La Stampa, 18 marzo 2023
Facio, la Resistenza imperfetta
La Resistenza è da decenni oggetto di attenzioni e di scavo da parte degli storici e nonostante questo enorme lavoro continuano a emergere storie che ci aiutano a comprendere come la dimensione eroica di quegli anni si sia spesso accompagnata alle dinamiche delle lotte di potere individuali e politiche. Indagine sulla morte di un partigiano, il saggio scritto da Pino Ippolito Armino sulla storia (non a lieto fine) del comandante partigiano Facio, è un contributo utile alla rilettura del fenomeno resistenziale in un’epoca contrassegnata dalla progressiva scomparsa dei testimoni diretti a causa del naturale incedere del tempo, sebbene la maggioranza degli avvenimenti raccontati siano circoscritti in una ben determinata zona dell’Appenino tosco-emiliano.
Dante Castellucci, nome di battaglia Facio, era nato a Sant’Agata, un piccolo centro in provincia di Cosenza, il 6 agosto del 1919 ed era entrato in clandestinità prima dell’8 settembre 1943.
A tre anni aveva seguito il padre, migrante economico, e la madre, in Francia, dove trascorse la sua giovinezza prima di far ritorno in Italia nel giugno 1939, alla vigilia dello scoppio della Seconda guerra mondiale.
«Un tipo! Bassino, biondino asciutto, robusto. Un viso disteso, buono, una bocca disposta continuamente al sorriso e gli occhi luminosi, intelligenti. Quel suo italiano incerto, misto di dialetto paesano e di francese, lo rendeva interessante, simpatico e al tempo stesso lo predisponeva a un rapporto amichevole con tutti», così lo ricorda un amico calabrese.
Chiamato alle armi in vista dell’entrata in guerra dell’Italia di Mussolini, alla visita di leva dichiarò di essere un pittore, nel senso usato dalle sue parti di imbianchino e nel giugno del ’42 si offrì volontario per la Russia, dove rimase ferito nel dicembre dello stesso anno. L’esperienza militare e il fronte russo rafforzarono un forte sentimento antifascista e lo avvicinarono all’idea comunista.
Il suo battesimo insurrezionale è datato 22 giugno 1943, quando assaltò, insieme a un piccolo nucleo di ribelli, il poligono di tiro a Guastalla, in provincia di Reggio Emilia. Pochi giorni prima della caduta di Mussolini, il 20 luglio, Castellucci disertava e il 27 dello stesso mese lo ritroviamo tra i partecipanti alla famosa "pastasciutta antifascista" organizzata da Alcide Cervi sulla piazza di Campegine per festeggiare i quintali di grano sottratti all’ammasso imposto dal regime.
Catturato insieme ai fratelli Cervi il 25 novembre 1943, venne trasferito nel carcere di Parma. Riuscì ad evadere in modo rocambolesco, alimentando il sospetto che fosse lui la spia che aveva portato i fascisti a cascina Rossi.
Sulla testa del "calabrese", così Dante era conosciuto nella cascina rifugio dei Cervi, iniziò a pendere una condanna a morte per spionaggio emessa dalla federazione di Reggio Emilia del Partito comunista. Un’accusa mai dimostrata e figlia di un clima esasperato di sospetti legati all’esuberanza e all’attivismo di Dante e dei suoi compagni, in aperto contrasto con una linea più attendista del Pci reggiano. Da qui, secondo alcuni, la scelta del nome di battaglia di Facio, prima persona dell’indicativo presente del verbo latino "facere", espressione di una volontà di agire rapidamente e non attendere troppo per il passaggio alla lotta armata.
Facio, braccato nel reggiano, si trovò costretto a chiedere asilo ai compagni di Parma. Ebbe così inizio la sua avventura organica nel partigianato che lo porterà fino al comando del battaglione Picelli e a diventare un autentico mito tra i partigiani della zona sia per il suo coraggio e la sua intraprendenza sia per il rapporto cameratesco con i compagni di lotta.
Il libro ricostruisce le innumerevoli azioni partigiane nell’area della Lunigiana, sull’Appennino tra le province di La Spezia e Parma, e le risposte dell’esercito tedesco occupante, supportato dalle truppe italiane rimaste fedeli alla Repubblica sociale italiana. Una lunga scia di morti e devastazioni di cui rimasero vittime non solo i combattenti in armi, ma anche centinaia di civili inermi, spesso uccisi dai nazifascisti per rappresaglia e per futili motivi.
Il 22 luglio 1944 toccò a Facio essere colpito a morte. Non dal nemico, come recita la motivazione del conferimento alla memoria della medaglia d’argento al valor militare, datato 27 aprile 1962, ma per mano dei suoi stessi compagni.
Fucilato dopo un processo partigiano farsa oppure vittima di un’imboscata tesa da altri partigiani, questo rimane ancora oggi non pienamente chiarito. Resta il fatto di un comandante partigiano ucciso da chi, fino al giorno prima, aveva combattuto al suo fianco.
L’autore prova a ripercorrere le ultime ore del comandante Facio e soprattutto a ricercare le motivazioni che portarono alla sua condanna a morte. La principale accusa che gli venne mossa era quella che, con la complicità di alcuni suoi uomini, Facio avesse sottratti armi, materiali e soldi provenienti da alcuni lanci alleati. Ci sarebbero stati agli atti anche una sua confessione scritta con tanto di lettere di addio, sulla cui autenticità sono sorti nel tempo molti dubbi e comunque appare assolutamente spropositata la pena capitale inflitta a un comandante partigiano in relazione alle colpe di cui si sarebbe macchiato.
Nella ricostruzione dell’autore, il regista dell’uccisione di Facio sarebbe il commissario politico, Antonio Cabrelli, che avrebbe agito per bramosia di potere in un contesto in cui il comandante del Picelli si stava opponendo al passaggio del suo battaglione dalla zona di competenza della federazione comunista di Parma a quella di La Spezia, al fine di riequilibrare nello spezzino i rapporti di forza con la colonna di Giustizia e Libertà e le altre formazioni autonome e cattoliche.
Parafrasando il titolo di un esemplare libro scritto alcuni anni fa da Giovanni De Luna, La Resistenza perfetta, la storia di Facio descrive una "Resistenza imperfetta", anch’essa però meritevole di essere raccontata per restituire nella sua interezza la complessità del fenomeno resistenziale.