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 2023  marzo 18 Sabato calendario

Le incredibili bugie di H.G. Carrillo

H.G. Carrillo, all’anagrafe Herman Glenn Carroll, è nato bugiardo ed è morto scrittore. E viceversa. Ha mentito, solo in parte volontariamente, alla sua famiglia, ai suoi studenti, agli amici, ai datori di lavoro e a se stesso. S’è detto cubano scappato da Cuba a soli sette anni insieme ai genitori e invece era americano figlio di afroamericani, integrati e borghesi, di Detroit; s’è detto enfant prodige del pianoforte e invece non sapeva suonare; s’è detto laureato in letteratura molti anni prima di convincersi a laurearsi davvero, dopo essere stato licenziato perché il suo curriculum contraffatto era stato scoperto; s’è detto padre di un bambino avuto da una francese mentre collaborava al New Yorker (false entrambe le cose: gli erano servite per sedurre un ragazzo, nel 1993). Al liceo si faceva chiamare Marx. Raccontava di aver fatto il correttore di bozze, il pianista nelle scuole di danza classica, il venditore di scarpe, il critico d’arte, l’inscatolatore e invece ha fatto il cameriere, il professore, il libraio, e lo scrittore. Soprattutto lo scrittore: velleitario a lungo e poi, finalmente, nel 2004 aveva pubblicato un libro, Loosing my Espanish, che era stato ben accolto, talvolta osannato per via della lingua – «che può essere annusata, vista, toccata», aveva scritto Eduardo Galeano –, della fantasia, del lirismo. Qualcuno aveva persino parlato di reinvenzione del romanzo latino. E lui ne era stato fierissimo, perché era il mondo latino quello che aveva a cuore e al quale voleva appartenere, e nessuno di quelli che lo hanno conosciuto e amato possono ora giurare che, quando lui si diceva cubano, fosse consapevole di mentire. Anzi. Da adolescente si era innamorato di una persona trans, Miss Q’uba, e poi si era fidanzato con un colombiano, e poi era s’era iscritto a un corso di spagnolo, e poi aveva imparato a ballare come ballano i latini. E dire che i suoi genitori erano vistosamente orgogliosi delle loro radici afroamericane, e facevano shopping quasi solo in negozi gestiti da neri afroamericani, e facevano volontariato per aiutare i giovani neri vittime di razzismo. Lui, invece, prendeva un’altra strada, cominciava a trasformarsi nel protagonista di una storia che, anni dopo, è diventata un romanzo su un giovane cubano che scappa da Cuba e arriva a Detroit e fa l’insegnante: combatte per acquisire la lingua, per integrarsi senza farsi assorbire, senza annullarsi, senza diventare americano. Era il 2004 e agli scrittori non correva ancora obbligo di occuparsi solo e soltanto di sé, di raccontare storie di cui fossero protagonisti e in sostanza di coincidere con i propri libri, ma tra le ragioni per cui H.G. Carrillo ha mentito può esserci stata anche questa: temeva che la sua storia di migrazione, di scontro e fusione di mondi, non sarebbe interessata a nessuno, se l’avesse venduta come semplice opera di fantasia. Sedici anni dopo (a gennaio 2020), e pochi mesi prima che lui morisse, la scrittrice Jeanine Cummins è stata travolta da critiche e minacce per aver osato pubblicare un romanzo, Il sale della Terra (Feltrinelli), in cui raccontava quello che vivono i migranti messicani al confine meridionale degli Stati Uniti senza essere una di loro e anzi – aggravante – essendo americana, bianca, e privilegiata. Lei si è scusata e alla fine ha detto: «Avrei voluto che lo scrivesse qualcuno con la carnagione un po’ più scura della mia».
Era ed è un tema: può, uno scrittore, occuparsi della storia di un popolo che non è il suo? E come? Zadie Smith, nell’ottobre del 2019, aveva scritto sulla New York Review of Books il saggio Mi affascina presumere: in difesa della letteratura, in cui raccontava che scrivere, per lei, significava precisamente infilarsi in altre identità, desiderare ardentemente la vita degli altri, sentirsi incompleta da sempre e, per questo, trasmigrare immediatamente con l’immaginazione nel corpo di chi le stava intorno («raramente entro a casa di un amico senza immaginare di non andarmene mai più»).
Carrillo non immaginava tutto questo, le frottole gli venivano naturali, ma la ragione per la quale il New Yorker, ora, si occupa di lui sta anche nell’affascinante tassello che la sua storia ci permette di aggiungere a questa discussione così importante (e a volte grottesca) sulla natura del racconto, e su quello che alla letteratura sta accadendo ora che le identità taciute per secoli, sia perché oppresse e sia perché non riconosciute, prendono la parola e raccontano chi sono. Carrillo, però, ha mentito anche per altre ragioni, una delle quali è che inventare significa – l’etimologia lo dice – trovare e lui, nell’identità cubana, aveva trovato molto di sé. Il suo compagno, l’entomologo VanEngelsdorp, ha detto al New Yorker: «La razza, biologicamente, non esiste: è un costrutto culturale e, in quanto tale, è una performance». A quella performance, Carrillo ha dedicato tutta la vita. Ha scritto di un esule cubano trasformandosi in un esule cubano attraverso la versione di sé che dava al mondo, attraverso gli arredi di casa, le esasperazioni del linguaggio. E quando ci è riuscito, quando per tutti era lo scrittore di un grande romanzo autobiografico, ha cominciato a esagerare tutto, a scrivere racconti pieni di trasfigurazioni, perché dell’identità non solo gli era chiaro il gioco, ma pure la trappola. I primi di marzo, la scrittrice Espérance Hakuzwimana, autrice Einaudi, nata in Ruanda e cresciuta in Italia, ha raccontato su Instagram le ragioni per cui ha interrotto il tour promozionale del suo libro: «Mi sono ritrovata distrutta non solo per una serie di episodi di discriminazione che ho subito, ma per la continua richiesta di me e solo di me, quando io volevo raccontare una storia». Intendeva che l’interesse per la sua storia personale, il suo vissuto, la migrazione, il passato, era soverchiante rispetto all’interesse per la sua letteratura e, in sostanza, che il suo ruolo di scrittrice era stato trascurato, ridimensionato, triturato dalla morbosità. Anche da questo, forse, mentendo, Carrillo ha provato a difendersi. Ed è la ragione per cui la sua famiglia e il suo compagno lo hanno perdonato quando hanno scoperto le sue bugie, leggendo un ritratto del Washington Post dopo la sua morte (un coccodrillo), dove niente tornava e però tutto era incredibilmente più importante, e quindi vero, della realtà.