Corriere della Sera, 17 marzo 2023
Gli inviati al seguito del processo di Norimberga
berlino Erika Mann scriveva per il quotidiano inglese «Evening Standard» e faceva finta di essere americana. Scrittrice e figlia del premio Nobel Thomas, che nel 1933 aveva scelto l’esilio in Svizzera, trattava i tedeschi con disprezzo e disgusto: «Gente cattiva e sciagurata», definiva i suoi connazionali. Ma non era solo la vergogna di dirsi tedesca. Spacciandosi per cittadina degli Stati Uniti, aveva più accesso. Come quando riuscì a intervistare Ilse Hess, la moglie di Rudolf Hess, ex delfino di Hitler e uno degli imputati, che non sapendo chi fosse le parlò a cuore aperto e senza filtri.
Chi non aveva nulla di cui vergognarsi era Martha Gellhorn, celebre inviata di guerra e seconda moglie di Ernest Hemingway. Prima di ritrovarsi insieme al marito a Norimberga, si era finta infermiera ed era riuscita a sbarcare in Normandia con le truppe alleate, che poi aveva seguito di nascosto (le giornaliste donne non erano ammesse in guerra) raccontando per prima la liberazione dei lager di Buchenwald e Dachau. Lei dei tedeschi diceva che «hanno un gene fuori controllo, ma di che gene si tratti non lo so».
Ernst Michel, il solo sopravvissuto all’Olocausto fra i giornalisti che coprivano il processo, era inviato per l’agenzia tedesca Dana e firmava i suoi dispacci «Special Correspondent Ernst Michel, Auschwitz No. 104995», il numero che gli avevano marchiato sul braccio nel campo di sterminio. Hermann Göring, che fece ricorso a tutto il suo cinismo istrionico nell’inutile tentativo di salvarsi, lo invitò nella sua cella e cominciò a parlargli in toni amichevoli. Michel resistette solo un paio di minuti, poi scappò via: «Non potevo sopportarlo oltre», disse di quell’incontro.
Il processo ai capi nazisti si aprì il 20 novembre 1945 a Norimberga e si concluse il 1° ottobre dell’anno successivo. Inviati da quasi trenta Paesi calarono in Franconia per raccontare l’evento del secolo: la prima volta di una corte penale internazionale chiamata a giudicare gli orrori della guerra hitleriana, lo sterminio degli ebrei d’Europa, i crimini contro l’umanità.
Con la città quasi completamente rasa al suolo, non era facile però trovare alloggio per un corpo stampa così nutrito e per tanto a lungo. Le autorità della zona di occupazione americana pensarono quindi di requisire un castello ancora in piedi, non lontano dal centro e appartenente alla dinastia Faber-Castell, trasformandolo in alloggio e luogo di lavoro per i giornalisti incaricati di seguire i lavori del Tribunale militare alleato. Era un edificio tetro, costruito nello stile di uno storicismo eclettico e pesante: «Il castello di Frankenstein», venne subito definito dai suoi ospiti, che dovettero convivervi per mesi e non smisero mai di ironizzare su quell’«atrocità tedesca».
Ma che ospiti! Oltre a Erika Mann, Gellhorn e Hemingway, c’erano anche Alfred Döblin, Eric Kästner e Wolfgang Hildesheimer. E poi John Dos Passos, John Steinbeck, Rebecca West, William Shirer, Louis Aragon, il paraguayano Augusto Roa Bastos e il cinese Xiao Qian. E ancora, il futuro cancelliere Willy Brandt e Markus Wolf, l’uomo che da capo delle spie della Germania Est avrebbe piazzato nel suo ufficio la talpa che lo avrebbe costretto a dimettersi. «A tutt’oggi non è mai più successo che tanti famosi scrittori da tutto il mondo siano stati riuniti sotto uno stesso tetto», dove «si sono incontrate la letteratura e la storia mondiali», scrive Uwe Neumahr in Das Schloss der Schriftsteller, il castello degli scrittori, che è appena uscito in Germania per i tipi di C.H. Beck e in Italia sarà pubblicato da Marsilio. Il libro ricostruisce lo straordinario microcosmo che vide insieme profughi e sopravvissuti alla Shoah, celebri romanzieri, veterani e reporter di guerra, avventuriere, comunisti militanti duri e puri e grandi inviati delle maggiori testate americane, «tutti uniti dalla ricerca di risposte, come quella catastrofe fosse potuta succedere, che tipo di persone fossero gli imputati e cosa avessero da dire a propria difesa».
E uniti anche da una quotidianità fatta di discussioni appassionate, drammi personali, pasti in comune, litigi furibondi, gelosie, corse verso il primo dei non molti apparecchi telefonici liberi, interminabili bevute notturne e feste da ballo, come quella di Natale, quando l’albero venne decorato con bottiglie di liquore e durante la quale un lampadario cadde in testa a Markus Wolf, mandato dalle autorità sovietiche, che seguiva il processo per la radio di Berlino Est, occupata dall’Armata Rossa.
Quello di Neumahr non è solo un libro di aneddoti gustosi e illuminanti. Come dice l’autore, al centro del suo lavoro c’è anche «l’assenza di parole e il rapporto letterario con l’indicibile». Anche loro, gli scrittori discesi a Norimberga, maestri della parola e artisti della metafora, fecero molta fatica, a volte annasparono per trovare i lemmi atti a descrivere l’orrore che veniva raccontato o mostrato in aula. «Di fronte a questi filmati sui lager, uno non riesce a finire un articolo che stia insieme», è una delle frasi attribuite a Eric Kästner. E in un reportage per l’«Evening Standard» dedicato ai difensori, Erika Mann scrisse che «tornando a casa pallidi in viso, invece di dormire, dovrebbero rimuginare su come sia possibile difendere ciò che è indifendibile». Molte volte si videro giornalisti ebrei lasciare la sala indignati e sconvolti.
Eppure, secondo l’autore, già nei reportage dal processo di Norimberga si potevano intravedere le linee di frattura del prossimo conflitto, quando la Cortina di ferro individuata mesi prima da Churchill sarebbe definitivamente calata sull’Europa, divisa in due dalla guerra fredda. La speranza che il tribunale dei popoli aprisse un’era di democrazia e valori condivisi svanì rapidamente sotto il tallone di ferro dello stalinismo.
Willy Brandt, il socialista in esilio, raccontò il processo per i media norvegesi. I suoi erano articoli sobri, scritti sotto «un carro armato emotivo» secondo Neumahr, di cui il futuro cancelliere avrebbe parlato soltanto molti anni dopo. Brandt era contrario alla tesi della «colpa collettiva tedesca» e sosteneva che occorresse sì punire i colpevoli, ma poi si dovesse osare il nuovo inizio unendo la «Germania migliore», dove si sarebbero ritrovati tutti i nemici del nazismo. Questo suo patriottismo democratico non gli avrebbe risparmiato in patria l’accusa di «comunista» e «traditore».
Ma una così formidabile muta di giornalisti fu causa di instabilità e fastidio anche per i criminali nazisti, non abituati alla stampa libera, che nel Terzo Reich era stata calpestata e soppressa. Perfino l’imperturbabile Albert Speer, l’architetto di Hitler, l’uomo che riuscì a ingannare i giudici sul suo pieno coinvolgimento nella pianificazione dell’Olocausto cavandosela con venti anni di carcere, si disse «indignato» nelle sue memorie quando apprese che i reporter britannici avevano organizzato una sweepstake , accettando scommesse su chi tra gli imputati sarebbe stato impiccato e chi no. La lotteria ebbe grande successo. Ma pare che su di lui si sbagliarono tutti.