la Repubblica, 18 marzo 2023
Ritorno a Baghdad 20 anni dopo
Nemmeno il tempo di finire la prima domanda e l’intervistato interrompe l’intervista. «Tu dici che sono passati vent’anni dall’invasione americana, ma io non sono d’accordo con questo termine: invasione. Preferisco parlare di liberazione». Siamo seduti nella hall di un albergo di Baghdad, l’interlocutore è un politico iracheno che lavora alla Commissione Sicurezza e Difesa del Parlamento ma non vuole vedere il suo nome pubblicato «perché alcuni argomenti fanno ancora arrabbiare i suscettibili, non si può parlare in libertà. Anche se poi in privato molti la pensano come me. L’intervento esterno degli americani ci ha liberato dalla dittatura di Saddam Hussein e noi non ce l’avremmo mai fatta da soli. Forse oggi saremmo nelle mani di uno dei suoi figli, Uday o Qusay, che erano pure peggio di lui». Dentro al Parlamento iracheno sono in molti a condividere questo punto di vista? «Dentro al Parlamento c’è una massa di ipocriti. Sono sciiti come me e il loro è un antiamericanismo di facciata, senza gli americani oggi saremmo nelle celle di Saddam oppure in esilio, di sicuro non saremmo qui a fare politica».
Quando nel 2008 George W. Bush – il presidente americano che aveva deciso di fare la guerra a Saddam – venne in visita a Baghdad, un giornalista iracheno gli tirò una scarpa e il video fece il giro del mondo. «Cane! Sei un cane!», gridava il giornalista e non sembrava il trattamento riservato a un liberatore. Lo sciita risponde con un gesto della mano, come a scacciare un dettaglio di poca importanza: «Quello fu il risultato di una sfida, lo sanno tutti che quello il giorno prima aveva scommesso che avrebbe tirato una scarpa contro Bush durante la conferenza stampa».
La grande illusione
Nel 2003 i soldati americani arrivarono a Baghdad convinti che la guerra sarebbe stata una cosa veloce. «Cambiare il regime sarà come sostituire il microprocessore di un computer, togli quello vecchio e metti quello nuovo», aveva detto DouglasFeith, sottosegretario alla Difesa e consigliere politico di Bush, ed è soltanto una delle molte dichiarazioni baldanzose che rendono lo spirito di quel periodo. In realtà le cose andaronomalissimo. La prima fase del conflitto durò soltanto tre settimane e l’esercito iracheno si dissolse davanti alla potenza di fuoco degli Stati Uniti, ma poi l’autorità temporanea a guida americana cominciò a infilare una serie di errori e nel giro di pochi mesi perse il controllo di molte aree del Paese, soprattutto di quelle a maggioranza sunnita – che per decenni erano state coccolate da Saddam Hussein ed erano quelle che avevano più da perdere dal cambio di regime. Da tutto il mondo arabo cominciarono ad arrivare fanatici che desideravano morire combattendo contro le truppe straniere e consideravano un onore fare parte di Al Qaeda, il gruppo terroristico che due anni prima aveva attaccato gli Stati Uniti. La guerra convenzionale era stata vinta, ma al suo posto era arrivata una guerriglia infinita fatta di imboscate, decapitazioni e attentati suicidi con camion bomba che si protrarrà per otto anni. Invece che essere intimoriti dalla fine di Saddam, le due dittature vicine, Siria e Iran, cominciarono ad aiutare estremisti e guerriglieri nella speranza di infliggere molte perdite all’esercito americano impegnato in Iraq. L’opinione pubblica mondiale, che si era schierata con forza contro quella guerra ed era molto scettica sulle ragioni che l’avevano scatenata, adesso guardava al disastro quotidiano con l’aria di chi pensava: te l’avevo detto. Bisogna arrivare al febbraio 2022 e al tentativo fallito di Putin di conquistare Kiev in tre giorni per vedere un errore di calcolo più grave.
Il momento simbolo della prima fase della guerra arriva il 9 aprile 2003 a piazza Firdous, nel centro di Baghdad. Un paio di hotel pieni di giornalisti stranieri affacciano sulla rotonda, dove i soldati americani agganciano a due cavi d’acciaio la statua di Saddam Hussein – dodici metri di metallo – e la tirano giù davanti a una piccola folla di iracheni. Oggi al centro della piazza non è rimasto nulla, c’è un niente pulito, è sparito anche il piedistallo e le sentinelle irachene non vogliono che i passanti facciano video con i telefoni. Sul palazzo dirimpetto un manifesto copre la facciata intera ed è dedicato al generale iraniano Qassem Suleimani, che si occupava delle operazioni clandestine in Medio Oriente per conto dell’Iran e fu ucciso da un drone americano nel gennaio 2020 sulla strada dell’aeroporto di Baghdad. Si chiama marcare il territorio: chi passa a piazza Firdous nei giorni dell’anniversario della fine di Saddam Hussein per mano degli americani non può fare a meno di vedere il leggendario generale dell’Iran.
Un calcio al passato
L’allenatore spagnolo Jesús Casas gira rilassato e sorridente, in questo periodo è illuminato dall’adorazione degli iracheni. La nazionale di calcio dell’Iraq ha vinto la Coppa del Golfo a gennaio e lui era arrivato sulla panchina soltanto a novembre, tanto è bastato per dargli lo status di uomo del destino. «È stato bello vedere la felicità di tutti, se la meritano dopo questi anni di sofferenze», dice a Repubblica. Adesso punta al prossimo Mondiale – «naturalmente intendo le qualificazioni, non la Coppa, le qualificazioni sono già un bel risultato». Casas sostiene che in Iraq c’è talento calcistico dappertutto, «è come il Brasile o la Spagna o l’Italia dove vedi i bambini cominciare a giocare prestissimo in strada. La sola cosa che va aggiunta è il modulo tattico, per battersi alla pari con le altre squadre». L’Iraq è un paese complicato, com’è allenare i suoi giocatori? «Il primo giorno ho detto al team: non mi importa se siete sciiti o sunniti o curdi, siete la Nazionale. Mi hanno ascoltato».
La vittoria al torneo di calcio più importante della regione è stata un colpo contro l’immagine stereotipata dell’Iraq, fatta di debolezza, di impotenza e del rapporto di sudditanza con l’Iran. Si stanno muovendo molte cose. «La Cina si è presa tutto il merito dell’accordo tra Arabia Saudita e Iran, ma in realtà gli iracheni hanno fatto un gran lavoro di riconciliazione dietro le quinte, si considerano gli artefici della svolta e ora non sono per nulla contenti che il loro ruolo non sia stato riconosciuto», spiega aRepubblica il generale italiano Giovanni Maria Iannucci. Iannucci è il comandante della Missione Nato in Iraq, che tra un paio di mesi passerà agli spagnoli, e considera il Paese un posto strategico per ragioni disicurezza, politiche, economiche e di posizione. «È nel nostro interesse seguirlo con attenzione, l’ho detto al presidente del Consiglio Meloni quando è venuta a dicembre».
Il generale dice anche che fra i comandanti iracheni si parla – per ora soltanto a livello di ipotesi lontana – di una possibile partnership con la Nato e la cosa ha creato attenzione, soprattutto adesso che le adesioni alla Nato sono diventate una scelta di campo precisa nell’ordine del mondo. «I soldati iracheni sarebbero utilissimi come partner della Nato, se ci fosse una missione in questa regione sarebbero molto adatti a formare un contingente». In Iraq gli italiani hanno buone connessioni con le forze di sicurezza, il comandante della polizia federale irachena è appena stato in Italia per organizzare i suoi uomini sul modello dei carabinieri – “carabinieri” è una parola italiana conosciuta bene in Iraq – e come addestratori gli italiani sono considerati fra i migliori. Anche qualcosa di più. Gli incursori del Nono Reggimento Col Moschin, le forze speciali italiane, sono impegnati in attività di cosiddetto mentoring durante le operazioni contro i resti dello Stato islamico, nel nord dell’Iraq. Vuol dire che escono dalle basi e prendono parte da vicino alla campagna permanente dei militari iracheni per eliminare i terroristi.
A casa degli sconfitti
A un’ora di strada da Baghdad c’è Falluja, ex capitale dei fanatici sunniti che combattevano contro i soldati americani e culla, assieme alle altre città della regione di al Anbar, di quello che poi diventerà lo Stato islamico. All’epoca si calcolava che non potessero passare più di quaranta minuti senza un attacco. Per andarci oggi si prende un taxi condiviso e poi si viaggia dritti quasi senza controlli né posti di blocco. C’è un senso di normalità totale mentre dai finestrini sfilano i luoghi che nel 2004 occupavano i notiziari di tuttoil mondo: il cavalcavia dove l’antennista americano Nicholas Berg, che era venuto in Iraq per lavorare come civile, fu trovato appeso per i piedi, senza testa e con indosso una divisa arancione da detenuto. Era stato decapitato davanti a una telecamera dal leader dei terroristi in persona, il giordano Abu Mussab al Zarqawi. C’è il ponte di ferro sull’Eufrate dove quattro contractor furono fermati, linciati e appesi anche loro. C’è il quartiere Al Jolan, appena a nord del ponte di ferro, che all’epoca faceva da base per Zarqawi e per i suoi combattenti stranieri. «Me li ricordo, venivano da ogni luogo, c’erano anche russi e ceceni», dice Ibrahim, un professore universitario di teologia. Ibrahim fu arrestato dai soldati americani quattro volte, e sempre rilasciato nel giro di poche ore, poi nel 2014 venne arrestato anche dallo Stato islamico, ma anche in quel caso riuscì a cavarsela.
Vuoi sapere cosa è cambiato da allora a oggi a Falluja?, chiede. «La città è diventata meno religiosa. Insegno in un college islamico, ma adesso le cose vanno meno bene perché ci sono meno iscritti. È come se la gente si volesse dissociare dalla religione dopo che gli è stata imposta con la forza, c’è meno attaccamento, chi va in moschea sta a guardare Instagram sul telefono durante la predica e non vede l’ora di uscire. La gente fa anche meno caso ai segni e alle bandiere degli sciiti: un tempo saremmo usciti a strapparle, adesso ci comportiamo come se non le vedessimo. Il riferimento è ai vessilli verdi che i soldati iracheni, spesso sciiti, appendono per segnalare il dominio sugli abitanti di Falluja, che sono orgogliosamente sunniti. «Gli americani hanno rovinato tutto».
È venerdì, da vicino arriva il suono potentissimo degli altoparlanti della moschea al Hadra al Muhammadiyah che trasmettono in diretta le parole del predicatore. «Era la moschea dove si riunivano i volontari stranieri che erano arrivati a Falluja con Zarqawi. Conosco il predicatore che sta parlando, nel 2003 e 2004 raccoglieva fondi per i guerriglieri». Il tono della predica è minaccioso e pieno d’enfasi. Ma sta dicendo che è importante andare a trovare i propri genitori.