Avvenire, 16 marzo 2023
Giovanni Testori critico d’arte
Si partirebbe col piede sbagliato se si celebrasse l’opera come critico d’arte di Giovanni Testori – morto trent’anni fa il 17 marzo, ma di cui ricorre quest’anno anche il centenario della nascita, a Novate, in provincia di Milano, il 12 maggio –, sarebbe appunto un passo falso dimenticare che prima ancora di scriverne, il giovane Testùr, come lo chiamava Longhi, li frequentò gli artisti fin da giovanissimo. A sedici anni già era amico di Morlotti e Guttuso, aveva rapporti con Gio Ponti, che nel 1939 gli pubblicò su “Domus” – dici a volte il destino! – un articolo su Caravaggio. Circa quarant’anni dopo, nel 1982, Testori tenne a Rimini una conferenza dove definì Caravaggio «la capitale mobile dell’arte europea». Era, assieme a Géricault, uno degli artisti che più amava, un amore viscerale, perché, credo, un po’ si identificava con questi due geni tormentati (di contrappunto, venerava il dolce “padre Gaudenzio”, l’artefice di buona p’arte del Sacro Monte di Varallo). Ebbe a dire, un anno prima di morire, che messo accanto a Géricault Delacroix, il pittore elettivo di Baudelaire, pareva una boutique. (E che David surclassava Canova, nello stesso neoclassicismo. Così come sosteneva che l’Ottocento italiano rispetto a quello francese «continua a essere miseria»). L’emozionale, il sangue, le viscere vincevano sulla freddezza della mente. E la critica diventava militante non per le spinte dell’ideologia ma per la condivisione, l’empatia fraterna che fa sentire gli uomini compagni di viaggio. Si dirà che questa è un genere di critica di significato relativo, ma ogni critico militante sa bene che il suo giudizio vale “qui e ora” e prima o poi subirà le more di un cambio di paradigma.
Tra i sedici e i vent’anni, però, Testori pubblicò vari articoli su alcuni periodici del Guf forlivese, “Via Consolare” e “Pattuglia” (vi collaboravano anche altri poi affermatisi come intellettuali di sinistra, per esempio Mario De Micheli); anche qui le strade della sua storia di scrittore, critico, drammaturgo lo portano in Romagna, dove agli inizi del 1987 gli viene conferito il premio Diego Fabbri per il teatro. In quell’occasione, incontrai la prima volta Testori per intervistarlo sui pittori tedeschi delle ultime generazioni che rappresentavano allora l’alternativa allo strapotere dell’arte americana. Testori difendeva questi pittori con pezzi critici sul “Corriere della Sera”, firmando mostre allestite dalle gallerie Cannaviello e Gian Ferrari a Milano. Nomi come Kiefer, A.R. Penck, Hödicke, Lüpertz, Disler, Anzinger, Middendorf, Baselitz – riassunti sotto l’etichetta Die Neuen Wilden (nuovi selvaggi) – esprimevano, con l’apporto, più svagato e ironico, della nostra Transavanguardia, un sentimento di ribellione che parve coincidere, a posteriori, con i movimenti da cui venne la caduta del Muro di Berlino. Probabilmente, c’era molto di più e altro: a ben vedere, proprio l’opposizione all’arte americana dell’epoca sembra un nuovo atto di resistenza della cultura europea ai poteri dominanti (non si dimentichi che il confronto fra arte astratta e realista, nel dopoguerra celò il confronto fra la Cia e il sovietismo); ma oggi, la caduta del Muro si ripercuote a distanza di oltre tre decenni in una grande confusione sotto il cielo dove, parafrasando Shakespeare, potremmo dire che c’è del marcio, a tinte fosche, in Europa. Testori rispose alle mie domande definendo questi tedeschi “scatenati” i pittori che esprimevano «una tensione quasi mistica dentro l’angoscia di vivere». E prefigurava il suo vaticinio del futuro: «L’uomo può ancora salvarsi, ma non gli basta più il silenzio di una metafisica privata, ha bisogno del silenzio e di una metafisica totale». Se fosse qui oggi, Testori avrebbe ancora quella tragica speranza che lo spingeva a sostenere la rivolta dei pittori tedeschi contro l’assordante conformismo di una Europa schiacciata già dalla società dei consumi e dalle sue perversioni economiche?
La critica di Testori non nasceva dai libri. Ancora ventenne, quando dedicava articoli a Carrà, Scipione, Giorgione, Leonardo, e introduceva un volumetto su Matisse, la sua scrittura nasceva dalle viscere e dal cuore. Nel 1947, alla Cattolica, doveva laurearsi sull’estetica del Surrealismo. Fu quasi cacciato perché, disse in seguito, «bisognava fare una specie di giuramento: non dovevamo abbracciare le tesi del modernismo». Intanto frequentava gli artisti di Corrente e dava le prime prove teatrali. Nel 1949 dipinse ad affresco le vele della Basilica di San Carlo a Milano con i quattro evangelisti, ma poi li imbiancò perché troppo “picassiani”.
Picasso era un segno di contraddizione per gli artisti italiani usciti dalla guerra, mentre astrattismo e realismo si fronteggiavano a colpi di scure. Per Togliatti Picasso era la degenerazione dell’arte rispetto agli ideali di popolo del realismo socialista. Una questione che non riguardava solo l’Italia, ma anche la Francia dove il marxista Garaudy invece lo difendeva. Guttuso resse il confronto con Togliatti. Nel 1946, a ventitré anni, Testori, firmò assieme a Morlotti, Dova, Paganin, Vedova e altri, il manifesto “Oltre Guernica”. Il testo si deve probabilmente in gran parte allo stesso Testori, che in quel momento pur combattendo con Guttuso e gli altri, dissentiva dal maestro di Bagheria: un anno dopo il manifesto Testori pubblicò un articolo in forma di lettera sulla rivista “Numero pittura” dove scriveva a Guttuso reduce dall’incontro con Picasso a Parigi e ribaltava la prospettiva: «Io non credo che il problema sia di poter arrivare alla realtà, ma di poter partire dalla realtà. Di avere cioè una fede che questa partenza permetta. E non tanto per dipingere, credimi, quanto per vivere».
Nei saggi sul Gran teatro montano, dedicati a Gaudenzio Ferrari, al Sacro Monte di Varallo e dintorni, Testori dichiara di esercitare una critica “emozionale”, non come immediatezza sensibile, ma come sentimento dell’irripetibilità di ciò che accade nel momento in cui si è di fronte all’opera d’arte. È su questa mentalità e disposizione dello sguardo che può far propria la polemica longhiana contro gli “uomini d’oro” del Rinascimento a favore dei pittori della periferia (i “pittori della realtà” lombardi che nel 1953 saranno esposti a Milano, la prima mostra nella quale Testori collaborerà con Longhi). Dalla periferia, troppo spesso presa come sinonimo di popolare e di pauperismo dallo stesso Testori, vengono Foppa e Romanino, Martino Spanzotti a Ivrea, Tanzio, Cairo, Serodine e Fra Galgario, Cerano e Ceruti, che in questi giorni è al centro di due retrospettive a Brescia. La lingua contro il dialetto: proprio nel 1966 Testori scriveva su Ceruti sotto questo profilo. Gli anni 50 e 60 sono quelli dove si delineano i punti fermi della critica testoriana – un piccolo testo come il Palinsesto Valsesiano ne è l’emblema e quasi un’anagrafe degli antenati – che identifica i suoi “fratelli e i suoi “nemici”. È anche il periodo dove cresce la ricerca narrativa di Testori,che confluisce nei “Segreti di Milano” (incompiuti), e quella poetica, che dai Trionfi prosegue fino agli anni 70 con la silloge straordinaria
Nel tuo sangue e il romanzo La cattedrale. Sono opere che segnano un cambio di registro che lo stesso Testori riassume così: «Fuggo nel Seicento». Il suo metro per guardare l’arte è ondivago, va e viene continuamente dal passato al presente. Negli anni 60 conosce e “adotta” Willy Varlin, un sodalizio lungo, dove il pittore, nato a Zurigo e morto a Bondo, rappresenta per il critico un anarchico alter ego, uno gnomo che vive tra le montagne, alcune care a Testori. Come già le “nature” e poi le rocce (e i “teschi”) che aveva introiettato occupandosi di un altro fratello di sangue, Ennio Morlotti.