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 2023  marzo 16 Giovedì calendario

Le memorie di Paris Hilton

«Senti, ho fatto e detto cose di cui non vado fiera. Giravo con quegli orridi cappellini da camionista firmati Von Dutch. Una volta sono andata a una festa di Halloween alla Playboy Mansion vestita da Sexy Pocahontas. A diciott’anni mi sono ubriacata a una festa e ho cantato un versione volgarissima di Gin and Juice di Snoop Dogg – conoscevo tutti i testi delle sue canzoni. Rifarei le stesse scelte, se avessi saputo allora tutte le cose che so adesso? Ovviamente no! Niente di tutto ciò riflette la persona che sono ora».
Non siamo purtroppo in zona Jane Austen, e Paris Hilton è la Lydia Bennett che possiamo permetterci in questo sgangherato 2023, ma se l’appena uscito (negli Stati Uniti) diario-confessione «Paris: The Memoir» non è ovviamente «Orgoglio e pregiudizio», resta comunque una testimonianza interessante per capire come l’inventrice, di fatto, dell’idea stessa di «influencer» trasformata poi in oro da imprenditrici più abili di lei a utilizzare i social media, sia rimasta clamorosamente spiazzata dalla sua invenzione.
Perché prima di Kim Kardashian e le sue sorelle e di tutte le altre giovani donne capaci di trasmettere le loro vite «aspirazionali» in tempo reale via social media, c’era Paris Hilton. Nei primissimi anni 2000 l’erede dell’impero alberghiero (oggi ha 42 anni) formulò il modello di business dell’influencer, o almeno ne espose le premesse: creare un «personal brand» basato sulla propria bellezza, lo stile di vita da miliardaria, Los Angeles e gli aerei privati, utilizzando Internet per diffonderlo esponenzialmente nel mondo. Però allora Facebook non c’era (nacque nel 2004 per far socializzare gli studenti di Harvard), Twitter non c’era (2006) e soprattutto non c’era Instagram (2010).
È un po’ come se Enzo Ferrari avesse inventato i suoi bolidi prima dell’invenzione della ruota – le Kardashian, arrivate dopo di lei, molto meglio di lei riuscirono a utilizzare i social come moltiplicatore della propria immagine – dei propri selfie (non è un caso se sulla profetica copertina della rivista di moda americana W, nel 2010, l’allora direttore Stefano Tonchi mise Kardashian fotografata da Barbara Kruger con le «strisce» che dicevano «Io sono al centro di tutto/No sei tu/No sono io»).
Cose di cui non vado fiera
I cappelli da camionista, la volta che andai alla Playboy Mansion vestita da sexy Pocahontas
È interessante leggere oggi Hilton, mamma 42enne, baby-pensionata del selfie, perché davvero creò il suo brand con spaventoso istinto per ciò che funziona online ma anche con altrettanto spaventosa incapacità di distinguere tra il trash e tutto il resto. Incapacità che affascina perché le rampanti Kardashian, nate da famiglia normalmente benestante nella San Fernando Valley cioè dal lato sbagliato delle colline di Hollywood, hanno fatto tesoro di tutti gli errori di Paris Hilton che nel mondo aspirazionale delle sorelle armene ci è nata – bionda, alta, magra, occhi azzurri, Beverly Hills, il nome già famoso nel mondo.
E così di «trashata» in «trashata» Paris si racconta. Scrive del rapporto nato male con Playboy: «Vivevo con due playmate, conoscevo Hugh Hefner, mi chiese di posare per la rivista: continuava a offrirmi sempre più soldi, diceva che potevo non essere completamente nuda ma solo in topless, oppure con lingerie». Alla fine Hefner mise una foto trovata in un vecchio servizio di provini, e il numero vendette benissimo grazie al nome di Paris «perché la gente si aspettava di vedermi nuda all’interno della rivista. Risultato: i miei genitori incazzati, io in lacrime».
E ci inquieta con il racconto del rapporto, in terza media, con l’insegnante carino: «Tutte le ragazze della mia classe erano innamorate di questo bel giovane insegnante che pareva un modello di Abercrombie: tutte lo adoravano, comprese le suore».