ad antichi nomi latini come Egna, la cui origine risalirebbe alla Mansio Endidae, una stazione di posta romana sulla Via Claudia Augusta, fra Trento e Bolzano, ricostruita dopo un incendio nel 1189 come Burgum Novum de Egna per poi diventare Novum Forum e infine Neuwenmarcht e Neumarkt. Altri esempi? Kohlern (carbonaia) prese il nome di Colle, Kalch (fornace) quello di Calce, Wolkenstein in Gröden quello di Selva di Val Gardena, Hühnerspiel quello di Gallina alla Malga...
Interpretazioni (o invenzioni vere e proprie) fin dall’inizio contestatissime. Ma fortunate al punto di convincere il presidente americano Woodrow Wilson che alla Conferenza di pace di Parigi del 1919, puntato il dito sulla mappa dove un tempo era segnata Klockerkarkopf, avrebbe detto: «Vetta d’Italia! Perbacco: mi pare che il nome si commenti da solo». Per non dire dell’italianizzazione parallela sui nomi: «I cittadini che portavano un cognome tedesco dovevano presentarsi all’anagrafe e sceglierne uno nuovo fra una serie ristretta e improbabile di alternative», racconta Andrea Franzoso nel libro Viva la Costituzione. «Per esempio, i Messner potevano optare fra: Sagrestani, Dallamessa, Monego, Delmonego; i Kostner fra Costa, Dallacosta, Costantini; i Gruber fra Dallafossa, Dalla Fossa, Fossari. Gli Zuegg, invece, dovevano accontentarsi di Fuscelli». «Tra una cosa e l’altra, pigrizie burocratiche incluse, non credo che lo stravolgimento abbia colpito più d’un 20% della popolazione – ricorda lo storico Leopold Steurer – ma fu comunque uno stupro».
Lui, Tolomei, era soddisfatto di sé. Al punto di definirsi nella sua autobiografia Memorie di vita con parole di vanità: «Egli creò l’Alto Adige. Lo creò come concetto geografico attuale, lo impose alla coscienza della Nazione attraverso trent’anni di lavoro». Gaetano Salvemini lo farà a pezzi: «Fu l’uomo che escogitò gli strumenti più raffinati per tormentare le minoranze nazionali in Italia».
E come dimenticare l’italianizzazione mussoliniana della scuola? «All’inizio dell’anno scolastico ci assegnarono un nuovo maestro, il signor Ruggero Monteforte, un fascista dalla testa ai piedi», scriverà Claus Gatterer nel libro Bel paese brutta gente. «I suoi concetti preferiti erano Duce, rivoluzione e stile, stile fascista ovviamente. In ossequio a questo stile conveniva d’ora in poi che Duce si scrivesse in lettere tutte maiuscole, come pure i pronomi che a “Lui” si riferivano. Ligio a questo suo stile si presentò il primo giorno di scuola in divisa fascista, stivali neri con calzoni grigioverde e sopra la camicia nera, blusa grigioverde con il collare dell’Ordine sul petto, cintura nera e fez». Uno schifo. Accompagnato dal divieto assoluto di insegnare e di parlare tedesco. Contro cui il canonico Michael Gamper e altri uomini e donne di buona volontà inventarono le Katakombenschulen, scuole clandestine frequentate da almeno 30 mila ragazzi. Risposta straordinaria a chi tra il 1926 e il 1928 aveva piantato in faccia ai tedeschi sconfitti quel Monumento alla Vittoria dove una scritta latina diceva: «Da qui educammo gli altri alla lingua, al diritto, alle arti».
Un secolo dopo il Gran Consiglio del Fascismo del 12 marzo 1923 che annunciò i famigerati «Provvedimenti per l’Alto Adige, intesi ad una azione ordinata, pronta ed efficace di assimilazione italiana», grazie al cielo, è cambiato tutto. Anche se, va detto, la «proporzionale etnica» imposta dalla maggioranza tedesca per riequilibrare tante ingiustizie passate, ribaltando sistematicamente i rapporti di forza, ha finito alla lunga per commetterne di nuove. Togliendo ossigeno, dalla scuola alla sanità pubblica, alla minoranza italiana. Una cosa comunque è certa: in un’Europa in cui la conquista di brandelli di territorio e di sovranità costa ancora oggi guerre, mattanze, lutti e distruzioni, il Sudtirolo tedesco e italiano, con tutti i suoi limiti e i suoi equilibri non ancora rifiniti, resta comunque un esempio di convivenza. Per tutti. E per merito di tutti.