La Stampa, 15 marzo 2023
La sanità disumana: 9 minuti per una visita
Forse nemmeno il dottor Terzilli, alias Alberto Sordi, avrebbe potuto fare più in fretta: 9 minuti per una visita, la maggior parte dei quali trascorsi a riempire moduli sul computer dopo aver dedicato appena una manciata di secondi all’ascolto del paziente. Se vogliamo un esempio lampante di come carenza di personale, condizioni di lavoro stressanti e tecnicizzazione portata all’estremo abbiano finito per disumanizzare la medicina, basta spulciare la ricerca dell’Università di Cambridge sulla durata media di una visita, condotta in 18 Paesi tra in quali l’Italia. Perché in 9 minuti non si può creare una relazione, tantomeno empatia tra medico e paziente. Tanto più se già dopo 20 secondi si viene interrotti dalle domande del medico. Che passa due terzi del tempo incollato a un pc a compilare moduli e ricette. O a scrivere su Whatsapp, visto che secondo una ricerca dell’Ordine dei medici di Firenze il 47,6% lo usa per dispensare ricette e consigli medici. Eppure svariate ricerche internazionali narrano che già quella relazione tra curante e curato è una terapia, in grado di ridurre fino a 4 volte il rischio di ricovero e di aumentare del 30% la possibilità di tenere sotto controllo patologie come la colesterolemia, il diabete o quelle cardiovascolari.
I dati sulla durata media delle visite sono del 2015, ma non è che da allora le cose siano migliorate, anzi. Perché in questi ultimi anni il personale è ancora diminuito, tanto che, secondo il recente Rapporto Crea, di dottori ne mancano 30 mila, di infermieri addirittura 250 mila. Vuoti in organico che sono diventati via via una voragine per effetto di una politica scellerata, che continua ad imporre un tetto assurdo alla spesa del personale, ferma al livello del 2004 e diminuita per di più dell’1,4%. Così, per aggirare l’ostacolo, Asl e ospedali ricorrono sempre più spesso ai medici a gettone, che finiscono nella voce di spesa per beni e servizi, che non ha tetti da rispettare, tant’è che come mostra la Relazione sullo stato sanitario del Paese appena presentata dal ministero della Salute, per la prima volta – spinta dai gettonisti – ha superato quella per il personale. Peccato però che i medici in affitto non sappiano nulla dei pazienti, che vedono una volta prima di rispondere alla chiamata di un altro ospedale. E a farvi ricorso sono sempre più strutture, tant’è che solo in Lombardia coprono oramai sui 45 mila turni l’anno e in Veneto 42 mila. Mentre 15 mila medici dipendenti affogano nel burnout, quell’insieme di depressione, stress e insonnia che finisce per alterare in peggio il rapporto con gli assistiti.
È questo insieme di fattori rendere così disumana la medicina in ambulatori e ospedali, come ci ha raccontato con amarezza ieri in una lettera sulle colonne di questo giornale Bruno Macchioni, ex primario di Ostetricia all’ospedale di Venaria (Torino), rimasto 16 giorni in un letto d’ospedale prima che un medico si prendesse effettivamente cura di lui. Ma se la medicina sta sempre più perdendo di vista il paziente è anche colpa della sua iper specializzazione e tecnicizzazione. «Oggi viviamo il paradosso di una tecnologia avanzata che “entra” sempre più a fondo nel corpo del paziente, ma che rischia di riportare sempre più all’"esterno” la figura del medico», spiega Dario Manfellotto, presidente della Fondazione Fadoi, la Società scientifica del medici internisti. Gli unici forse ad aver conservato una visione a 360 gradi del paziente fatto a spezzatino dalla medicina ultra specialistica. «La crescita esponenziale delle conoscenze e della tecnica – precisa Manfellotto – ha consentito successi inimmaginabili nella cura delle malattie. Ma la medicina di precisione e personalizzata si basa in realtà su una valutazione perlopiù molecolare, genetica, che ancora una volta vede lo strapotere della tecnologia rispetto alla valutazione clinica, che dovrebbe precedere e non seguire la tecnica». Un progresso che se non governato dai medici rischia di ridurre il paziente a un algoritmo.