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 2023  marzo 17 Venerdì calendario

Così la cocaina ha rubato la scena all’eroina

Nei primi anni Ottanta mi capitò di interrogare un piccolo spacciatore di cocaina. Un poveraccio preso con le mani nella marmellata, ma estraneo ai giri della «mala» che conta. Mi disse che per lui la coca era una necessità: «Di mestiere, dottò, lavo i morti per le pompe funebri. Se a fine serata non mi tiro un po’ su, non c’arrivo a domani».
Il mito della cocaina come droga dell’alta società, vettrice di sensazioni adrenaliniche, dinamo di performance orgiastiche, rifugio e patrimonio di artisti sregolati votati alla perdizione, la coca «che non mente» di JJ Cale ed Eric Clapton, tramonta definitivamente alla fine degli anni Settanta. Da quel momento in avanti, se mai c’è stata una droga trasversale, interclassista, universalista, quella è la cocaina. C’è un passaggio molto preciso che marca la frattura fra un prima in cui la cocaina è soltanto una delle possibili sostanze eccitanti, la più elitaria, e un dopo in cui diventa la regina indiscussa dello sballo. È il momento che coincide con l’avvento del «riflusso». Per tutti gli anni Settanta la scena è dominata dall’eroina. Si creda o meno ai piani CIA per inondare il mercato di oppiacei e stroncare la gioventù, resta l’incontrovertibile dato di fatto di una generazione largamente falcidiata dalla tragedia del «buco».
Per anni la cocaina se ne sta in disparte, come se osservasse, sorniona, gli eventi, in attesa della sua occasione. E l’occasione arriva con la svolta degli anni Ottanta. Siamo stanchi di politica, utopia, grandi costruzioni ideali. La cocaina sembra tagliata – si passi il gioco di parole – apposta per accompagnare l’Occidente in una nuova, trionfale cavalcata costellata di disimpegno, superficialità, bellezza, successo, fitness, glamour. La coca è compatibile, non ti costringe alla triste sfilata degli zombie nei parchi degradati. La coca fa stile. Paradosso fra i paradossi: la coca trionfa sull’onda dell’edonismo reaganiano, e Reagan è il più inflessibile paladino della lotta senza tregua ai trafficanti.
In uno dei suoi capolavori di qualche anno fa, «Cocaine Nights», J.G. Ballard racconta di borghesi ricchi, spenti, annoiati, che si autorecludono in recinti protetti da vigilantes armati, e che solo attraverso la pratica del crimine riscoprono il residuo gusto dell’avventura, del rischio, dell’azzardo. La cocaina è la linfa di un atroce gioco di ruolo in cui il confine fra norma e trasgressione viene definitivamente annullato. Le fantasie degli artisti sembrano spesso esagerazioni, ma a volte contengono profezie: i lussuosi resort di Ballard evocano la reclusione, doverosa, ma pur sempre coatta, della pandemia. E le statistiche impietose segnalano che dalla pandemia è venuta una poderosa spinta al consumo di cocaina.
Dopo quarant’anni di proibizionismo, i pasdaran della tolleranza zero dovrebbero forse porsi qualche interrogativo. La coca oggi muove miliardi, alimenta potenti cartelli criminali, domina, incontrastata signora, le notti elettriche delle nostre grandi città e dei più sperduti borghi, rovescia nei circuiti finanziari oceani di denaro sporco che tutti esecriamo, e che in un silenzio ipocrita in troppi ritengono essenziale per la sopravvivenza delle nostre economie. Le pene esemplari e le grida manzoniane non hanno piegato il narcotraffico, e il gusto dello sballo, lungi dall’arretrare, sembra impennarsi. Magari è il momento per tentare strade diverse.