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 2023  marzo 16 Giovedì calendario

In Europa decolla la spesa per le armi


C’era da aspettarselo. L’ultimo rapporto del Sipri, l’Istituto internazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma, è sconvolgente. Mentre tutti i continenti registrano un calo dell’import di armi, l’Europa volta le spalle al disarmo. È l’ennesimo stravolgimento indotto dalla guerra in Ucraina. Nell’ultimo quinquennio, gli acquisti di armi sono esplosi a ovest e a est del nostro continente, aumentando del 65%. E il trend continuerà, perché sono in ballo acquisti di sottomarini, aerei da guerra, droni di ogni categoria, missili a lungo raggio e carri armati. Entro il 2030, mille degli 8mila tank in servizio nel Vecchio continente andranno in pensione. Si aprirà un mercato delle vacche. Molti paesi dell’Est guardano già ai tank americani Abrams e ai sudcoreani Black Panther. General Dynamics, che produce i primi, è in crescita impetuosa. Si piazza al quinto posto mondiale fra le aziende belliche più opulente. Vende i suoi tank a 10 milioni di dollari l’uno. In Europa avrà nuovi clienti polacchi, rumeni e, forse, cechi. Noi punteremo sui Leopard tedeschi. È uno scenario tragico. Il capo di stato maggiore dell’aeronautica italiana punta ad incrementare pure la flotta di cacciabombardieri F-35, riportandola da 90 a 131 velivoli. Faremo il gioco di Lockheed Martin, sempre americana, che ce li vende a 78 milioni di euro l’uno, con prezzi che aumenteranno a breve.
A quel costo, rinunciare ad appena due velivoli, libererebbe soldi per costruire un intero ospedale da 650 posti letto. È un mondo che va in frantumi. Dieci anni fa, l’Europa era un florilegio di progetti pacifici. Il suo peso nell’import di armamenti non superava l’11% del totale mondiale. Oggi siamo i terzi utenti dei traffici di armi, con una quota del 27% del totale. Abbiamo quasi raggiunto l’Asia Oceania (30%) e il Medio Oriente (32%). La povera Ucraina, che prima dell’invasione russa non importava praticamente nulla, è diventata il terzo acquirente mondiale di armi, poco dietro India e Qatar. Merito di noi occidentali che, da oltre un anno, la rimpinziamo di strumenti di morte. Il terremoto non è ancora finito. Senza la guerra russa, le spese militari europee sarebbero cresciute del 14% da qui al 2026.
Ma a seguito dell’invasione balzeranno del 53-65%, sfiorando i 500 miliardi di euro. Lo prevede l’istituto McKinsey. Saranno soldi gettati al vento. Bastino pochi dati per capirlo: i 48 paesi più ricchi del pianeta destinano meno di 24 miliardi in aiuti allo sviluppo. E non è tutto. I dati del Sipri sono addirittura incompleti. L’istituto svedese ha registrato infatti un calo del 5% negli scambi mondiali di armi perché, eccettuata l’Europa, hanno importato meno l’Africa (-40%), le Americhe (-20%), l’Asia (-7,5%) e il Medio Oriente (-8,8%). Ma c’è poco di cui rallegrarsi, perché il mercato bellico frutta ai trafficanti ancora 100 miliardi di dollari l’anno. I colossi statunitensi ne intercettano il 40% del totale. Come prevedibile, la quota russa è crollata dal 2014 a oggi, scivolando dal 30% al 16%. Mosca è tallonata ormai dall’ascesa francese, con Parigi che vale l’11% dei valori globali esportati. Crescono vertiginosamente pure sudcoreani (+74%) e italiani (+45%). La nostra Leonardo macina contratti a iosa: ha ordini in pancia per più di 17 miliardi di euro, fra elicotteri da guerra, sistemi elettronici e jet.
La diminuzione complessiva del valore dei traffici di morte non significa poi che il pianeta sia meno armato. Certifica invece l’ascesa di produzioni belliche nazionali, che sostituiscono piano piano l’import. È un fenomeno in atto in Cina, in India, in Corea, in Turchia e che coinvolge pure gli emirati del Golfo Persico, perché le spese militari mondiali restano superiori ai 2mila miliardi di dollari.