La Stampa, 16 marzo 2023
Storia di Credit Suisse
Per raccontare la storia di un disastro annunciato occorre partire dai prati verdi di Wimbledon. È una calda domenica di luglio del 2021. Sul campo centrale si gioca una delle finali più belle degli ultimi anni. Dopo un soffertissimo 6-7, Novak Djokovic piega Matteo Berrettini in quattro set. Nei costosissimi spalti qualcuno scorge un distinto signore portoghese. Si chiama Antonio Horta-Osorio, è l’amministratore delegato di Credit Suisse. Ha raggiunto Londra su un jet aziendale da settanta milioni di euro. In quei mesi per entrare nel Regno Unito è in vigore una rigida quaratena, ma il manager portoghese se ne infischia. Pochi mesi dopo, quando la notizia si diffonde, è costretto alle dimissioni per recidiva. Sei mesi prima era stato pizzicato e si era dovuto scusare per un caso simile durante un viaggio in Spagna.
Il quasi fallimento della seconda banca svizzera, prima vittima in Europa della nuova crisi iniziata in California, non è un caso di contagio sistemico. O almeno, per ora non ce ne sono tracce evidenti. Il presidente dell’autorità di vigilanza europea Andrea Enria ha dato mandato ai funzionari dell’Eurotower di raccogliere più informazioni possibili sulle esposizioni della banca svizzera in tutta Europa, ed evitare che il contagio si produca adesso. Sulle cause del crollo negli ambienti finanziari invece pochi hanno dubbi: Credit Suisse era una banca gestita malissimo. Ieri i credit default swap sul titolo – il termometro del rischio di fallimento – hanno raggiunto i massimi di sempre, più alti persino di quelli di Lehman Brothers alla vigilia del fallimento. Il panico prodotto dal fallimento di Silicon Valley Bank ha iniziato a colpire Zurigo venerdì scorso, quando il titolo aveva perso il 12 per cento. Ieri ne ha persi altri venti, costringendo la banca centrale di Berna ad una linea di credito di emergenza.
Giocando sull’assonanza, qualcuno l’ha ribattezzata Debit Suisse. Eppure a mandare a picco la banca nata a Zurigo nel 1856 non sono i debiti, bensì la fine della sua credibilità. «Tutto ciò che conta per chi fa quel mestiere, soprattutto se abituato a gestire grandi patrimoni», spiega Fabrizio Pagani di Vitale & co.
Tutto quel che poteva accadere, negli ultimi tre anni a Credit Suisse è accaduto. A febbraio del 2020 l’allora amministratore delegato Tidjane Thiam è costretto a dimettersi per aver fatto spiare un ex dirigente. La faccenda scuote l’opinione pubblica svizzera, anche per via del suicidio di uno degli agenti. Un anno dopo – è il marzo del 2021 – crollano due fondi controllati dalla banca. Il primo è americano, si chiama Archegos, ed è trascinato nel baratro dalla crollo in Borsa del gigante dei media Viacom. Secondo alcuni è costretto a sbarazzarsi di venti miliardi di dollari di asset, altri stimano il doppio. Pochi giorni prima la banca elvetica era stata costretta a liquidare altri quattro fondi gestiti insieme a una società australiana, Greensill Capital. Ad aprile si dimette il presidente del consiglio di amministrazione, a ottobre la banca deve pagare una multa da quasi mezzo miliardo di dollari per aver contribuito ad alimentare un caso di corruzione in Mozambico.
Il crescendo rossiniano è però nel 2022. A gennaio si dimette Horta-Osorio. Nemmeno un mese dopo scoppia lo scandalo «Suisse secret»: un informatore vende i dati di diciottomila clienti della banca. A giugno arriva la condanna per riciclaggio di denaro in Svizzera, il primo caso nella storia per una banca locale: sui conti erano transitati senza colpo ferire i soldi di un’organizzazione di trafficanti di droga bulgari. Dopo le dimissioni di due presidenti, a luglio arrivano quelle di un altro amministratore delegato, Thomas Gottstein. Il resto è cronaca di pochi mesi fa: all’inizio dell’autunno i nuovi vertici presentano un piano di tagli da diecimila posti di lavoro e un aumento di capitale da quattro miliardi di franchi: solo l’anno scorso la banca aveva accumulato perdite per sette. Secondo l’opinione prevalente degli esperti, i vertici non sono stati in grado di gestire nemmeno il piano di ristrutturazione, che procedeva a rilento.
Orson Welles amava dire che cinquecento anni di pace in Svizzera hanno prodotto solo gli orologi a cucù. Se c’è una cosa di cui gli svizzeri andavano altrettanto fieri erano le loro banche. E invece per evitare il peggio ad uno dei brand elvetici più famosi nel mondo sono stati necessari i soldi degli emiri sauditi e qatarini. Persino loro, di fronte al disastro, ora hanno fatto un passo indietro. Credit Suisse, cinquantamila dipendenti sparsi nel mondo e una massa gestita di 1. 600 miliardi di franchi, è troppo grande per fallire. Le ultime notizie raccontano di un salvataggio già organizzato dalla banca centrale svizzera che dovrebbe permettere l’ingresso nel capitale di Zurcher KantonalBank, disposta a rilevare le attività svizzere. Il resto confluirebbe in una bad bank per gestire le enormi perdite di questi giorni. Con quali conseguenze per il sistema finanziario europeo, resta tutto da vedere.