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 2023  marzo 17 Venerdì calendario

Scudo da 50 miliardi, Credit Suisse respira

Il Widder Bar è uno dei locali più eleganti di Zurigo. A 350 metri da Paradeplatz, quartier generale di Credit Suisse, è il ritrovo dei banchieri della città. Alle 18.30 sala e bancone sono affollati di avventori che sorseggiano aperitivi da 25 franchi. Anche stasera, conferma il barista greco, non mancano ex manager dell’istituto che nella tempesta finanziaria si è aggrappato al salvagente da 50 miliardi di liquidità gettato dalla Banca nazionale svizzera.
Nessuno ha voglia di parlare delle ultime ore vissute sull’ottovolante della Borsa né dei mesi di scandali che le hanno precedute. Non è chiaro se il silenzio sia dovuto alla proverbiale riservatezza della patria del segreto bancario. Oppure alla serenità ritrovata grazie all’intervento delle autorità elvetiche a sostegno del Credit Suisse. O, come molti qui la chiamano quasi a ricordarne i tanti manager e clienti italiani, Credito Svizzero.
In apparenza, insomma, a Zurigo la vita scorre placida come sempre: non ci sono code dinanzi agli sportelli della banca né si percepisce preoccupazione fra i passanti. Nelle stanze dei bottoni, però, si avverte ancora l’eco della tensione che ha spinto le assicurazioni sul fallimento di Credit Suisse a 1000 punti base. Tale livello equivale a una probabilità di default a cinque anni del 50%. Eccessi della speculazione?
È la tesi di molti zurighesi e di Credit Suisse che ieri ha ribadito la propria solidità patrimoniale e capacità di far fronte a eventuali riscatti. Intanto, l’analista bancario di un primario fondo di investimento ha portato ai colleghi un vassoio di pasticcini per festeggiare la poderosa ripresa del titolo che ieri ha chiuso in rialzo del 20% dopo il tonfo del 30% di mercoledì.
La convinzione diffusa è però che sia presto per celebrare: l’istituto ha ancora una lunga strada per ritrovare il profitto e chissà se mai tornerà ai 44 miliardi di capitalizzazione del 2017 (ieri erano 8,1, meno di un quinto). Prova ne sia che, dopo una breve pausa, ieri i credit default swap di Credit Suisse hanno ripreso a salire e i prezzi dei bond a scendere. Nubi di sfiducia che preannunciano nuovi rovesci.
«Le autorità hanno aspettato troppo a intervenire e ora la reputazione del sistema finanziario elvetico è in pericolo», sostiene un consulente che ha lavorato a lungo per Credit Suisse. «La fuga dei depositi dalla banca era in atto da tempo», sottolinea, «la clientela di Credit Suisse non è composta da impiegati, ma da gente che di soldi se ne intende e ha fiutato subito il pericolo». Poiché le difficoltà erano note da mesi, però, il banchiere non si spiega il tracollo improvviso delle azioni. O meglio, trova delle ragioni che nulla hanno a che fare con i fondamentali economici della banca.
«Le dichiarazioni del presidente di Saudi National Bank, primo azionista al 10%, sono state una mazzata per Credit Suisse: non è compito suo ma del cda discutere eventuali aumenti di capitale», prosegue Il riferimento è all’«assolutamente no» pronunciato mercoledì da Ammar Alkhudairy in risposta a chi chiedeva se sarebbe stato disponibile a fornire altri fondi a Credit Suisse. Il manager saudita ha poi corretto il tiro, chiarendo che citava limiti regolamentari e che comunque l’istituto era solido.
Ma ormai era tardi: il mercato aveva già venduto a piene mani le azioni europee, dimenticando d’un tratto il collasso di Silicon Valley Bank e Signature Bank negli Stati Uniti. Qualcuno maligna che sia in fondo questa la ragione della “gaffe” saudita e dell’accanimento borsistico sugli istituti del Vecchio Continente: un diversivo per distogliere l’attenzione dal secondo e terzo crac bancario per dimensione nella storia americana. «Non è un segreto che gli anglosassoni non amino la nostra neutralità diplomatica», soggiunge un altro ex Credit Suisse, rammentando la repentina uscita dall’azionariato della banca del fondo Usa Harris Associates.
Pur riconoscendo gli errori di Credit Suisse, dunque, nella comunità finanziaria svizzera si va a caccia del cui prodest, con esiti più o meno credibili. Di certo, seppur involontariamente, la rivale Ubs sta traendo vantaggio dai tormenti della concorrente. «Il primo appuntamento disponibile per aprire un conto è il 22 marzo», spiega un addetto della filiale Ubs di Bahnhofstrasse, «mi spiace ma c’è molta domanda». Anche da parte di clienti di Credit Suisse? «Sì».
Sarà un caso, ma il vicino ufficio di Credit Suisse ha posto per la mattinata di oggi. «I conti sono al sicuro», garantisce l’impiegato, «dovessero esserci problemi, interverranno le autorità come hanno già fatto nel 2008 con Ubs: siamo troppo grandi per fallire». A Zurigo quasi tutti la pensano così: la Svizzera è nota in tutto il mondo per la sua stabilità politica e finanziaria. Non può permettersi un crac bancario dalle conseguenze imprevedibili sull’equilibrio locale ed europeo.
Fuori dalla Confederazione hanno opinioni diverse. «I depositi tedeschi sono al sicuro», ha detto il cancelliere tedesco, Olaf Scholz, escludendo rischi di contagio in Ue. Jp Morgan ha messo persino in dubbio la natura sistemica di Credit Suisse, individuando tre scenari di ristrutturazione. Per gli analisti del colosso americano il finale più probabile della saga Credit Suisse è l’acquisto da parte di un istituto concorrente, con Ubs come candidata ideale. Al Widder Bar, tuttavia, nessuno è disposto a scommetterci una bevuta: fonti vicine alle due banche elvetiche hanno già rifiutato il matrimonio combinato. Ci sarà tempo per esaminare eventuali altri pretendenti?