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 2023  marzo 16 Giovedì calendario

Parla Francesco Micheli

«Poteri forti in Italia? Ne vedo ben pochi. E sì che ne ho incontrati tanti in passato. Ma oggi, cosa si intende per poteri forti?».
Ce lo dica lei.
«Nella seconda metà del secolo scorso c’erano ancora i padroni del vapore, simili ai tycoon americani di frontiera a cavallo del Novecento. Oggi il mondo è del tutto cambiato. La ragione di tutti i guai odierni sta soprattutto nella crisi di classe dirigente degli ultimi decenni – Alitalia, Ilva, Mps, Anas e così via —. Inventarne una più efficiente richiede tempi generazionali. La mediocrità strisciante riduce anche la credibilità di tante istituzioni, dalla magistratura ferita dalle contraddizioni interne a università lontane dai vertici internazionali: possibile che non ci sia un Premio Nobel dell’economia italiano?».
Ci si siede davanti a Francesco Micheli e il difficile è fissare i mille rivoli di una conversazione che sembra la raccolta dei titoli di giornale fin dagli anni Sessanta, l’altro ieri. Il suo maestro è il mitico Aldo Ravelli: socialista ospiatese col portafoglio a destra, con un figlio, a quei tempi «cinese», che andava in sezione con la Jaguar posteggiandola due vie più in là per non farla vedere ai compagni e una figlia che sposa Occhetto. L’Aldone a Mauthausen aveva salvato sé stesso e tanti altri promettendo un pozzo di quattrini a un kapò. Micheli si è scelto un papà musicista e un nonno massone che vestiva sempre di bianco, come Terzani. E Parma, e la tv di Edy Campagnoli che accompagnava al pianoforte nella bassa Pavese in un Lascia e Raddoppia dei poveri. Un salto a pochi anni fa, ecco Fuortes bocciato da Bazoli quando Pereira scappa dalla Scala, che finisce poi in Rai. Berlusconi, De Benedetti, il conte Auletta, Romano Prodi, Gardini e Calvi. Ma anche Pollini con Accardo e Berio al vertice del concorso pianistico più arduo del mondo che lanciò nel nome di suo padre. La Gae (Aulenti) che gli disegna la casa in montagna a Saint Moritz, le nature morte caravaggesche di quando aveva preso Finarte, la presidenza del Conservatorio di Milano e ora di Ferrara Musica, il gioiello di Claudio Abbado. Il sogno di Mito, quello vero dei tempi di Moratti e Chiamparino con Sgarbi e Alfieri, il grande unico palcoscenico della cultura tra Milano e Torino. E tutto quello che ha ancora in testa da realizzare.
Classe 1937, ma non si direbbe. Tenti di rallentare il fiume di parole ma ci riesci poco. Il passato si intreccia con il presente del Paese. Ed è lì che spunta un pizzico, forse qualcosa di più, di amarezza. Un’Italia che è alla continua ricerca del proprio essere, tra passioni politiche estreme e incapacità di trovare un posto nel mondo che non sia quello di regalare piaceri e stili di vita. Il finanziere «privo di scrupoli» che non ha dimenticato le sue origini, come si sarebbe detto ai tempi delle lotte operaie negli anni Settanta, sembra voler dire che è l’Italia ad aver un problema con il proprio passato.
E si può diventare anche ricchi come nel suo caso.
«Sì, si può diventarlo. Ma poi è facile perdere la testa di fronte alle lusinghe del dio danaro. Ai tempi del liceo classico venivo di notte qui a fianco (affacciati sul Castello e il Parco Sempione ndr), a fare lo scrutatore del Totip, lavoro a cottimo, per guadagnare qualche lira. Ho fatto anche la comparsa alla Scala. In casa non mi mancava niente, ma allora come tutti quelli della mia generazione avevamo il sacro fuoco di darci da fare, ed essere indipendenti dalla famiglia».
Ma la Shenandoah, il trialbero a vela da 54 metri con uno Steinway a coda nella libreria esiste...
«A mezza coda, e se per questo anche nella barca precedente, un ketch di 30 metri, avevo un piccolo Yamaha che faceva miracoli grazie ad Angelo Fabbrini, il più grande preparatore e accordatore, quello di Michelangeli e di Pollini. Resistette a ogni intemperie, dall’Antartide alla Polinesia, all’Alaska. Sono piaceri. Passioni. Divertimento. Se si ha il gusto di divertirsi è molto più facile realizzare operazioni imprenditoriali positive, come ho fatto inventando tante nuove iniziative, quelle che oggi vengono chiamate start up».
Tutto è iniziato però con uno dei signori della Borsa, Ravelli...
«Di sconti non ne faceva. Era riuscito a sopravvivere nel campo di concentramento di Mauthausen promettendo una montagna di soldi a un kapò per salvarsi e salvare i suoi amici ebrei diventati poi grandi clienti. Pensi che l’ho conosciuto quel kapò negli anni ’60 quando veniva due volte all’anno nell’ufficio di via Dogana, a prendere la paghetta».
Ma il salto arriva con Cefis.
«Formidabile, mi trovai da una parte Eugenio Cefis e dall’altra Gianni Agnelli, i due veri padroni d’Italia conflittuali tra di loro con in mezzo Cuccia che faceva la spola tra uno e l’altro, Arlecchino tra i due padroni, un capolavoro. Per i primi sei mesi non avevo un ufficio, stavo seduto su una pila di bilanci nel sancta sanctorum di Montedison, la segreteria. Da lì ho vinto, assieme a Vincenzo Maranghi braccio destro di Cuccia, la guerra contro Sindona per il controllo della Bastogi e ho portato in Borsa una marea di società del Gruppo».
E si accorgono di lei qualche anno dopo, nel 1985.
«Bi Invest».
La scalata Bi Invest ai Bonomi, a una delle famiglie che sembravano intoccabili a Milano, fece epoca.
«Ok, otto anni dopo essermi messo in proprio, sembrava una pazzia affrontare una delle famiglie che sembravano intoccabili a Milano. Ma i poteri forti comunque cambiano sempre, in parallelo con operazioni che trasformano un Paese. Pensi alla nazionalizzazione dell’energia elettrica del 1961. Non ricordo, ma saranno stati 1.500 miliardi di lire, una cifra incredibile per allora, oggi quasi un nonnulla. Purtroppo finirono tutti ai vertici delle società elettriche che ne fecero scempio, mentre agli azionisti, grazie a una campagna terroristica mediatica condotta da Nino Nutrizio della “Notte”, il giornale del pomeriggio milanese, furono dati titoli obbligazionari sulla base dei valori depressi delle azioni. I titoli elettrici erano allora il massimo dell’affidabilità, l’investimento preferito dalle grandi famiglie della borghesia che così di potere ne persero molto».
Bè anche con Bi Invest qualcuno si è impoverito...
«Tutt’altro, il grande rialzo provocato dal rastrellamento di titoli in Borsa produsse forti plusvalenze per chi vendeva i titoli. Però creò panico al sistema, ai padroni del vapore che possedevano solo piccole percentuali delle società quotate, mentre la maggioranza era diffusa sul mercato. Mi ricordo la mamma di Leopoldo Pirelli, Lodovica Zambeletti, personaggio di straordinaria intelligenza (al mattino aveva già letto i principali quotidiani stranieri) che mi diceva quanta apprensione la scalata Bi Invest aveva provocato a suo figlio Leopoldo».
E perché?
«Rischiava di perdere la Pirelli. La scalata Bi Invest fu un esempio, preso dai poteri forti come un fulmine a ciel sereno. Dentro quella scatola c’era il 20% della Fondiaria, una delle maggiori assicurazioni dell’epoca che se la batteva con le Generali e Ina. Ma anche il 17% di Gemina. Le racconto un piccolo segreto. La scalata fu facilitata da Cuccia, perché offeso da Carlo Bonomi che si era rivolto a Efibanca, concorrente di Mediobanca (di cui era anche in Consiglio) per emettere un prestito convertibile: uno sgarbo inaccettabile, il figlio che tradisce il padre, che lo spinge a vendere i titoli sul mercato, il che mi aiutò non poco. Lo stesso fece il dr. Giardina, ad della Finanziaria Milanese che aveva proprio i titoli Bi Invest in garanzie dei debiti di Bonomi, i riporti staccati di allora, che finirono sul mercato. Un secondo regalo del Padreterno per me».
Siamo alla preistoria della finanza attuale. Quella Gemina là?
«Sì quella Gemina al cui tavolo sedevano Fiat, Orlando il re del rame, Arvedi quello dell’acciaio e naturalmente i Bonomi. La Gemina di fatto controllava, tanto per dire, Montedison e Rizzoli. Carlo Bonomi non si accorse dell’operazione attribuendo il rialzo di Bi Invest al rialzo generale del mercato provocato dai grandi acquisti dei fondi di investimento appena introdotti in Italia».
Ma come anche Enrico Cuccia, il mago della finanza.
«Certo, ma eravamo sulla stessa sponda, poi ci fu un’incomprensione che gli fece dire che “appartenevamo a giardini zoologici differenti”. Non gli risposi che per me era un vanto».
E cioè?
«Lui si ritrovò a difendere le grandi famiglie. Raffaele Mattioli quando gli mise in mano Mediobanca se la immaginava come istituto che affiancasse le medie imprese per farle crescere. Ma Cuccia lo tradì facendo il contrario, il guardiano di alcune grandi famiglie».
Alla fine sempre una questione di soldi, di potere?
«Sì ma in modo diverso, perché oggi l’unico potere forte sta in America. Un Elon Musk o un Jeff Bezos oltre che arricchirsi e basta si assumono responsabilità ben più ampie di quello che fanno. Parlano alla pari col Presidente americano e sono in grado di lanciare un razzo in cielo al posto della Nasa».
Bé nel caso di Musk di portare da 7.500 a 2 mila dipendenti Twitter.
«Fa male certo, ma è una decisione schumpeteriana. La distruzione creativa, c’est l’Amérique».
Ma allora neanche in passato ci sono stati poteri forti in Italia visto lo stato del Paese.
«Ricordiamoci dell’ascensore sociale. Lei mi diceva prima che oggi io sono uno “stantebene”. Ma se sono arrivato qui è anche perché l’ascensore sociale funzionava a meraviglia. Vogliamo parlare delle diseguaglianze? La verità è che oggi pochi si prendono o vogliono prendersi responsabilità. I ricchi sempre più ricchi e i poveri il contrario. E in più il guaio per i giovani di affacciarsi al mondo operativo di oggi».
O forse anche pensare di contare. Per il gusto di scuotere l’albero lei dopo Bi Invest e la scossa ai Bonomi, si imbarca in Fondiaria, una scalata a una delle maggiori compagnie assicurative italiane. Altra scalata storica che spinge l’Avvocato Agnelli a definirla amabilmente un diavolo. Fece la famosa battuta: Bi Invest humanum, Fondiaria Diabolicum...
«L’Avvocato aveva una gran classe che gli consentiva di giocare sull’equivoco di quanto Fiat poteva dare ma soprattutto prendere dal Paese».
Cioè?
«Per esempio, l’aver chiuso il Paese alla competizione, qualche danno l’ha fatto all’industria dell’auto italiana. O no? Vede, quando gli americani di Pacific Telesys volevano entrare in Italia, cioè soldi che arrivavano nel Paese, ci inventammo Pronto Italia. E da lì il filo si snoda arrivando fino a Omnitel che diventa l’attuale Vodafone. Geronzi fu uno dei pochi che capì l’operazione che avevo lanciato assieme a Pellegrino Capaldo, Romano Prodi, Roberto Poli».
Ma vista la fine di Tim...
«Qui dobbiamo parlare delle tante occasioni perdute del nostro Paese. Vogliamo parlare di Fastweb? Assieme a Silvio Scaglia ci inventiamo e.Biscom, la mamma di Fastweb, valorizzando un asset di Milano, l’Aem; all’inizio del Duemila la città diventa una delle più avanzate al mondo per velocità di connessione su un unico cavo. Oggi è diventata svizzera».
Facciamo un passo indietro quando lei gestì l’operazione di Carlo De Benedetti con Calvi e il Banco Ambrosiano.
«Mi limiterei alla conclusione. Quando vengono a galla i buchi esteri del Banco, Calvi è all’angolo e per liberarsi dell’Ingegnere gli ricompra le azioni dell’Ambrosiano e altre attività. Io ero contrario alla cessione ma lui disse “non vorrei infarinarmi”. Un peccato, perché se non l’avesse fatto avrebbe sì avuto una sonora perdita ma oggi, con la sua abilità, sarebbe il padrone di Banca Intesa».
La cultura?
«Insieme a Pollini e Gae Aulenti lanciai il Festival Mito, il sogno di un unico palcoscenico tra le due città a soli a 45 minuti di treno. Nove anni fantastici, ma lottando contro vischiosità, burocrazie e primazie che la politica voleva avere. Vizio antico che non demorde, come Conte alla Scala».
Conte Paolo, giusto?
«Certo. Dobbiamo stare molto attenti. Sinora abbiamo parlato di eccellenze italiane che non siamo riusciti a preservare e rendere eccellenze mondiali. La Scala è eccellenza mondiale per definizione, come la Ferrari anche quando non vince. Ma per vent’anni l’abbiamo lasciata in mano a stranieri, noi che abbiamo inventato il melodramma».
Colpa della politica o di chi?
«Di un generale disinteresse. Incarnato da una classe dirigente anche politica che non ha avuto voglia di prendersi responsabilità. Non mi è parso vero, nel 2003, creare assieme a Umberto Veronesi, Genextra, innovazione nel campo delle biotecnologie e della genomica, una società per scoprire molecole in grado di curare malattie incurabili o allungare la vita. Business certo, ma anche qualcosa di più. Certe iniziative di gran moda oggi tipo criptovalute e Nft, Guido Rossi le chiamerebbe cag... La moneta è un’altra cosa, quanto l’arte non è uno scarabocchio, discrasie determinate dalla troppa liquidità in circolazione, tre volte quella necessaria all’economia globale. Ma ancora una volta, frutto di troppa sensibilità per il dio danaro. Così si finisce per vendere l’anima al diavolo facendo la fine di Faust».