La Stampa, 15 marzo 2023
La malattia di Concita De Gregorio
Dovete immaginare un giardino d’estate, una telefonata e un’amica - la più brava, l’infallibile, l’inarrestabile - che ti chiede: «Mi controlli tu il pezzo, lo guardi bene?». E poi ti dice: «L’ho scritto da sdraiata».
Concita De Gregorio ha avuto un cancro, lo ha detto parlando con Francesca Fagnani, a Belve, su Raidue. Non sapeva se lo avrebbe detto lì, ma poi è arrivata quella domanda: «Cos’ha pensato quando hanno scritto che si è fatta lo stesso taglio di Giorgia Meloni?». E la risposta: «Stavo per chiamare il direttore perché io preferirei avere i miei capelli. Questa è una parrucca».
La telefonata nel giardino d’estate è arrivata ad agosto perché è ad agosto che Concita si è operata. Lo sapevano le persone più vicine, non ha voluto dirlo agli altri. Ma «Bisogna sempre pensare che la persona con cui parli o di cui parli, da qualche parte, può avere un danno», dice ora. Vale per tutti, vale un po’ di più per chi di mestiere racconta il mondo. E invece, ci si pensa sempre troppo poco.
Non sapeva se l’avrebbe detto lì, Concita, ma sapeva che a un certo punto del viaggio lo avrebbe fatto. E non per sé. «Mi sono curata per un anno in una struttura pubblica, al Policlinico Gemelli a Roma. Il percorso in day hospital, la chemioterapia in day hospital: uno stanzone in cui non sei mai solo. Poi il reparto Terapie integrate che è un posto meraviglioso dove si prendono cura di te con il supporto psicologico, la fisioterapia, l’agopuntura, il nutrizionista. Anche questo è servizio pubblico. Vorrei dirlo perché abbiamo un grande problema con la sanità italiana, ma ci sono luoghi di eccellenza dove la persona viene prima del malato».
L’ha operata Riccardo Masetti, l’ideatore di Race for the cure. «Ho conosciuto solo persone che hanno avuto una cura straordinaria, ma non per me. Io ero in fila con il mio numero. L’hanno avuta nello stesso identico modo per chi era in fila prima di me e per chi stava dopo. Ho capito, ho saputo, che le donne che patiscono questo tipo di cancro sono una su quattro. E quindi, facendo i conti con la mia vita, ho pensato che moltissime persone che conosco o che noi conosciamo attraversano questo percorso in silenzio e in solitudine, senza dirlo. Magari perché in quel momento si vergognano di essere più deboli, meno attraenti, più fragili, meno competitive: lo stigma della malattia».
Così, «Fin dal primo momento ho pensato che questa cosa dovevo dirla in qualche modo anche per dare un posto a tutti quelli che fanno fatica. Stare in mezzo a queste persone, moltissime donne straniere, che non parlano bene l’italiano, mi ha fatto subito pensare che sarebbe stato giusto, a un certo punto, dire: guardate, sta capitando anche a me, si può fare senza che questo debba diventare tutta la tua vita. Senza trasformarti nella tua malattia. Sei una persona che ha una malattia, che cura quella malattia».
Chi ha visto Concita lavorare e vivere in tutti questi mesi sa che è così, o forse un po’ l’ha imparato. «La vita è piena di inciampi, lutti, dolori». «Dolori», ripete. «Morti, separazioni, frustrazioni, abbandoni. Ecco, questo è uno dei dolori che ti succedono. Se ci riesci puoi evitare che si prenda tutto lo spazio».
Non dirlo subito, dirlo dopo, quindi. E non perché sia giusto per tutti, ma perché era giusto per lei. «Il modo, il momento in cui rivelare e se rivelare dipende da ciascuno. Non c’è qualcosa di giusto o sbagliato». Dipende da chi sei. Da come ti senti. «Io ho preferito aspettare che la parte più complicata fosse alle spalle, prima di tutto per proteggere la mia famiglia e in particolare i miei figli. Il minore vive agli antipodi, a dieci ore di fuso orario da qui, e un conto è dirlo a qualcuno che ti guarda negli occhi, un altro è farlo a distanza». A distanza la paura ti prende, perché non lo sai, non lo vedi. «Prima di tutto volevo mettere in sicurezza i figli dando loro un’informazione esatta, ma con il calore, con la presenza. Avevo bisogno di andare da Bernardo e parlare con lui. E dico lui perché gli altri sono qui».
Non c’è solo questo. «E poi avevo il desiderio di sentirmi dritta».
Non voleva raccontare la fatica a fatica in corso. Non voleva uno sguardo di ritorno che le comunicasse comprensione, compassione, paura. Perché altrimenti non ci sarebbe stato più un minuto salvo delle sue giornate. E invece ci sono stati il teatro, il podcast nuovo, la tournée, il progetto di un nuovo giornale, In Onda tutte le settimane. «Se non avessi avuto la forza di farlo non lo avrei fatto, ma tutto questo mi ha sostenuta. Credo di aver attinto la forza dalle cose che facevo. Avere un compito che ti porta fuori da te è - per me - fonte di grande ossigeno, di grande energia».
A un certo punto, è anche partita. «Per andare in tournée con lo spettacolo e per andare a trovare Bernardo ho rimandato la chemioterapia di tre giorni. Sono andata dai medici e ho detto loro: la chemio di sicuro mi fa bene, ma sono sicura che mi farà non so se altrettanto bene, ma di certo molto bene, vedere mio figlio. E quindi troviamo un compromesso tra la fede cieca nella medicina e quello che mi dice il cuore: parlare con il mio bambino, mettere in scena questo spettacolo che amo e che mi fa sentire viva. Tornerò ad affrontare quel che devo, con più forza».
Della sua malattia, di quel male di cui ha detto ora e poi basta, perché «Non è che deve diventare una stagione, un "dicci meglio, dicci di più"», Concita dice: «La porto come un altro porta la morte di un genitore, l’abbandono di un amore, un figlio che ha un problema. La porto come si porta la vita». Che continua, non si ferma. «Poi certo io ci penso tutto il tempo, ma se anche gli altri fossero stati lì a pensarci tutto il tempo, poi di tempo non me ne sarebbe rimasto più».
E adesso? «Adesso che la parte più faticosa e difficile è passata mi restano delle terapie ancora da fare, che penso andranno avanti per molti anni, ma posso dire: è successo questo. E che investire nella sanità pubblica è una priorità assoluta perché quando ti succede un inciampo sei in balìa di chi ti deve curare e se funziona sei vivo, se non funziona chi lo sa».
Non sono tempi per i fragili, come Concita ha scritto su La Stampa l’8 marzo, invitando le ragazze del futuro a non essere per forza eroine, a non credere di dover esserlo a tutti i costi. «E invece siamo tutti estremamente fragili. Ogni tanto - penso - possiamo dirlo. Io ho avuto la fortuna di non fermarmi, ce la facevo, questo mi ha aiutata. Ma come molte persone ho affrontato il male molto tardi perché negli anni del Covid era come se il tempo si fosse fermato, se ci fosse solo quell’emergenza e a quella dovessimo pensare».
Dicono i medici che negli anni in cui il mondo è stato investito dall’emergenza Covid sono saltati moltissimi esami di screening. Dicono le senologhe che moltissime donne erano convinte di aver fatto la mammografia annuale nel 2020 e invece - senza rendersene conto - l’avevano saltata. È successo a Concita e non solo a lei. «La prevenzione ti salva la vita, questo lo sappiamo. Lo ripeto però per chi dice: non voglio controllare perché ho paura di trovare qualcosa». Invece si deve, perché quel qualcosa, se c’è, non diventi tanto forte da travolgerti.
Concita De Gregorio ha lasciato che a sapere fossero solo le persone più vicine, le persone a cui vuole bene, finché si è sentita fragile. «Adesso mi sento di nuovo forte. A chi mi chiede come stai dico: sto molto bene. Davvero molto bene».