La Stampa, 16 marzo 2023
A casa di Gianni Agnelli
C’è stata un’epoca in cui l’industria si identificava nella manifattura, la manifattura nella sua capitale naturale, Torino, la città in un’azienda, l’azienda in un uomo. Ciascuno di questi passaggi era considerato quasi ovvio, nessuno lo metteva realmente in discussione. L’unica strada per uscire da questa reductio ad unum era contestare radicalmente quel sistema ma anche così, come spiegava Marcuse, c’era la forte probabilità che il sistema stesso facesse sintesi assorbendo all’interno i suoi elementi conflittuali. Questa è stata la storia del Novecento italiano, questa è stata la storia di Torino, questa è stata la vicenda umana di Gianni Agnelli. La novità, nell’ampio documentario Gianni Agnelli, in arte l’Avvocato (Rai e La Presse) che domani sera andrà in onda su Rai Tre alle 21.25, è che quella parabola viene raccontata dai testimoni e, soprattutto, dai familiari dell’Avvocato che hanno accettato di portare la loro testimonianza. Fornendo così un racconto intimo e fortemente inedito di una figura che ha dominato la storia italiana del secolo scorso.
Dell’Avvocato si è detto e scritto molto nel ventennale della sua scomparsa. Di quanto fosse legato alla sua Fiat, alla Juventus, alla sua città (lo ricorda Ezio Mauro: «Delle quattro lettere dell’acronimo quella cui era più legato era l’ultima, la T di Torino»). Ma raramente abbiamo avuto la possibilità di sentirlo raccontare dal punto di vista del backstage, da dietro le quinte della sua vita di patriarca (l’unica a non parlare è la figlia Margherita, ancora oggi in contenzioso legale con il resto della famiglia). Una delle immagini più vive è quella di Ginevra Elkann: «Quando atterrava con l’elicottero arrivava in casa un’energia speciale che pervadeva tutto».
Agnelli a Torino era l’uomo dell’elicottero «che volava sulle teste di tutti e ogni tanto decideva di scendere in città tra noi terrestri», racconta con ironia Michel Platini, uno dei calciatori con cui l’Avvocato aveva stabilito un legame speciale. I nipoti John e Lapo ricordano un’infanzia spensierata e un nonno scanzonato: «Guidava in modo spericolato e noi nipoti ci divertivamo a metterci da un lato del sedile posteriore per rotolare dall’altra parte quando affrontava i tornanti», ricorda John. «Per me - dice Lapo - era un supereroe».
In un continuo rimando tra vita privata e scelte pubbliche il regista Emanuele Imbucci (che ha anche scritto la sceneggiatura insieme a Stefano Cappellini e Dario Sardelli) propone l’altalenante rapporto dell’Avvocato con i sindacati. Dal patto Lama-Agnelli del 1975 sul punto unico di contingenza allo scontro di cinque anni dopo a Mirafiori. Va ricordato che nel 1975 l’Avvocato era presidente di Confindustria e sentiva la necessità di stemperare il più possibile lo scontro sociale. Nell’80, ceduta la carica di rappresentante degli imprenditori italiani, aveva scelto la linea dura con i sindacati sulla ristrutturazione della Fiat. Lo scontro lo aveva però demandato a Cesare Romiti. «Aveva ritenuto opportuno - racconterà anni dopo l’amministratore delegato - che la Famiglia non fosse in prima fila nello scontro». «Sapeva capire - dichiara Lapo - fin dove la battaglia va combattuta e da dove va lasciata». John sostiene che senza l’accordo con Lama nel ’75, «che pure ebbe anche conseguenze negative, avremmo rischiato in Italia la guerra civile». Questo atteggiamento altalenante è stato per molto tempo uno dei temi del dibattito pubblico del Novecento italiano. Come si conciliava l’Agnelli americano e liberal, amico di John Kennedy, con quello italiano e duro avversario dei sindacati? Nel documentario è riportata una sua dichiarazione che cerca di chiudere la discussione: «Non credo di essere considerato un reazionario. Conosco quanto è duro il lavoro di fabbrica, conosco dove vivono i nostri operai». Per lo scontro dell’80 il lavoro più difficile era toccato a Romiti, manager romano con il gusto della battaglia, che durante il blocco dei cancelli aveva sfidato i sindacati andando di notte a guardare in faccia i presidianti durante i picchetti.
Questo è il Novecento. Con i ricordi dei nipoti sugli anni difficili del terrorismo: «Siamo nati in quel periodo, io nel 1976, mio fratello nel 1977», ricorda John. Anni in cui l’Avvocato sceglie comunque di non allontanarsi da Torino. E con le testimonianze degli operai che ancora oggi, intervistati sulla loro esperienza in fabbrica, rispondono anteponendo il cognome al nome, come i soldati in una caserma.
Il resto è glamour o, al contrario, dramma familiare. Paolo Mieli sostiene che gli anni delle avventure dell’Avvocato con i protagonisti del jet set in Costa Azzurra (mentre la gestione dell’azienda era sulle spalle di Valletta), «non furono solo anni di vita spensierata. Rappresentarono anche il periodo della costruzione di rapporti internazionali e della creazione di un mito che avrebbe accompagnato l’Avvocato per gli anni successivi». Il mito del tombeur de femmes che Gianni Agnelli non ha mai fatto molto per smentire, anzi. Non poteva mancare nel documentario una delle sue frasi più famose: «Ci sono uomini che parlano delle donne e uomini che parlano con le donne. Io delle donne non parlo». Del mito fanno parte le battute fulminanti. Quando Enzo Biagi gli ricorda che Tommaso Buscetta è un tifoso della Juventus lui lo ferma: «Se lo incontra gli dica che questa è una delle cose di cui non dovrà mai pentirsi».
Gli ultimi anni sono per l’Avvocato quelli difficili segnati dalla perdita del figlio. Tutti i nipoti ricordano i giorni della morte di Edoardo, suicida da un cavalcavia dell’autostrada per Savona. La testimonianza più toccante è quella di Ginevra: «Il nonno ci riunì tutti. Per lui quello è stato il lutto più difficile. Non è facile per un padre sopravvivere al suicidio del figlio. Ci disse che compiendo quel gesto Edoardo aveva avuto coraggio». Il suicidio di Edoardo Agnelli è del 15 novembre del 2000. Per ammissione di tutti i familiari da allora iniziò la parabola discendente dell’Avvocato che sarebbe morto due anni e mezzo dopo. Il ricordo più vivido di quei giorni è dello skipper Ben Mennen: «Dopo la morte di Edoardo la famiglia arrivò a Cannes. Andammo in barca. Navigammo in silenzio, per un giorno».