la Repubblica, 16 marzo 2023
Credit Suisse ha ceduto al lato oscuro della finanza globale
L’anello più debole nel più solido dei Paesi. Quello “Suisse”, che troneggia accanto al Credit della grande banca che è strettamente zurighese e insieme la più globale che si possa immaginare, non è un semplice aggettivo, ma un marchio di garanzia, il segno di un’identificazione totale tra la Confederazione e l’istituto fondato nel 1856 da Alfred Escher – politico liberale, imprenditore nelle ferrovie, perforatore del Gottardo e per l’appunto finanziere in cerca di capitali per le strade ferrate – che nasce come “Schweizerische Kreditanstalt”.
Ma è un marchio che porta con sé una maledizione. Che sia la proverbiale discrezione svizzera o che si tratti al contrario – come lamenta la tv nazionale sul proprio sito «di una banca internazionale che ha perso di vista le sue radici svizzere», quel che è certo è che da un bel po’ di anni il Credit, benché o magari perché Suisse, ha attratto troppi clienti con un passato o un presente oscuro ben compensato da forzieri senza fondo.
Così un primo della classe dall’imponenza fisica che non si discute – millecinquecento miliardi di franchi svizzeri gestiti nel 2022 – si è trasformato in un “bad boy” della finanza internazionale, presente in ogni scandalo, rifugio sicuro di oligarchi e dittatori, investitore seriale nei peggiori affari sulle due sponde dell’Atlantico e qualche volta pure del Pacifico, fonte inesauribile per gli appassionati di “Panama Papers” e affini.
La quotazione del titolo riflettela parabola della banca: quindici anni fa valeva oltre 80 euro, cinque anni fa era a 15, ieri a meno di un decimo di quel valore. La reputazione ha seguito la stessa curva, che per inciso somiglia pure a quella della redditività: il risultato netto del 2022 è stata una perdita di 7,3 miliardi di franchi, la peggiore da quindici anni.
E dunque, in un breve e tutt’altro che esaustivo elenco di scandali& pasticci che da tutto il mondo hanno calamitato i banchieri di Zurigo ecco, esattamente due anni fa il crollo di Archegos Capital Management: quello che è un semioscuro “family office” – immaginate un fondo di investimento tagliato su misura sartoriale per i super ricchi – fa il botto a Wall Street dopo aver effettuato investimenti per decine di miliardi su prodotti derivati, che possono essere molto redditizise il mercato sale o disastrosi se il mercato scende. Il mercato, per l’appunto scende, e Bill Hwang, finanziere americano di origini coreane, finisce agli arresti. Tra i suoi principali finanziatori proprio Credit Suisse, che ci rimette 5 miliardi e mezzo di franchi, e la giapponese Nomura.
Nelle stesse settimane fallisce Greensill: mezza britannica e mezza australiana, creatura di Davi “Lex” Greensill, si proponeva come innovativo fornitore di servizi finanziari. Da Zurigo avevano deciso che ai clienti di Credit Suisse sarebbe convenuto investire in prodotti legati a Greensill; il risultato è un ristoro da 300 milioni che la banca deve pagare ai suoi clienti tra le censure delle autorità nazionali e internazionali.
Non basta? Ecco il patteggiamento del Credit Suisse per il suo coinvolgimento nello “scandalo del tonno” in Mozambico, dove la banca presta un miliardo di dollari a due società statali che distribuiscono poi allegre mazzette: inchieste, ira dei regolatori di Svizzera,Gran Bretagna e Stati Uniti e pagamenti complessivi che pesano su Zurigo per 475 milioni di dollari.
Ecco la condanna penale nella Confederazione per aver aiutato un’organizzazione bulgara di trafficanti di droga a riciclare i loro proventi, che secondo le testimonianze di un dipendente, venivano talvolta portati allo sportello in comode valigie piene di contanti. Ecco gli “Suisse Secrets”, i file che poco più di un anno fa rivelano i dati di 18 mila clienti, non tutti commendevoli. «Includono un trafficante di esseri umani nelle Filippine – scrive all’epoca ilGuardian un boss della Borsa di Hong Kong condannato per corruzione, un miliardario che ha commissionato l’assassinio della sua fidanzata... e politici corrotti dall’Egitto all’Ucraina». C’è la tragedia, ma anche la farsa: come quando, nel 2000, l’amministratore delegato Tidjane Thiam è costretto alle dimissioni dopo una storiaccia di pedinamenti di dirigenti della banca, uno dei quali era entrato in forte conflitto con lo stesso Thiam per beghe – milionarie – di vicinato.
Insomma, la banca che Alfred Escher volle per portare la Svizzera nella modernità, finisce per toccare, spesso – troppo spesso – il lato oscuro della globalizzazione. E oggi anche il suo variegato azionariato internazionale non è dei più tranquilli. Prendiamo le dichiarazioni di Ammar Al Khudairy, il presidente della Banca nazionale saudita, che ieri ha spinto la banca svizzera ai minimi storici, escludendo qualsiasi nuovo apporto di capitale legato al 9.9% che già possiede. È una mossa che va letta anche nel quadro delle tensioni tra sauditi e qatarini nella “guerra fredda del Golfo”, che ha visto proprio il Fondo sovrano del Qatar salire a gennaio quasi al 7% del Credit Suisse.
Insomma, ce n’è a sufficienza da mettere sull’avviso più di un cliente, da spingere a domandarsi se non si rischi di pagare a caro prezzo la tradizionale riservatezza dei paradisi bancari alpini. Se mai fiumi di denaro dovessero uscire dai forzieri del Credit Suisse, comunque, difficilmente finirebbero nelle banche della zona euro. Più facile che approdino in una Londra che ormai lontana dall’Europa punta a diventare autonoma capitale finanziaria.