il Giornale, 17 marzo 2023
Onanisti, finocchi e mariti in mutande: un carteggio Ansaldo-Montale
Giovanni Ansaldo e Eugenio Montale, due pesi massimi del giornalismo e della letteratura del ’900, avevano un solo anno di differenza – il primo era nato nel novembre del 1895, il secondo nell’ottobre 1896 – entrambi genovesi, entrambi con ambizioni intellettuali – il primo però aveva fatto il Classico, il secondo l’Istituto tecnico commerciale – entrambi collaboratori, giovanissimi, del Giornalino della Domenica, il settimanale per ragazzi fondato nel 1906 da Luigi Bertelli, alias Vamba. Frequentarono, a Genova, gli stessi ambienti, e Montale collaborò in modo altalenante con Il Lavoro quando Ansaldo era caporedattore, negli anni Venti. Non si può dire che i due fossero amici: ma si frequentarono molto, fra aiuti reciproci, stima, invidie, punzecchiamenti e dispetti (dandosi sempre rigorosamente del Lei). Una testimonianza del loro rapporto è un gruppo di lettere, una trentina in tutto, che il giornalista e il poeta si scambiarono in un arco di tempo molto lungo, dal 1925 al 1954: conservate alla Fondazione Ansaldo di Genova vengono pubblicate oggi per la prima volta nel nuovo fascicolo dei Quaderni montaliani (Interlinea) a cura di Diego Divano, ricercatore dell’Università di Genova. Di per sé il carteggio ha una grossa rilevanza, ma solo per il mondo dell’Italianistica. Se non fosse che tre di quelle lettere danno vita a una querelle sui costumi sessuali degli italiani durante il Ventennio molta curiosa dal punto di vista giornalistico. Tra «ragazze della domenica», «mariti in mutande», «onanisti» e «finocchi». Comunque, eccoci al punto. Accade che Giovanni Ansaldo – siamo nel 1934 – proprio sul Lavoro di Genova scrive una serie di articoli di costume in cui, da una posizione di convinto conservatorismo, stigmatizza alcune abitudini diffuse nei Paesi del centro e del nord Europa, come quella dell’esibizionismo balneare o delle «sonntagsmadchen», le «ragazze della domenica» con le quali si accompagnavano – senza fini sessuali – gli uomini non sposati e di cui aveva letto in una corrispondenza da Praga sul Corriere della sera. Nel caso tale usanza fosse malauguratamente migrata in Italia, Ansaldo si confessa scettico in merito alla reale pudicizia e castità delle nostre «accompagnatrici». Insomma: la stessa consuetudine trasportata in un contesto culturale diverso avrebbe trasformato un rapporto di amicizia in un giro di prostituzione, corrompendo la morale corrente... Montale legge l’articolo di Ansando, e gli scrive una lettera in cui di fatto gli suggerisce di non essere così severo, e di fare i conti con la realtà. «Tempo fa Lei scriveva che il torto dei nostri calligrafi era di non ch****** abbastanza ed è vero – dice Montale ad Ansaldo -. Ma allora perché incoraggia questa mentalità di mariti in mutande e di onanisti che è di regola da noi? Non sa che a Roma (e non è colpa del regime ma della mentalità italiana) la percentuale dei finocchi ha superato quella delle maggiori città straniere?». Interessante la replica di Ansaldo: «Sì, caro Montale; più vado avanti, e più divento ortodosso, e strettamente ortodosso, in questioni di morale pratica, e di costumi. Il popolo italiano non può adottare usi e abitudini di popoli nordici, senza imbastardirsi, e perderci di dignità e di forza; allo stesso modo, e per le stesse ragioni, per cui le nostre donne non possono adottare mode libere e spregiudicate, fatte per donne di altre razze, senza diventare delle sgualdrine». E ancora: «I modi liberi, le sonntagsmadchen, l’esibizionismo balneare, sono tutte cose, da noi, sconvenienti e dannose, appunto perché, da noi – e specialmente nell’Italia più Italia, cioè da Roma in giù – l’uomo ha una prontezza sensuale più viva e immediata che nel nord-europa. Si capisce poi che questa prontezza bisogna che si sfoghi: e si deve sfogare con l’ausilio di una antichissima istituzione, che qui fu sempre di casa cioè il postribolo. Il postribolo, in Italia, è la garanzia suprema della decenza e della dignità dei costumi!». «Si capisce, che, con una gioventù del temperamento di quella romana, chiudendo i casini da una parte, si moltiplicano i finocchi dall’altra... E si trasforma, necessariamente, tutto il Lido di Ostia in un unico e vasto postribolo; dove, sotto il nome di igiene, di elioterapia, di nuova mentalità, eccetera, sono prostituite tutte le figlie della piccola borghesia romana!». La risposta, ultima, di Montale è del 23 luglio 1934, e rivela una posizione più laica, più sfumata, più sentimentale (cui forse non è estranea – azzarderebbe qualcuno – un’omosessualità latente del poeta, o una sua impotenza sessuale, sublimata nelle note Muse). «Lei pensa che i rapporti sessuali possono esaurirsi nel matrimonio e nella prostituzione. Possono, infatti; ma debbono? E questi rapporti sono tutti sesso o lo sono per un quarto solo, riservandosi gli altri tre quarti a quel romance ch’è una forza addirittura imperiale?». «Ho paura – conclude il poeta – che oltre alla charitas dell’elemosina (che lei fa bene ad approvare) ci siano nella vita infinite altre forme di charitas (e di amore) che l’italiano come piace a Lei non conosce. E a me duole, caro Ansaldo, di vivere in un paese senza amore».