La Stampa, 18 marzo 2023
Eugenio Finardi per sempre ribelle
Tra chitarre e grandi divani, vista sullo stadio di San Siro e sugli alberi dell’ex galoppatoio, Eugenio Finardi si gode una seconda giovinezza e più che parlare vorrebbe suonare. Torna nella sua Milano, questa sera al Teatro Lirico, con un concerto, Euphonia Suite, che è un flusso ininterrotto di sonorità, un omaggio contemporaneamente a John Cage, Keith Jarret e Franco Battiato. Con un uso strumentale della voce che si fonde con il sax in sospensione di Raffaele Casarano e l’intensità del pianoforte di Mirko Signorile, muovendosi su un canovaccio formato da vecchi successi di Finardi con qualche tributo ai suoi autori più cari, da Fossati a Battiato, in una chiave talmente inedita da risultare nuova e assai bella.
Come è possibile?
«Euphonia è l’abbandono, la non ricerca della forma. Non è jazz, non è pop, non è classica, però contiene tutte queste cose».
Ispirate da...?
«Non ci crederai, ma dal Koln Concert di Keith Jarret, che ho avuto la fortuna di sentire più volte: lui suonava per un’ora e mezzo di seguito spaziando da Scarlatti a Satie. E anche noi, in questo spettacolo, suoniamo senza soluzione di continuità, spaziando tra vari generi».
Ha definito Euphonia «una cura». Da che cosa?
«Dalla depressione del lockdown. C’era bisogno di qualcosa di più dilatato, lungo, in cui perdersi. Insomma, se un ascoltatore dovesse addormentarsi per dieci minuti durante il concerto e poi risvegliarsi più tonico, non mi offenderei affatto».
Musica intimista, «oceani di silenzi» salmodiati: la musica ribelle è passata?
«No, è questa la mia musica ribelle del 2023, perché è fatta in libertà. Oggi tutte le grandi produzioni, persino i Rolling Stones, devono fare i conti con la mastodonticità dello show business: gli impianti luci, i palchi enormi, la difficoltà di sentirsi. Alla fine suonano con una libertà molto limitata. Noi invece siamo in tre su un palco, voce, piano, sax: liberi come l’aria di suonare e di creare al momento. Mai stato così felice».
In jazz veritas?
«Non è solo jazz. Una delle cose che abbiamo deciso con i ragazzi è: un assolo in meno come regola, per evitare eccessi di protagonismo. E poi io amo il blues».
A un certo punto Finardi è scomparso sul più bello degli Anni 80. Perché?
«In realtà non sono scomparso. Ho fatto uno strano percorso nei miei oltre 50 anni di carriera. Ma nei rutilanti anni della Milano da bere, ho iniziato con due dischi molto rock e poi ho avuto una figlia down, Elettra, nel 1982, e la mia vita è cambiata. Forse sono anche andato in depressione, però ho prodotto la Ragazza di Osaka, Dolce Italia, ero nel gruppo Target con Battiato, Giuni Russo, Alice, ma sempre un po’ da outsider».
Mai una gioia…
«Non è vero, in quegli anni feci anche La Forza dell’Amore, che divenne una pubblicità per la Fiat e arrivarono due soldi veri con cui ho comprato questa casa a un’asta fallimentare. Ma a quel punto c’era sempre l’ansia di fare una canzone radiofonica o per Sanremo. Nel 2002 ho chiuso i miei contratti discografici e ho deciso di autoprodurmi. Un modo di andare in pensione felice».
Il primo disco della libertà?
«Un fado cantato con Francesco Di Giacomo del Banco del Mutuo Soccorso. Un successo».
Un ricordo dell’infanzia?
«La Callas a casa mia, in via Vincenzo Monti. Mia mamma, americana del New Jersey, nata vicino alla casa di Bruce Springsteen, era un soprano leggero e insegnava canto, io avrò avuto 8 anni ed ero il più giovane abbonato alla Scala. Mi ricordo l’eccitazione di un pomeriggio in casa per questa signora che arrivava, lei mi salutò e io rimasi lì, intimidito».
Milanese o americano?
«Milanesissimo. Sono nato in via San Vittore, sono un figlio della zona nord».
E però, questi milanesi che «vivono vite di sponda», come canta in «Dolce Italia»…
«Sì, lo cantavo 30 anni fa quando c’erano i paninari e direi che va bene anche adesso, visto come vanno le cose. Allora c’era la Milano da bere...».
E adesso?
«Adesso non è cambiato poi tanto, ma è uno dei problemi della modernità che tocca tutte le grandi città attrattive: i prezzi salgono e certe realtà vengono espulse, il lockdown poi ha dato il colpo di grazia. Ricordo per esempio in via Cesare Correnti un meraviglioso ferramenta, e altri negozi un po’ ovunque ciascuno con una sua caratteristica, ora invece trovi solo negozi di abiti e di food, deprimente… È come se l’anima della città fosse scomparsa. A Barcellona dove vive mia figlia però, certe realtà piccole, artigianali, ancora resistono. Oppure Torino, che a me piace moltissimo».
Dunque si può resistere?
«Certo che si può, anzi, si deve. Altrimenti è la depressione dei giovani e la rabbia, l’abuso di alcol e di droga, la violenza gratuita. Io credo che la famiglia sia estremamente pericolosa per i giovani. A un certo punto bisognerebbe andarsene e basta. Una volta a fare da rottura per i maschi c’era il militare. Ora nemmeno quello e certe adolescenze si prolungano per anni».
A proposito di famiglie, che ne pensa di quelle Arcobaleno?
«Mi sembra che vietare il riconoscimento dei bambini delle coppie omosessuali sia una violenza stupida, gratuita verso questi poveri bambini. Credevo che certi temi fossero stati superati per sempre. Se non è un problema per me che ho settant’anni perché deve esserlo per altri?».
In «Diesel» canta che il carburante «è la giusta propulsione per la mia generazione». Oggi la lincerebbero. Il politically correct uccide l’arte?
«Uccide tutto, indebolisce la società. Gli Usa si sono persi dietro queste cazzate e la Russia intanto ha invaso l’Ucraina approfittando delle loro distrazioni, è il mondo reale contro quello delle parole».
Siamo meno liberi oggi?
«Sì».
E però la radio si accende ancora e libera la mente…
«È vero, sopravvive ancora, come uno dei mezzi di comunicazione più forti. È il mezzo più sano e democratico che ci sia. Se una radio però è libera, ma libera veramente…».