Corriere della Sera, 15 marzo 2023
Intervista a Filippo Del Corno
Filippo Del Corno, lei ha annunciato di lasciare definitivamente la politica per tornare alla musica. Perché?
«Ho fatto l’assessore alla Cultura al Comune di Milano per otto anni, chiamato da Giuliano Pisapia e poi confermato da Beppe Sala. Sentivo che un ciclo si era chiuso e che non avrei potuto dare di più in politica. Con la musica invece sento di poter dare tanto».
Infatti domani l’Orchestra I Pomeriggi Musicali eseguirà una sua composizione al Teatro Dal Verme di Milano.
«Con la direzione di James Feddeck, un lavoro che si intitola A coda di rondine, una serie di variazioni sul tema della Girometta, brano popolare. Non tutti sanno che io faccio musica da quando avevo otto anni, che sono un compositore e che insegno al Conservatorio di Trieste».
Nato a Milano nel 1970. Che cosa facevano mamma e papà?
«Papà insegnava letteratura greca e collaborava con attori e registi, mamma lavorava nella mediazione culturale. A casa mia si fermavano artisti e intellettuali, volevo fare il direttore d’orchestra. Poi scoprii, grazie a Paolo Castaldi, che comporre musica era la mia strada. A 19 anni scrissi il primo pezzo per pianoforte, Timer. Poi i viaggi, tante esperienze come la masterclass in Scozia con John Cage. Quindi con Carlo Boccadoro e Angelo Miotto fondammo Sentieri Selvaggi, ensemble che propone una nuova musica, vicina all’ascolto e al pubblico».
E andaste da Giorgio Strehler perché lui la portasse in teatro.
«Sì, eravamo giovanissimi e diciamo pure che lo tampinammo per giorni. Gli dicemmo: “Maestro, noi vorremmo fare una musica non fine a sé stessa, ma che vada incontro alla gente”. Lui rispose: “Ho capito, voi non siete di quelli che dicono di suonare l’Internazionale e poi fanno una pernacchia”. Un uomo sensibile e pronto a fare del Teatro Studio una vera officina».
Ma le avanguardie del secolo scorso non si sono discostate un po’ troppo dall’ascolto?
«Starei attento ai giudizi. Intanto da quella stagione sono usciti nomi come Schönberg e Berg. Certo, nella progressione la sperimentazione ha cercato sempre di più una musica che prescindesse dall’ascolto stesso e forse si è allontanata da quello che dovrebbe fare, cioè parlare del mondo, della società, del presente. Però è lì che sono nati Nono e Berio, tanto per restare nel nostro Paese. Lo vuole un aneddoto?».
Prego.
«A metà degli Anni 60 Luciano Berio andò a Londra a fare una conferenza su Laborintus II, opera complessa e non per tutti. Bene, tra il pubblico c’era Paul McCartney, nel periodo di massima popolarità dei Beatles. Quando Berio gli chiese perché fosse lì, Paul rispose: “To get ideas”, per trovare idee. Era un grandissimo ammiratore di Berio e questo ci dimostra anche la straordinaria porosità della musica».
Peraltro, è innegabile l’influenza che Stockhausen ha avuto su Battiato. Dunque, anche certi fenomeni indubbiamente popolari nascono in parte da quelle esperienze.
«Esatto e mi piace parlare di questo perché è una storia molto milanese. Per dire: John Cage ha influenzato gli Area. Milano, tra gli anni Settanta e Ottanta, è stato un crocevia molto importante di idee e stimoli. Chi ricorda oggi Gianni Sassi e la Cramps? Pubblicò Cage e Stratos».
E in seguito anche Rocchi e Camerini.
«Sì, Milano ha sempre avuto una straordinaria capacità di far dialogare ambienti differenti, i “colti” e i “popolari”. Ricordo benissimo quando morì Enzo Jannacci. Ero stato da poco nominato assessore e mi resi conto di quanto forte fosse quel simbolo della nostra comunità: parlava a tutti, senza confini, senza pregiudizi. E lo sa che oggi mio figlio ascolta le sue canzoni? Per tornare a Strehler, il suo Arlecchino è un unicum nella storia del teatro: si ripete da sempre e vorresti tornare a vederlo domani anche se lo hai già visto decine di volte. Tutto questo nasce da una forte osmosi di idee, abitudini, saperi».
Battiato lo ha conosciuto bene?
«Molto. Ancora un aneddoto, se vuole: avevo appena dato gli esami di composizione al Conservatorio e lui si trovava al Teatro Lirico, faceva le prove di un concerto. Andai a trovarlo in camerino e, senza che io premettessi nulla, mi disse: “Tu hai la faccia di uno che ha appena fatto gli esami”. Aveva una straordinaria capacità di indovinare la vita delle persone, sciamanica».
Non ha mai pensato di far eseguire la sua musica con Sentieri Selvaggi?
«Sì e le racconto questa: volevamo suonare alcuni pezzi scritti da lui negli Anni 70 e gli chiedemmo gli spartiti. Ma lui aveva conservato poco, perché nella sua testa quella era musica per essere incisa e non suonata. Però fu gentile: andò in cantina, tornò su con un faldone quasi illeggibile e disse: “Ecco quello che ho trovato”».
Nel 1992 lei era poco più di un ragazzo. Che ricordo ha di Tangentopoli?
«Come di una frattura. Una rottura tra la società civile e le istituzioni democratiche. Ma la vera ferita per me risale a diversi anni prima. Il 16 marzo del 1978 io avevo otto anni, ero andato a scuola come tutti i giorni quando la maestra, improvvisamente, ci fece mettere i cappotti, ci radunò in palestra e annunciò che nostri i genitori sarebbero presto venuti a prenderci: avevano rapito Aldo Moro e ucciso gli agenti della sua scorta. Fu un trauma: vedevo vacillare il mondo dei grandi. Più tardi, quando lessi le lettere di Moro, capii la sua intuizione della chiusura di un ciclo politico. E nacque così il nostro progetto operistico “Non guardate al domani”».
Nella sua storia personale e nel suo mandato politico lei ha visto Milano trasformarsi da città ferita dalle inchieste a città proiettata verso il futuro. Com’è avvenuto questo?
«Tangentopoli ha rappresentato uno spartiacque: da allora non è cambiato solo il rapporto con la politica ma anche la sua narrazione, la stessa informazione è mutata. Milano era gravemente colpita, ma ha avuto un’intuizione: dividendosi in un modello tribale non sarebbe andata da nessuna parte. C’è stata un’alleanza tra piani diversi e diversi strati della popolazione, a cominciare da una sintonia tra pubblico e privato. Questa unione di intenti è stata la forza. Il Covid ha di certo messo in luce alcuni aspetti che non funzionano come dovrebbero, come la sanità pubblica, però io penso che questo orizzonte comune sia il valore aggiunto di Milano».
Certo, Expo ha avuto il suo peso.
«Penso che sia stato benefico il conto alla rovescia. Il grande Philippe Daverio riassumeva così quell’ansia di fare bene e di dimostrare che si era capaci: “Fai not brutta figura”. Milano ha ritrovato anche qui uno dei suoi valori più profondi, un certo orgoglio misto a dignità».
Il suo più grande errore da assessore?
«Tempo di Libri (la fiera organizzata dall’Associazione italiana editori e nata nel 2017 da un’iniziativa parallela allo storico Salone del libro di Torino, ndr). Perché non ho saputo cogliere una cosa fondamentale: il Salone del Libro non è una cosa di Torino ma è dell’Italia, c’è un interesse nazionale che andava difeso a tutti i costi e avrei dovuto essere io, per primo, a dire “Il Salone non si tocca”. Anche se io premevo per una soluzione condivisa, una rassegna di editoria che unisse le due città, anziché dividerle».
Professore, dica la verità: qualche volta questa città ha esagerato con la retorica della metropoli «cool» e «migliore di tutte».
«Sono d’accordo. Nessuno ricorda che negli Anni 90 Milano guardava Roma come esempio di fertilità culturale, anche perché era lì che era nato il Parco della Musica, tanto per fare un esempio. Milano non è l’unica città al mondo e non è nemmeno l’unica città italiana. Io penso che le città siano organismi viventi: cambiano, si evolvono, migliorano e peggiorano, possono fermarsi per anni e poi ripartire. Non ci si deve fare la guerra gli uni con gli altri, ma si è più forti se ci si mette assieme».
Lei crede molto nelle alleanze?
«Molto. Per Milano sono necessarie. Per esempio, io ho voluto fortemente Milano nel circuito delle città più influenti nell’ambito culturale. Perché l’aver pensato alla cultura come collante sociale oltre che come volano di crescita economica, è stata un’altra intuizione di questa città. Mostre, concerti, teatro, grandi eventi: è stato questo che ci ha permesso di arrivare a essere considerati un posto dove vivere è piacevole, non solo vantaggioso sul piano del lavoro. Altro aneddoto: quando l’Eni ritirò la sponsorizzazione alla mostra a Palazzo Marino, che ci permetteva di portare a Milano un capolavoro da diverse parti del mondo, io dissi a Pisapia: prendiamo e valorizziamo opere importanti ma poco conosciute del territorio italiano. Un cambio di paradigma che ha funzionato anche perché ha messo in luce altre città, forse più piccole ma di grande valore culturale».
Sgarbi dice che la Pietà Rondanini del Castello Sforzesco deve tornare nel posto dove stava, cioè nell’allestimento pensato dallo studio BBPR. Ha ragione?
«No, ha torto. Premesso che non l’ho spostata io, ma Stefano Boeri, mio predecessore, penso che i musei non siano organismi statici. Gli allestimenti museali per me non sono un gesto artistico, ma sono elementi che si evolvono. Sarebbe come imporre di rappresentare la Traviata esattamente come nella prima messa in scena».
Che consiglio darebbe oggi a Sala?
«Non ne ha bisogno».
Forse sì.
«Va bene. Io penso che sarebbe un bene accogliere e valorizzare quella parte di cittadinanza attiva sul territorio e non considerarla come un ostacolo, bensì come una grande risorsa».
Si è accorto che abbiamo parlato di tante cose e nominato pochissime donne?
«Purtroppo anche nella musica sono state in ombra per tanto, troppo tempo. Oggi però mi fa piacere che anche nella composizione siano di più e di grande qualità. Un nome? La bravissima Silvia Colasanti. Ma potrei continuare a lungo».