il Giornale, 16 marzo 2023
Le mille facce di Nerone
Intorno a Nerone è cresciuto un mito di crudeltà e follia, costruito dagli storici di parte senatoria e da quelli cristiani e tramandatosi sino al cinema hollywoodiano e a noi. Cosa c’è dietro il mito? Com’è il princeps, l’uomo? Due libri usciti quasi contemporaneamente, uno di un magistrale divulgatore, Alberto Angela (Nerone, HarperCollins, pagg. 400, euro 29,90), l’altro di una eccellente antichista, qui con la penna da romanziera, come Silvia Stucchi (Nerone, Giunti, pagg. 389, euro 14,90) si pongono l’interrogativo e arrivano a soluzioni assolutorie, sgombrando il terreno da tante calunnie e presentando Nerone in una nuova luce.
Nel suo aureo Vite dei Cesari lo storico romano Svetonio ci mette sotto gli occhi la figura di un principe assassino e depravato, su cui man mano prendono il sopravvento «violenza, libidine, prodigalità, avidità di denaro e crudeltà». Ma nella prima parte della sua breve vita (diviene imperatore a diciassette anni, muore quando ne ha trentuno), nessuno può negare che sa prendere buoni provvedimenti che gli attirano il favore del popolo: diminuisce o cancella le tasse troppo gravose, distribuisce sesterzi, garantisce un appannaggio annuale ai senatori privi di mezzi di fortuna, potenzia i giochi, i ludi detti Iuvenalia, Circenses, Maximi, sino a istituire i quinquennali Ludi Neroniani, concorsi musicali, ginnici e equestri. La sua passione per l’arte è sfrenata e prende ben presto il sopravvento sugli affari di Stato. Punta sullo spettacolo e trasforma in spettacolo la propria vita e il proprio modo di governare. Citaredo e autore di versi lui stesso, imbevuto com’è di cultura greca, per esordire sul palcoscenico sceglie Napoli, la più greca delle città italiane. Da lì, le sue esibizioni canore e teatrali si susseguono senza soste. Niente della dura serietà senatoria e repubblicana resiste in lui. La passione artistica guida la sua politica estera a rifiutare qualunque ampliamento dell’Impero e qualunque guerra, e se mai a progettare esplorazioni, come quella per trovare le sorgenti del Nilo e ricerche per riscoprire il tesoro nascosto della regina Didone.
Silvia Stucchi ricostruisce bene le lezioni morali del filosofo Seneca al giovane principe, che si rivelano presto inutili e a lui odiose. E ricostruisce l’importanza delle influenze che subisce, dalle sue donne, dall’amante Atte, la «muliercula», dalle mogli Ottavia e Poppea, e soprattutto da Agrippina, la madre. Ma l’idea che la vita sia solo spettacolo e che il fine cui tende il governare sia la bellezza, l’arte, il piacere fanno di Nerone un caso a parte nella storia di Roma: pare che a un certo momento abbia accarezzato il proposito di cambiarne il nome in Neropoli. Un pensiero blasfemo, che dimostra il suo distacco siderale dalle radici della storia dell’Urbe. Superstizioso, nemico di qualunque religione, ha un contatto con Paolo, di cui la Stucchi dà conto, prima di iniziare le persecuzioni dei cristiani. Spicca per prodigalità: durante i ludi fa scendere una pioggia di doni sugli spettatori, non indossa mai più di una volta la tessa tunica, arriva a giocare 400mila sesterzi al giorno.
Ragazzo, amò lasciarsi andare anche ad atti di teppismo, da trapper ante litteram, come quelli compiuti in piena notte o mentre vagava travestito per crocicchi e bettole, sinché le bastonate di un tribuno cui aveva molestato la moglie lo fecero desistere. Non desistette invece dai suoi eccessi sessuali. Svetonio li elenca implacabile. Attratto incestuosamente dalla madre Agrippina, pare che si masturbasse quando era in carrozza con lei, tanto che ne restavano i segni sulla veste. Fece evirare il giovinetto Sporo per poterlo tenere come moglie, e durante le orge, coperto da pelli di animali selvatici, si faceva sodomizzare dal liberto Doriforo. Convinto sostenitore del principio che nessun uomo è alieno da pederastia, Nerone appare così via via l’inventore della politica-spettacolo, il creatore dei Festival musicali, il teorico della sessualità «fluida», come dicono oggi i modaioli che credono di averla inventata loro.
Fu un assassino, questo è incontestabile, e per ordine suo morirono Britannico, Agrippina, Seneca, Ottavia, Petronio, persino il citaredo Paride, della cui arte era geloso. In una chiave di lettura che tenta di riscattarlo dall’infamia, sia Angela sia Stucchi sono generosi nell’insistere sulla sua politica fiscale più equa, sul suo sostanziale pacifismo e antimilitarismo. Angela gli attribuisce il merito della futura nascita del Colosseo, Stucchi arriva a definirlo «urbanista philokalòs» e cioè urbanista amante del bello, per la sua ricostruzione di Roma dopo l’incendio. Di 14 quartieri ne lasciò in piedi soltanto 4, e aprì la strada a una colossale riedificazione in cui spiccherà la Domus Aurea, con un vestibolo contenente una statua di Nerone alta ben 35 metri, con un porticato lungo un miglio e tre ordini di colonne, una piscina che simulava il mare: la casa che lui ritenne finalmente degna di sé stesso, della sua arte. Quando si sollevarono le legioni in Gallia, agli ordini di Gaio Giulio Vindice e di Severo Sulpicio Galba, destinato a succedergli, una volta perduto il controllo di quel potere che non gli era mai interessato se non per dissiparlo, irriderlo in nome della finzione artistica, si diede la morte, e l’ultimo suo pensiero andò alla sua condizione di artista, e non di imperatore romano.
La sua politica tra populismo e spettacolo appare così toccata dal demone e dalla tragedia. La politica-spettacolo moderna rinasce nella straordinaria avventura di Grabriele d’Annunzio a Fiume, poi man mano degenera sino ad oggi nel prevalere della televisione, dell’immagine e dell’effimero, nei «vaffa» di Grillo, nei sorrisetti in diretta Facebook di un premier per caso durante la pandemia. Dalla controversa grandiosità di Nerone, siamo passati a pochezza e ridicolo che sarà difficile a futuri storici riscattare.